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La nuova Direttiva e le disarmonie dei diritti europei

L’obiettivo di creare un mercato unico europeo ha ispirato la legislazione di settore già con l’emanazione delle direttive degli anni ’90 del secolo scorso, nel contesto della “armonizzazione essenziale” della disciplina vigente negli Stati membri, ed è ulteriormente perseguito e rafforzato nelle direttive MiFID I e MiFID II, mediante il ricorso alla “armonizzazione massima”. Nonostante questa apparente vocazione all’uniformità delle regole che governano il rapporto fra intermediari e clienti, che dovrebbe contribuire alla realizzazione di un “mercato unico”, nella duplice prospettiva della prevedibilità delle regole da osservare, per gli intermediari, e dell’effettiva e uniforme tutela, per gli investitori, si riscontrano “persistenti disarmonie”, soprattutto in sede di applicazione delle regole di matrice europea, ad opera delle autorità di vigilanza e, ancor più, della giurisprudenza Tale circostanza è, talora, percepita come un ostacolo, rispetto all’attività degli intermediari abilitati, in termini di incertezza del quadro normativo vigente nei diversi Stati membri, e finanche rispetto al concorrente – ma, certo, non secondario – obiettivo del Legislatore europeo, di assicurare una tutela adeguata degli investitori. Si ha, tuttavia, l’impressione che la riscontrata persistente disarmonia del sistema sia, se non proprio voluta, quanto meno, consapevolmente accettata dal legislatore comunitario, anche in ragione dei princìpi fondamentali del diritto dell’Unione Europea, fra i quali, in primis, il principio di sussidiarietà, che è alle origini della storica riluttanza a invadere il terreno del diritto delle obbligazioni. La disarmonia sopra richiamata è dovuta anche al ricorso alla tecnica legislativa incentrata sulla combinazione di rules e standards, che agevola interpretazioni e applicazioni diversificate, ad opera del formante giurisprudenziale, oltre che in sede di elaborazione teorica, da parte della dottrina. L’approccio alla regolamentazione di settore incentrato sull’interpretazione delle regole alla luce dei princìpi generali può accrescere la disarmonia nella disciplina effettivamente in vigore nei diversi stati membri, in contrasto con l’aspirazione all’uniformazione. Si tratta, peraltro, di un inconveniente in gran parte accettato, se non proprio voluto dal legislatore comunitario, forse nella consapevolezza dell’insopprimibile ruolo “creativo” dell’interprete municipale (il giudice, in primis), mediante l’uso – consapevole o inconscio – di archetipi e modelli ricostruttivi propri delle diverse tradizioni giuridiche.

Andrea Tucci
Tucci

1. Il diritto del mercato finanziario è (e aspira a essere) sempre più diritto uniforme, in ciò assecondando la “naturale” vocazione all’uniformità dell’oggetto della sua disciplina.

L’obiettivo di creare un mercato unico europeo ha ispirato la legislazione di settore già con l’emanazione delle direttive degli anni ’90 del secolo scorso (ISD), nel contesto della “armonizzazione essenziale” della disciplina vigente negli Stati membri, in funzione della autorizzazione unica per le imprese di investimento. Siffatto obiettivo è ulteriormente perseguito e rafforzato nelle direttive di inizio millennio (MiFID I e, ora, MiFID II), mediante il ricorso alla “armonizzazione massima”, grazie all’applicazione della c.d. procedura Lamfalussy.

Una delle principali novità introdotte dalle Direttive MiFID e MiFID II – rispetto al quadro normativo risultante dalle Direttive ISD, degli anni ’90 del secolo scorso – riguarda l’introduzione di norme di condotta degli intermediari estremamente dettagliate e analitiche e, quel che più conta, palesemente indirizzate alla tutela degli investitori (cfr. il disposto dell’art. 69(2) Dir. 2014/65/UE – MiFID II. Sulla Drittwirkung della disciplina comunitaria, cfr. Tison, The civil law effects of MiFID in a comparative law, in Financial Law Institute, WP2010-05, § 1, p. 4).

