approfondimenti/politica economica
Geopolitica&economia
La ricetta russa

Il complesso processo di evoluzione in corso da tempo nello scenario geopolitico ha molte cause e numerosi protagonisti, tra i quali un posto di rilievo spetta certamente alla Russia. Sotto il profilo strettamente economico questo Paese sta evidenziando innegabili aspetti di forza. Nel riflettere sulla sua proiezione futura è però necessario non sottovalutare le sue altrettanto innegabili criticità.

Silvano Carletti
Carletti

Dopo due anni difficili, la Russia sperimenta una congiuntura economica moderatamente favorevole che però nei valori della crescita risulta molto lontana dal dinamismo prevalente prima del 2008-09 (7,2% l’anno) o anche nel quinquennio successivo a quella crisi (+3,2%). La crescita economica, infatti, potrebbe posizionarsi intorno all’1,8% nell’anno in corso e su valori appena inferiori in quello successivo.
Al miglioramento del clima congiunturale ha contribuito la discesa dell’inflazione al di sotto del livello obiettivo stabilito dalle autorità (4%), circostanza che ha reso possibile un allentamento della politica monetaria con una riduzione del tasso di riferimento, fissato a fine ottobre all’8,25%. I tassi di interesse reali, tuttavia, si mantengono ancora decisamente elevati.
Sul fronte dei conti con l’estero la Russia conferma la sua solida posizione attiva Nel primo semestre del 2017 il saldo delle partite correnti è risultato pari al 3,5% del Pil, un livello leggermente superiore a quello prevalente nel precedente triennio. Questa dinamica dei conti con l’estero ha permesso un ulteriore rafforzamento della già rilevante dotazione di riserve internazionali che alla fine del settembre scorso ammontavano a circa $425 mld; quelle in valuta internazionale ($351 mld) equivalgono a circa 22 mesi di importazioni di merci e a quattro volte l’indebitamento estero a breve termine.

La favorevole congiuntura in atto rappresenta una svolta rispetto all’andamento recessivo registrato nel 2015 (-2,8%) e nel 2016 (-0,2%), biennio nel quale si sono riproposte le gravi fragilità che da tempo caratterizzano l’economia russa. Il processo di rafforzamento del circuito produttivo procede in effetti in modo molto incerto rispetto alla vulnerabilità determinata da ben individuati trend strutturali tra i quali un posto non secondario spetta indubbiamente al profilo demografico. La popolazione già relativamente poco numerosa (147 milioni circa) è soggetta da tempo ad un processo di diminuzione e di invecchiamento, con un saldo migratorio netto positivo ma per valori trascurabili (260mila circa nella media del triennio 2014-16). Ne deriva una discesa della quota di popolazione in età lavorativa che potrebbe arrivare a ridosso del 50% alla fine di questo decennio. Per contrastare questa evoluzione uno dei pochi passi possibili è quello di un allungamento dell’età lavorativa, che attualmente termina a 60 anni per gli uomini e a 55 anni per le donne. Le pensioni rappresentano la principale voce di spesa pubblica (assorbono quasi il 20% delle entrate totali)
A determinare le tonalità negative del biennio 2015-16 sono state molte circostanze ma tra esse due sembrano avuto un peso decisamente più rilevante: l’imposizione di sanzioni economiche conseguenti alla crisi apertasi in Ucraina nel febbraio 2014; l’andamento del mercato energetico globale.
Isolare la ricaduta delle sanzioni sull’economia russa è difficile. Si può osservare che tra il 2013 e il 2016 il commercio con l’estero risulta dimezzato (-45%), con una flessione largamente simile delle importazioni e delle esportazioni.
L’applicazione delle sanzioni ha evidenziato la debolezza del collocamento della Russia nel commercio internazionale. Di fatto questo Paese ha una sperimentata rete di accordi commerciali con i soli Paesi della CSI (Confederazione degli Stati Indipendenti), paesi che si stima (Fondo Monetario Internazionale) abbiano in termini di Pil un peso a livello globale inferiore all’1% mentre assorbono un quarto delle esportazioni russe di manufatti. Si tratta inoltre di paesi con un ciclo economico largamente parallelo a quello della Russia perché spesso anch’essi importanti esportatori di materie prime e/o perché fortemente legati all’economia russa (rimesse dei lavoratori emigrati ed esportazioni di merci).
Per risolvere questa debolezza la Russia ha intensificato i rapporti con India e Cina. Se nel primo caso la relazione è in gran parte da costruire (esportazioni russe nel 2016 pari ad appena $5 mld), nel secondo caso si è decisamente più avanti. La Cina è il primo mercato di sbocco per le esportazioni russe (oltre l’11% del totale nel 2016) e il paese più importante dal lato delle importazioni (23%). Le esportazioni petrolifere verso la Cina sono in forte aumento e lo scorso luglio per il quinto mese consecutivo la Russia è stata il principale fornitore di greggio. Il completamento del gasdotto “Forza della Siberia” (iniziato nell’agosto 2014 e probabilmente attivo già nel prossimo anno) consentirà un ulteriore salto in avanti nelle relazioni economiche tra i due paesi. Il legame tra i due Paesi è tale che secondo stime della Banca Centrale la riduzione di un punto percentuale della crescita cinese si traduce nel medio termine in un rallentamento di quasi mezzo punto del ritmo di sviluppo della Russia.

