DISUGUAGLIANZE
La ricchezza in Italia è distribuita così

Una nuova indagine Bankitalia traccia i cambiamenti nella distribuzione della ricchezza dal 2010 al 2022. Ecco chi vince e chi perde. E perché questi dati potrebbero essere utili a ispirare una giustizia nel prelievo fiscale

Paola Pilati

Il viceministro all’Economia Maurizio Leo ha dichiarato che la guerra all’evasione si gioverà di una nuova arma: i social. Sarà setacciando Facebook, Instagram, tiktok e simili, che prove inconfutabili della ricchezza celata al fisco finalmente emergeranno. Tutto ovviamente se il Garante della privacy lo permetterà.

Non si sa se ridere o piangere per l’improntitudine dell’esponente del governo – peraltro personalmente competente della materia di cui deve occuparsi – che, pur avendo a disposizione fior di banche dati da utilizzare per incrociare elementi utili a snidare i contribuenti infedeli con indicatori di standard di vita e di consumi (rinnovo del parco macchine famigliare, domestici iscritti all’Inps, compravendite immobiliari e via dicendo), vuole convincere che saranno i post con le foto in settimana bianca a sgominare un male endemico, l’evasione, dopo aver bollato le tasse come “pizzo di Stato”, per bocca di Giorgia Meloni.

Ben venga che sia stata bandita la nuova crociata per raddrizzare la madre di tutte le ingiustizie: che cioè sono le tasse dei lavoratori dipendenti a reggere da soli tutto il sistema del welfare. Ma restano molti dubbi sull’efficienza del nuovo metodo indicato. Pochi dubbi, invece, sul solito uso dell’”effetto annuncio” a cui segue ben poco di concreto.

Per conoscere più da vicino il popolo dei contribuenti, gli strateghi della crociata potrebbero utilmente avvalersi della nuova indagine sulla distribuzione della ricchezza appena sfornata da Banca d’Italia, che utilizza dati inediti e mette in soffitta quelle redatte finora. È vero che la ricchezza non vuol dire reddito, ma neanche una foto sugli sci o su un motoscafo necessariamente lo è.

La ricerca, che parte dal 2010 e arriva a fine 2022, illustra proprio questa dicotomia: se non ci sono state grandi variazioni sui redditi, nel caso della ricchezza ci sono state eccome. Come mai? Non sarà che è proprio il risultato di scelte fiscali, benevole con qualcuno e implacabili con altri?

Nella dozzina di anni presi in considerazione si è accentuata la distanza tra i pochi ricchi al vertice e i tanti che stanno alla base della piramide, sono stati penalizzati i pensionati, i lavoratori autonomi hanno visto migliorare vistosamente la loro condizione patrimoniale, la classe media è rimasta al palo.

I dati raccontano bene questa evoluzione. Nell’ultimo trimestre 2010 la ricchezza media, in Italia, ammontava a 373.552 euro, quella mediana (cioè il valore di mezzo tra il minimo e il massimo) era di 194.868 euro. L’indice di Gini segnava 0,66 e metà della popolazione che si trovava sotto la mediana si divideva l’8,3% della ricchezza totale, mentre il 52% era nelle mani del 10% più ricco, con una ulteriore suddivisione al suo interno: il 40% della ricchezza era concentrata nelle tasche di un 5% di super-ricchi. Il resto se la spartiva una classe media che galleggiava tra i due poli.

Nel 2022, 12 anni dopo, la ricchezza media è salita a 405.604 euro, mentre quella mediana è precipitata – unico caso tra i paesi europei, dove invece è cresciuta – a 161.062 euro. Anche l’indice di Gini è cresciuto, a 0,70, come pure la quota detenuta dalle fasce più benestanti della popolazione: quella posseduta dal 10% è salita al 58%, quella del 5% più ricco al 46%. Il 50 per cento della popolazione si deve far bastare il 7,8% del totale.

Ma vediamo di che cosa è fatta questa ricchezza. Quella totale netta (quindi sottratto l’indebitamento) ammonta a 10,6 trilioni (era 9,6 a fine 2010) e per circa la metà è fatta del valore degli immobili. Per il dieci per cento della popolazione più benestante quella ricchezza è arrivata oggi a un valore medio di 834 mila euro a testa, partendo dai 700 mila euro di fine 2010. La metà degli italiani partivano invece nel 2010 da 26 mila euro di ricchezza netta a testa e 12 anni dopo arrivano a 29 mila.

E come è cambiata la condizione tra i due estremi, il 50 % più povero e il 10% più ricco, cioè per la classe media? Se nel 2010 metà del patrimonio abitativo era nelle mani proprio di questa fascia di popolazione, ora la quota è scesa al 45%, a tutto vantaggio della minoranza dei più ricchi (mentre solo il 14% delle abitazioni appartiene alla maggioranza più povera). Anche le disponibilità liquide, sotto forma di depositi, sono aumentate, ma non certo per le famiglie sotto la mediana: metà del totale è in mano al 10%  più ricco. Viceversa, c’è stato un trasferimento nelle “attività non finanziarie non residenziali”, vale a dire gli investimenti in società di persone di piccole dimensioni, dalla classe dei più abbienti alla classe media: quest’ultima ora ne possiede il 28% (i due terzi restano sempre dei più ricchi).

Quanto alla casa, le abitazioni costituiscono i tre quarti della ricchezza per le famiglie sotto la mediana, sono poco sotto il 70 per cento per la classe centrale, pesano poco più di un terzo nei patrimoni dei più ricchi.

Ma quello che dovrebbe saltare agli occhi di chi vuol fare giustizia con lo strumento fiscale, sono i dati disaggregati che stanno alla base della ricerca di Bankitalia. Raccontano per esempio, questi dati, la differenze di ricchezza secondo la condizione lavorativa in un tempo che va da fine 2010 a metà del 2023.

Ebbene, il cammino fatto da un impiegato dal punto di vista della ricchezza netta posseduta è il seguente: va da 93 mila a 104 mila nei 12 anni e mezzo considerati. Poco, ma è sempre una crescita.

Quello di un pensionato, viceversa, ha fatto retromarcia. Partito con una ricchezza media pro capite di 163 mila euro, si ritrova oggi con 146 mila euro (ha incominciato a declinare dal 2015).

E il lavoratore autonomo? A questa categoria è andata benissimo. Partenza da 247 mila, approdo a 379 mila oggi (con una accelerazione a partire dal 2020). Anche la ricchezza – si fa per dire – di un disoccupato è migliorata. È stimata a 40 mila (qui in miglioramento dal 2019), dai 29 mila del 2010.

Può, questa evoluzione delle disparità della nostra compagine sociale, ispirare azioni di politica fiscale per introdurre qualche correttivo? Dovrebbe essere così se le ricerche venissero lette e si facesse tesoro delle competenze che ci sono dietro. I primi passi di questo governo non fanno ben sperare, ma aspettiamo Maurizio Leo alla prova.

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