Il diritto del mercato finanziario europeo, dunque, parrebbe presentare una vocazione all’uniformità delle regole che governano il rapporto fra intermediari e clienti. Il che, evidentemente, dovrebbe contribuire ulteriormente alla realizzazione di un “mercato unico”, nella duplice prospettiva della prevedibilità delle regole da osservare, per gli intermediari, e dell’effettiva e uniforme tutela, per gli investitori.

Non di meno, da più parti si riscontrano (e si deprecano) “persistenti disarmonie”, soprattutto in sede di applicazione delle regole di matrice europea, ad opera delle autorità di vigilanza e, ancor più, della giurisprudenza (si vedano, da ultimo, i saggi raccolti nel volume, a cura di Busch e Ferrarini, Regulation of the EU Financial Markets: MiFID II and MiFIR, Oxford, 2017. In particolare, su questi aspetti, cfr. i saggi di Busch, The Private Law Effect of MiFID I and MiFID II: The Genil Case and Beyondivi, § 20, e di Enriques – Gargantini, The Overarching Duty to Act in the Best Interest of the Client in MiFID IIivi, § 4).

La circostanza sopra evidenziata è, talora, percepita come un ostacolo, rispetto all’attività degli intermediari abilitati, in termini di incertezza del quadro normativo vigente nei diversi Stati membri, e finanche rispetto al concorrente – ma, certo, non secondario – obiettivo del Legislatore europeo, di assicurare una tutela adeguata degli investitori. Per entrambi gli attori del mercato, in effetti, la “prevedibilità” costituisce la prima e più elementare forma di tutela.

Si ha, tuttavia, l’impressione che la riscontrata persistente disarmonia del sistema sia, se non proprio voluta, quanto meno, consapevolmente accettata dal legislatore comunitario, anche in ragione dei princìpi fondamentali del diritto dell’Unione Europea, fra i quali, in primis, il principio di sussidiarietà, che è alle origini della storica riluttanza a invadere il terreno del diritto delle obbligazioni. Donde il costante rinvio al diritto degli Stati membri per la disciplina delle conseguenze civilistiche della violazione delle regole di condotta, pur se con il limite del necessario rispetto del principio di effettività (si veda, da ultimo, l’art. 70 Dir. MiFID II).

Un ulteriore e, certo, non secondario, fattore di (programmata?) disarmonia è il ricorso alla tecnica legislativa incentrata sulla combinazione di rules e standards, che fatalmente agevola interpretazioni e applicazioni diversificate, ad opera del formante giurisprudenziale, oltre che in sede di elaborazione teorica, da parte della dottrina.

A quest’ultimo aspetto sono dedicate le riflessioni che seguono.

2. La compresenza di regole dettagliate e di princìpi generali, nella disciplina di settore, pone all’interprete il problema del coordinamento fra le diverse tecniche di produzione normativa.

Le regole analitiche possono essere integrate, mediante il ricorso ai princìpi. La condotta dell’intermediario viene, in tal modo, a essere scrutinata a un duplice livello. Il giudizio di esatto adempimento dell’obbligazione nei confronti del cliente non si riduce alla formalistica verifica della stretta osservanza delle regole, ma comporta anche una valutazione sostanziale della conformità ai princìpi. Approccio, questo, che, in astratto, può essere giudicato favorevolmente, poiché richiama gli operatori del mercato all’effettiva osservanza delle regole, sanzionando condotte opportunistiche e maliziose. Al contempo, questo atteggiamento dell’interprete può essere visto come fonte di incertezza giuridica, in termini di minore prevedibilità delle decisioni, nei diversi Stati membri (sul punto si tornerà nel prosieguo, in sede di “esemplificazione” dei problemi qui evocati).

Non solo. Il ricorso ai princìpi generali può condurre all’enunciazione di regole non scritte e finanche alla disapplicazione di regole analitiche, ove     si ritenga di dover privilegiare il profilo sostanziale, risultante dall’interpretazione dei princìpi. Quest’ultima, inevitabilmente, legata alla sensibilità dell’interprete e, per così dire, alla cultura giuridica domestica.