Le sanzioni imposte alla Russia hanno accentuato l’impatto negativo sulla dinamica economica derivante dall’andamento nel 2015-16 della quotazione dei prodotti energetici; analogamente la risalita del prezzo di questi prodotti ha fornito un contributo determinante per la favorevole congiuntura in atto e rappresenta un essenziale riferimento per le relativamente positive previsioni per il 2018. Se a metà 2014 il prezzo del barile di petrolio Brent si posizionava sopra i $110, nel gennaio 2016 risultava sceso a $32 (in alcuni giorni anche al di sotto dei $30); la successiva ripresa ha consentito a inizio 2017 di portare la media mensile delle quotazioni a $56, livello intorno al quale ha fluttuato per gran parte dell’anno ($58 ad ottobre); nei giorni più recenti le vicende interne dell’Arabia Saudita hanno spinto il prezzo di un barile di petrolio Brent oltre i $60. In effetti, risulta rispettato ed efficace l’accordo sottoscritto da paesi Opec e non-Opec per stabilizzare i corsi petroliferi mediante tagli nella produzione (l’accordo, rinnovato per l’intero 2018, prevede un sacrificio della Russia pari a 300mila barili/giorno).
Le statistiche dell’IEA (International Energy Agency) individuano nella Russia il principale fornitore mondiale di energia: secondo paese produttore e secondo esportatore netto nel caso del petrolio; secondo paese produttore e maggiore esportatore per quanto riguarda il gas; sesto paese produttore e terzo esportatore netto per il carbone. In termini di riserve i dati disponibili (da considerare con cautela) dicono che la Russia possiede le maggiori riserve mondiali di gas naturale, le ottave più grandi nel caso del petrolio e le seconde per quanto riguarda il carbone. L’ascesa a leader del mercato energetico mondiale è dato relativamente recente: la produzione di petrolio nel 1998 si fermava a 304 milioni di tonnellate, dieci anni dopo risultava salita a 494 milioni di tonnellate, il consuntivo del 2016 è di 547 milioni di tonnellate. In alcuni mesi dell’anno in corso la Russia ha spodestato l’Arabia Saudita come principale produttore mondiale di petrolio.
La straordinaria dotazione di risorse energetiche rappresenta una grande carta che la Russia può giocare per costruire il suo futuro (due terzi delle esportazioni russe sono costituite da prodotti energetici). La dinamica economica registrata nel recente passato sembra però indebolire questa posizione. Il tasso di crescita della Russia, infatti, risulta nel periodo 2009-17 inferiore di quasi 3 punti percentuali rispetto a quello in media conseguito dai paesi emergenti europei, paesi con una dotazione di risorse di gran lunga inferiore. A determinare questo ritardo ha certamente contribuito il modesto processo di diversificazione dell’economia. Uno studio del Fmi che mette a confronto l’esperienza della Russia con quella di 11 paesi emergenti nel periodo 2000-14 ha evidenziato alcune importanti circostanze per quanto riguarda gli investimenti: registrano una crescita elevata ma sono anche molto più volatili che altrove; il loro ammontare è sensibilmente inferiore al risparmio disponibile; sono in gran parte concentrati nell’attività estrattiva. Alcuni osservatori parlano di Dutch disease (in alcuni paesi un intenso sfruttamento delle risorse naturali si è combinato con il declino del settore manifatturiero). Nel caso russo più probabilmente la causa profonda del ritardo nello sviluppo delle attività non legate al settore energetico e minerario risiede nella insufficiente disponibilità di risorse imprenditoriali.

