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La “nuova” politica industriale deve essere europea

Lo spostamento verso il livello sovranazionale delle competenze nel campo della politica tecnologica e maggiori investimenti, pubblici e privati, nel campo della R&S, sono oggi per l’Ue e i suoi Stati membri un imperativo categorico

Franco Mosconi
Franco-Mosconi

Dopo gli anni dell’oblio, per la politica industriale è giunto il tempo della riscossa? Nella vita delle Istituzioni e nella dinamica delle politiche pubbliche non esistono solamente il bianco e il nero, come la realtà si incarica di ricordarci pressoché ogni giorno. Quello che possiamo constatare – qui e ora – è un recupero di centralità della politica industriale sia nella letteratura economica, sia nell’agenda di policy.

La domanda, dunque, diviene: come si è arrivati a ciò? E quali sono i passi ancora da compiere nel contesto, in perenne mutamento, del XXI secolo?

Partendo da questi interrogativi, nell’articolo scritto per Economia Italiana (n. 3/2023) ho cercato di gettare luce su teoria e prassi della “nuova” politica industriale (l’aggettivo serve a distinguerla da quella in essere negli anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso), utilizzando una prospettiva europea, comunitaria.

Cominciamo col dire che nella tradizione europea la politica industriale è la risultante di un “triangolo” formato dalla politica della concorrenza, dalla politica commerciale e dalla politica tecnologica.

Da questa descrizione, che mantiene oggi come allora la sua validità di fondo, discendono due conseguenze. La prima è la necessità di rafforzare le politiche dell’Unione europea (UE) capaci di spostare progressivamente al livello sopranazionale di governo il terzo lato (ossia, la politica tecnologica), senza naturalmente indebolire i primi due, che rientrano a tutti gli effetti fra le “competenze esclusive” dell’Unione.

La seconda conseguenza è la necessità di giungere a una sempre più compiuta definizione di che cosa debba intendersi per politica tecnologica: gli investimenti in conoscenza (in primis R&S e capitale umano), nelle principali tecnologie abilitanti, in alcuni settori strategici possono rappresentare una appropriata declinazione del terzo lato e, dunque, della “nuova” politica industriale.

Il disegno della Commissione europea di Bruxelles (2002-2023)

All’inizio del XXI secolo la “politica industriale”-  una espressione  che gli ultimissimi decenni del Novecento (soprattutto gli anni ‘90) avevano consegnato all’insieme delle cose fuori moda – ritorna in alto nell’agenda di policy europea. Ciò grazie a un circolo virtuoso fra teoria e prassi. Sul piano della teoria economica – come cerco di dimostrare nell’articolo rifacendomi ai lavori, in primis, di Dani Rodrik – il mutamento di attitudine nei confronti della politica industriale è stato negli ultimi decenni assai visibile. E così pure, sul piano della pratica di governo, degne di menzione sono – sempre in una prospettiva pluridecennale – sia l’evoluzione dei Trattati, sia le iniziative che rivelano il ruolo proattivo della Commissione europea.

L’approccio “integrato” (interventi orizzontali più applicazioni verticali), messo a punto dalle Commissioni Prodi e Barroso, seguito dall’approccio “olistico” della Commissione Junker, rappresentano le tappe più significative di una evoluzione, che giunge poi al noto paradigma della “duplice transizione (ecologica e digitale)”, promossa dalla Commissione von der Leyen.

Fra gli strumenti più significativi da citare in un’ottica sopranazionale vi sono indubbiamente gli IPCEI: gli Importanti Progetti di Comune Interesse Europeo. A tutt’oggi a livello UE ne sono stati approvati  otto, tutti riconducibili alle principali traiettorie tecnologiche del nostro tempo: due sulla “Microelettronica e le Tecnologie della Comunicazione” (2018 e 2023), due sulle “Batterie” (2019 e 2021), tre  sull’”Idrogeno” (due del 2022 e il recentissimo del 2024). Ve ne è poi  l’ottavo su “Next Generation Cloud” (2023).