Un significativo riscontro di quanto sin qui osservato è offerto dalla diversa interpretazione della disciplina applicabile alla negoziazione per conto     proprio; servizio contraddistinto, come noto, da un’intrinseca e insopprimibile conflittualità, fra intermediario e cliente, e dalla difficile coesistenza e “armonizzazione” di regole e princìpi.

Con un inevitabile margine di approssimazione, può dirsi che, nell’esperienza giuridica britannica, prevale una lettura “antagonista” del rapporto che si instaura fra cliente e intermediario negoziatore, che conduce a una disapplicazione del principio del “servire al meglio” l’interesse del cliente (c.d. best interest duty, attualmente “codificato” nell’art. 24, co. 1, Dir. 2014/65/UE). Nelle esperienze continentali – e in Italia, fra queste -, al contrario, l’enfasi sul principio generale di tutela (“al meglio”) dell’interesse del cliente, induce la giurisprudenza e la dottrina prevalente a enunciare una regola (non scritta), in virtù della quale, anche quando negozia in contropartita diretta, con clienti professionali, l’intermediario è pur sempre tenuto ad agire nell’interesse del cliente, quanto meno sotto il profilo della valutazione della conformità delle singole operazioni agli obiettivi di investimento (il che, a ben vedere, presuppone la preventiva informazione “passiva”, sul punto. Cfr.Cass., 29 dicembre 2011, n. 29864).

Certo, in concreto, le differenze possono risultare smussate, ove si accerti che l’intermediario ha prestato – pur se informalmente e finanche “inconsapevolmente” – anche il servizio di consulenza, come tipicamente avviene nel caso di negoziazione di prodotti complessi, poiché, in tal caso, troverà applicazione il c.d. regime di adeguatezza (sul punto, si veda l’importante pronuncia di Corte Giust. UE, 30 maggio 2013, C-604/11). Anche su questo punto, peraltro, le disarmonie non mancano, poiché le corti anglosassoni sembrano più “indulgenti” e “formaliste”, nel riconoscere la validità di accordi in deroga, volti a esonerare l’intermediario da qualsiasi forma di consulenza e, dunque, dall’applicazione della disciplina dell’adeguatezza (cfr., ad es., John Green and Paul Rowley v. The Royal Bank of Scotland, England and Wales High Court of Justice (Manchester District Registry), 21 dicembre 2012, 3661 (QB), poi confermata in appello: Green v Royal Bank of Scotland Plc [2013] EWCA Civ 1197 (09 October 2013). In argomento, Enriques – Gargantini, op. cit., p. 97 ss.).

Su questo delicato aspetto, la disciplina della MiFID II non offre soluzioni univoche e, anzi, presenta margini di ambiguità, nell’esenzione dalle regole di condotta per la negoziazione per conto proprio, contenuta nell’art. 2.1(d)(iv), la cui armonizzazione con i princìpi generali risulta tutt’altro che agevole, anche ricorrendo alla sottile e ambigua distinzione fra “servizio” e “attività” (il pericolo concreto di trasposizioni non uniformi della regola, nei singoli Stati membri, è bene evidenziato da Enriques – Gargantini, op. cit., p 108 ss., e parrebbe trovare riscontro, anche nel T.U.F. riformato, ad opera del d. lgs. 3 agosto 2017, n. 129).

3. Il problema (o presunto tale) delle persistenti disarmonie si apprezza anche su un terreno, per così dire, internazional-privatistico, concernente i margini concessi agli Stati membri nella previsione di regole più rigorose (c.d. problema del gold plating), rispetto a quelle presenti nella Direttiva (ma il problema si pone anche per l’ipotesi inversa, di un minor rigore del diritto nazionale, pur se, in questo caso, il richiamato principio di effettività dovrebbe costituire un più solido baluardo, contro soluzioni più “indulgenti”, nei confronti degli intermediari. Cfr., in tal senso, Busch, op. cit.).

Anche in questo caso, a ben vedere, può rivelarsi opportuno non limitare la riflessione al solo formante legale, anche in ragione del fatto che l’applicazione dei medesimi princìpi può condurre, in concreto, a esiti discordanti, nelle diverse esperienze giuridiche.