Se il processo di diversificazione dell’economia risulta in ritardo, con ben altra determinazione viene perseguito l’obiettivo di sanare le debolezze del circuito finanziario.
Malgrado l’intensa crescita negli ultimi anni, nel confronto internazionale il sistema finanziario russo considerato in tutte le sue articolazioni (mercato azionario, obbligazionario e sistema bancario) appare di dimensione relativamente contenuta (150% del Pil). Nel suo ambito la componente decisamente di maggior rilievo è quella bancaria, una prevalenza accentuatasi nel periodo più recente per effetto di una crescita molto sostenuta: tra il 2011 e il 2015 il rapporto tra totale degli attivi bancari e Pil è cresciuto di 30 punti percentuali salendo al 100%, declinando in misura contenuta nel 2016 (al 93%).
Nel portafoglio prestiti delle banche la quota delle imprese residenti si attesta (settembre 2017) al 46%, quella delle famiglie al 21% con le istituzioni finanziarie (residenti e non residenti) al 19%. Lo spazio riservato alle famiglie è quindi ancora decisamente limitato ma da tempo in forte crescita (nell’ultimo decennio, pur con qualche fase sfavorevole, si è accresciuto ad un ritmo annuo del 21%). Si tratta prevalentemente di prestiti al consumo (quindi non garantiti) mentre il mercato dei mutui si presenta come realtà ancora decisamente modesta (sul totale dei finanziamenti alle famiglie, i finanziamenti al consumo pesano per il 57%, i mutui per il 33%). La quota dei prestiti in valuta è di un qualche rilievo nel caso delle imprese (22%), mentre è praticamente nulla dal lato delle famiglie, circostanza che ha impedito il ripetersi in Russia di quello scenario negativo determinatosi in molti paesi dell’Est Europa (dall’Ungheria alla Polonia) in presenza di forti indebolimenti della valuta locale.
La crisi del 2008-09 e quella più recente del 2015-16 hanno inevitabilmente prodotto un rilevante deterioramento nella qualità del portafoglio prestiti. Secondo quanto pubblicato dalla Banca Centrale, a settembre 2017 i prestiti considerati irrecuperabili o quasi (quelli inseriti nelle categorie IV e V) erano pari al 9,8% del totale, 1,5 punti percentuali in più rispetto a inizio 2016 e il valore più alto dell’ultimo decennio. Questi dati vanno letti con cautela e potrebbero sottovalutare il fenomeno: in parte perché le classificazioni sono diverse da quelle adottate altrove, in parte perché non è possibile accertare la profondità di alcuni comportamenti (ad esempio, quello del roll-over di prestiti a imprese in difficoltà).
Una particolarità del sistema bancario russo è costituita dal limitato rilievo della raccolta di depositi, all’ultima verifica 20 punti percentuali circa al di sotto del dato dell’area euro. In effetti, le banche russe non sembrano aver riconquistato pienamente la fiducia dei risparmiatori segnati negli anni ’90 da non poche sfortunate esperienze. Le famiglie russe mantengono una parte consistente dei risparmi in contanti e spesso in valuta estera.
Uno dei problemi che le autorità stanno affrontando con decisione è quello della dualità del circuito bancario, con una parte di esso pericolosamente vulnerabile. Ad una recente verifica (settembre 2017), il circuito bancario russo risultava costituito da 576 istituzioni, 47 in meno rispetto all’inizio dell’anno, 157 in meno rispetto all’inizio del 2016. Il processo di semplificazione è in corso da tempo ma ha subito una drastica accelerazione dal 2014, poco dopo la nomina dell’attuale governatrice. Ne è derivata un’accentuazione del grado di concentrazione del sistema al cui vertice ci sono 5 banche pubbliche che da sole gestiscono il 55% dell’attivo del sistema; un altro 24% è di competenza delle successive 15 banche. L’intensa selezione in corso riguarda soprattutto le oltre 550 banche titolari del restante 11% dell’attivo del sistema.
A determinare la fragilità di molti istituti sono più circostanze. La prima è individuabile sicuramente nell’elevato ritmo di crescita del circuito bancario (+22% l’anno tra il 2010 e il 2014), fenomeno espressosi a livelli molto più intensi per molte banche minori. Altra causa di fragilità per le banche di minore dimensione è la ridotta popolarità dei depositi bancari: se le banche al vertice del sistema hanno una relativa facilità di raccolta per effetto sia della loro dimensione sia dell’implicita garanzia pubblica, questo non avviene per gli istituti medio-piccoli che si trovano cosi esposti all’instabilità del mercato interbancario. A questo si aggiunge che anche il ricorso alla banca centrale è per loro spesso problematico.
Le banche per le quali è necessario procedere alla chiusura sono quasi sempre di dimensione molto ridotta. Recentemente però questo tipo di vicenda ha avuto come protagoniste tre banche di un certo rilievo, tutte inserite tra le prime 20 per totale attivo, una il più importante gruppo bancario privato. L’intervento delle istituzioni è stato deciso per evitare un possibile effetto domino dopo che il fallimento in luglio della prima aveva indotto una crescente fuga di depositi dalle altre due. Il solo salvataggio di questi due ultimi gruppi potrebbe avere un costo complessivo compreso tra € 9,5 e 11 mld, importi che fanno salire la stima del costo complessivo del risanamento del sistema bancario russo a circa €50 mld. Confrontato con quanto avvenuto in alcuni paesi occidentali si tratta nel complesso di un importo relativamente contenuto (3,5% del Pil). Il processo però ha ancora molta strada da compiere (si arriva ad ipotizzare una riduzione fino a 50-100 istituti), un’ipotesi questa che le statistiche sulla redditività bancaria sembrano supportare (nei periodi più recenti verifiche le banche con i conti in rosso non sono mai meno di 170-180).

1. Sotto questo titolo il Fmi raggruppa 12 paesi tra i quali Albania. Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Turchia.