Lungo la stessa vena può essere citato il Chips Act (febbraio 2022) e i primi provvedimenti legati all’implementazione del Green Deal: il Net-Zero Industry Act (La legge sull’industria a zero emissioni nette) e il Critical Raw Materials Act (Normativa europea sulle materie prime critiche), entrambi della primavera 2023.

Certo, a fronte di ciò, sull’altra sponda dell’Atlantico, vi è il famosissimo Inflation Reduction Act (IRA) che, da solo, vale 370 miliardi di dollari fra sovvenzioni e sconti fiscali per favorire il ‘Made in America’ nelle tecnologie verdi; senza considerare tutti gli altri interventi di strategia industriale promossi dall’Amministrazione Biden. Molti sono, dunque, i passi ancora da compiere su questa nostra sponda: è su ciò che mi soffermo nell’ultima parte dell’articolo.

I passi ancora da compiere

Riforme di governance (con lo spostamento verso il livello sovranazionale delle competenze nel campo della politica tecnologica lato sensu) e maggiori investimenti, pubblici e privati, nel campo della R&S (il gap con gli USA può essere stimato nell’ordine dei 300 miliardi di euro annui), sono oggi per l’Ue e i suoi Stati membri un imperativo categorico.

L’elenco delle industrie (tendenzialmente high-tech) e delle tecnologie/infrastrutture abilitanti man mano entrate nel raggio d’azione di programmi e progetti comunitari – lo si può vedere nella nostra ricostruzione in tre passaggi (Commissioni Prodi e Barroso; Commissione Junker; Commissione von der Leyen) – è davvero ragguardevole, anche se molto resta da fare sul piano dell’implementazione.

Primo. Parlando a Londra per commemorare Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Draghi affermò (2014):

Penso che serva una qualche forma di governance comune delle riforme strutturali, perché ciò che esse assicurano, ovvero un livello continuamente elevato di produttività e competitività, non è solo nell’interesse di un Paese, ma di tutta l’Unione come insieme” (nostra traduzione).

Alla luce di ciò, perché non ricomprendere pienamente anche la R&S, il trasferimento tecnologico e l’istruzione terziaria come parte essenziale di quelle “riforme strutturali” da realizzare, al livello dell’Unione, a somiglianza di ciò che si è fatto con la “fiscal governance” in campo macroeconomico? Non è forse troppo riduttiva l’interpretazione propria della classe politica che riconduce il concetto delle riforme strutturali esclusivamente al welfare e al mercato del lavoro?

Secondo. All’interno di un’Unione ove il level playing field – scopo essenziale della costruzione del mercato unico – funzioni davvero senza ostacoli e barriere all’entrata, essenziale si rivela il ruolo di quelli che ormai abitualmente chiamiamo “Campioni europei”. E per essere più accurati, riprendendo una distinzione che ho già tracciato nella mia monografia The New European Industrial Policy (Routledge 2015), sia di quelli che possono nascere sul modello di Airbus (o, a una scala inferiore, di STMicroelectronics), sia di quelli – sempre più numerosi – frutto di operazioni di fusione e acquisizione cross border che passano il vaglio del mercato (per molti anni, l’esempio da manuale resterà Essilor-Luxottica).

Terzo e ultimo. Nel campo della scienza, della tecnologia, della valorizzazione dei talenti, è il Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN) di Ginevra (nella foto) che dovrebbe averci insegnato qualcosa. Benché non si tratti di una istituzione propriamente comunitaria, è – nel profondo – una creazione europea: l’aver messo in comune, sin dal principio degli anni Cinquanta del secolo scorso, risorse – finanziarie e umane – ha condotto l’Europa verso una indiscussa leadership mondiale nella fisica delle particelle.

Non è forse arrivato oggi il tempo di replicare, con gli opportuni adattamenti, un “CERN” in altri campi del progresso scientifico essenziali per il progresso dell’umanità? Il pensiero, dopo gli anni della pandemia, corre innanzitutto alla ricerca nel campo medico-farmaceutico, delle biotecnologie e del biomedicale: in una parola, le scienze della vita. Ma come non considerare tutto ciò che ha a che fare sia con la transizione “green” sia con quella “digitale”, che toccano le nostre vite in una pluralità di modi.