In effetti, una ricognizione del solo dato testuale, potrebbe condurre a ritenere del tutto inammissibile l’enunciazione, nei diversi ordinamenti, di regole più rigorose, rispetto a quelle comunitarie, soprattutto (ma non soltanto) se desunte in sede interpretativa, sulla base dei princìpi o delle clausole generali domestici. Si pensi, nella nostra esperienza giuridica, al principio di buona fede, che, come noto, costituisce uno dei pilastri del diritto delle obbligazioni e dei contratti, soprattutto a seguito della sua riconduzione al principio costituzionale di solidarietà (cfr. fra le tante, Cass., 6 dicembre 2012, n. 21994). Certo, in senso contrario si potrebbe, ancora una volta, richiamare il principio di effettività della tutela degli investitori, per legittimare la previsione di regole di comportamento più severe, nei confronti degli intermediari. A questo approccio si è, tuttavia, obiettato – in modo convincente, restando sul terreno dell’esegesi del testo scritto – invocando i princìpi fondamentali del diritto comunitario e, in particolare, il principio di sussidiarietà, nonché – segnatamente, nella materia in esame – di certezza del diritto, sulla base della disciplina comunitaria; principio, quest’ultimo, che si concretizzerebbe nella tutela, offerta agli operatori del mercato, in termini di prevedibilità di eventuali sanzioni per condotte illegittime. A fortiori inammissibile, in questa prospettiva, dovrebbe ritenersi un ampliamento delle regole di condotta, ricorrendo a clausole o princìpi generali, quali la buona fede (per questo approccio, cfr., soprattutto,Capriglione, Manuale di diritto bancario e finanziario, Padova, 2015, pp. 157-159, il quale invoca il principio di sussidiarietà, quale “criterio ordinatorie che condiziona il governo dell’economia”, evitando che la “tendenza all’autocentrismo disciplinare degli Stati membri” determini divergenze nelle regolamentazione economica. Di qui la conclusione, secondo cui dovrebbero essere evitate, a livello di Stati membri, normative più favorevoli, rispetto a quella comunitaria. Ciò in quanto il principio di sussidiarietà comporta che “laddove la Comunità ha fissato puntuali regole, queste identificano una insuperabile barriera normativa”).

A ben vedere, un riscontro testuale alla tesi più rigorosa potrebbe essere ravvisato, oggi, nel disposto dell’art. 24, co. 12, Dir. MiFID II, che limita a “casi eccezionali” la facoltà degli Stati membri di imporre alle imprese di investimento requisiti aggiuntivi rispetto a quanto disposto dal medesimo art. 24, recante i“Principi di carattere generale e informazione del cliente”. La disposizione richiamata prosegue precisando che i requisiti aggiuntivi “devono essere obiettivamente giustificati e proporzionati vista la necessità di far fronte ai rischi specifici per la protezione degli investitori o l’integrità del mercato che presentano particolare rilevanza nel contesto della struttura di mercato dello Stato membro interessato”. È poi previsto un complesso procedimento, che coinvolge gli Stati membri e la Commissione, nel giudizio circa l’ammissibilità dei requisiti ulteriori, che, comunque, non devono limitare o altrimenti influenzare i diritti delle imprese di investimento di cui agli articoli 34 e 35 della Direttiva.

A livello di formante legale, dunque, la questione parrebbe risolta, nel senso dell’inammissibilità di una disciplina domestica di maggior rigore, sia essa di fonte legale ovvero anche di matrice giurisprudenziale.

Sennonché, come si è osservato, la Direttiva MiFID II reca talune clausole generali, che coesistono, integrandole, con le regole di dettaglio. Fra queste, un ruolo centrale assume il ricordato principio, che impone agli intermediari l’obbligo di tutelare al meglio l’interesse del cliente. La presenza di princìpi e clausole generali rende inevitabile e, in qualche modo, legittima l’applicazione delle regole, nei singoli Stati membri, alla luce dell’approccio proprio di ciascuno, anche in virtù di forme di precomprensione dell’interprete e del giudice, in primis.

Cospira in queste direzione una circostanza ulteriore, anch’essa, in qualche modo, imputabile al legislatore comunitario e alla sua ricordata scelta minimalistica, nel terreno delle obbligazioni e dei contratti (il punto è ben colto da Tison, op. cit., pp. 10-11). Si allude alla circostanza per cui la trasposizione domestica delle regole e dei princìpi di condotta contenute nelle direttive comunitarie passa per la loro integrazione nel diritto delle obbligazioni e dei contratti di ciascuno Stato membro; il che rende inevitabile il richiamo ai princìpi generali e alle categorie ordinanti di quel settore dell’ordinamento giuridico.

Emblematica, nel nostro ordinamento, la vicenda dell’ “accordo di base scritto”, imposto dal diritto comunitario prima dell’avvio dell’operatività in strumenti finanziari, nel contesto della prestazione dei servizi di investimento. Obbligo che, come noto, la disciplina comunitaria ha ora esteso ai rapporti fra intermediari e qualunque tipologia di cliente – non più, dunque, soltanto nei rapporti con i clienti al dettaglio – e, a certe condizioni, anche nel caso di prestazione del servizio di consulenza (si veda, in particolare, l’art. 58 del Regolamento delegato (UE) 2017/565, rubricato “Accordi con i clienti al dettaglio e professionali”).

È noto che la giurisprudenza italiana – culminata nelle note “sentenze gemelle” delle Sezioni Unite, nn. 26724 e 26725 del 19 dicembre 2007, costantemente richiamate dalla successiva giurisprudenza di merito e di legittimità – ha desunto dalla regola comunitaria – recepita nell’art. 23 T.U.F. – un modello ricostruttivo – per vero “suggerito” dalla dottrina (Galgano I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’intermediario, in Contr. Impr., 2005, p. 889) – del rapporto fra intermediario e cliente incentrato su di un accordo quadro, ricondotto al modello del mandato, e sui successivi “ordini”, impartiti dal cliente ed eseguiti dall’intermediario, nel cui contesto il contratto quadro fornisce l’indispensabile “cornice normativa” delle future ed eventuali operazioni di investimento.

Non è questa la sede per un compiuto giudizio sulla correttezza di questo modello ricostruttivo (sia consentito, sul punto, il rinvio ad A. Tucci, Profili del contratto nell’investimento finanziario, in Riv. dir. comm., 2016, I, 347; Id., Il contratto inadeguato e il contratto immeritevole, in Contr. e impr., 2017, 937). Quel che, invece, preme sottolineare è la riconduzione di una regola di matrice comunitaria a un tipo contrattuale domestico; operazione ermeneutica che, a sua volta, costituisce il presupposto per l’elaborazione di regole e princìpi ulteriori, rispetto a quelli enunciati dal legislatore comunitario, movendo dal rilievo secondo cui il mandato costituisce l’archetipo del rapporto di cooperazione nell’interesse altrui. In effetti, il richiamo al mandato legittima una visione non antagonista, bensì cooperativa, del rapporto intermediario/cliente, che, a sua volta, giustifica la ricordata generale applicazione del best interest duty, anche nel contesto della prestazione del servizio di negoziazione con clienti professionali, pena il grave inadempimento del contratto quadro, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1218 e 1453, cod. civ. (in questi termini si sono espressi, con estrema chiarezza, Trib. Milano, 19 aprile 2011, e Trib. Lecce, 9 maggio 2011. Nella giurisprudenza di legittimità: Cass., 3 luglio 2014, n. 15224).

4. A ben vedere, questa (inevitabile) interrelazione fra rules e standards non può dirsi in contrasto con la disciplina comunitaria, se è vero che, nel contesto della Direttiva MiFID II, non sussiste una completa coincidenza fra i princìpi generali e le regole analitiche, nel senso che queste ultime non esauriscono la portata applicativa dei princìpi, i quali, d’altronde, pongono all’interprete il delicato problema del loro coordinamento, non potendosi escludere (vere o soltanto apparenti) antinomie (il punto è ben colto da Busch, op. cit., p. 575, con riferimento ai margini che il general principle of honesty lascia alle applicazioni giurisprudenziali del duty of care, sottolineando come questa attività soltanto apparentemente creativa della giurisprudenza non si pone in contrasto con il dettato comunitario, il quale, per contro, in qualche modo, la legittima, codificando due princìpi che richiedono un delicato coordinamento, nei casi concreti).

In questo contesto, il ruolo dell’argomentazione incentrata sui princìpi generali si coglie proprio in termini di possibile “armonizzazione” fra rules    e standards apparentemente non coincidenti e finanche contrastanti, secondo un approccio ermeneutico che, nella nostra esperienza giuridica, trova riscontro nell’uso giurisprudenziale del principio di buona fede, che, per alcuni aspetti, costituisce l’equivalente funzionale del principio generale del “best interest”, nei rapporti fra intermediari e clienti (per analoghe considerazioni, cfr. anche Enriques – Gargantini, op. cit., pp. 85 e 92, ove la qualificazione del principio generale del “best interest” in termini di “gap filler”, nei casi di assenza di una regola analitica). E ciò sebbene non sfugga la maggiore pervasività del principio generale di settore, che non si limita a richiedere a una parte del rapporto (l’intermediario) la considerazione dell’altrui interesse “nei limiti di un apprezzabile sacrificio” (secondo la nota definizione dottrinale della buona fede), ma si spinge fino a pretendere la cura (poi: “al meglio”) dell’interesse altrui. L’ordinamento del mercato finanziario, in effetti, impone all’intermediario obblighi di informazione (“attiva” e “passiva”, secondo il gergo di settore) e di valutazione, che sarebbero inconcepibili, secondo     la filosofia recepita dal codice civile, che lascia pur sempre a ciascuna parte del contratto la valutazione della conformità dell’operazione economica al proprio interesse individuale e, in definitiva, alla propria autoresponsabilità (su questi aspetti, cfr. A. Tucci, Profili del contratto nell’investimento finanziario, cit., p.359).

Quanto sin qui osservato parrebbe confermare la sensazione di una consapevole accettazione della “disarmonia”, da parte del legislatore comunitario, se è vero che i princìpi presenti nel tessuto normativo delle Direttive costituiscono, di fatto, una delega in bianco agli ordinamenti degli Stati membri e, in particolare, al diritto giurisprudenziale. Il che, a ben vedere, rende di modesta utilità l’interrogativo circa l’opportunità di procedere a un’autonoma (e uniforme) ricostruzione di siffatti princìpi, alla luce della disciplina complessiva della MiFID ovvero lasciare all’opera dell’interprete del singolo Stato il compito di riempire di contenuto applicativo il principio soltanto enunciato. La seconda soluzione, di fatto, prevale, così legittimando il rilievo, secondo cui i princìpi generali sono una tecnica per far sì che gli intermediari rispettino gli obblighi di condotta privatistici del diritto degli Stati membri (in questi termini: Enriques – Gargantini, op. cit., p. 96).

5. Si è avuto modo di osservare che un problema cruciale, nella dialettica fra armonizzazione e persistenti disarmonie, attiene all’interrogativo circa la possibilità di desumere dai princìpi generali regole ulteriori, non previste dal pur dettagliato catalogo MiFID.

Qualche esemplificazione può, forse, rendere più immediata la portata del problema evocato.

Si pensi, ad esempio, al non agevole coordinamento fra le regole che consentono agli intermediari di fornire ai clienti informazioni in forma standardizzata e il principio generale, che impone agli intermediari di agire in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati; principio da quale è, poi desunta, la regola che impone all’intermediario di accertare che il cliente abbia effettivamente (dunque: nel caso concreto) compreso i rischi dell’investimento (art. 24(5) Dir. MiFID II e, in precedenza, art. 19(3) Dir. MiFID I). Sul punto, la giurisprudenza italiana ha, in più occasioni, precisato che l’intermediario non può trincerarsi dietro il formale rispetto delle regole sulla “somministrazione” delle informazioni, così accordando prevalenza al principio generale o, meglio, desumendo dal principio generale una regola integrativa di quelle espressamente stabilite dal legislatore e idonea a fungere da criterio di armonizzazione, fra disposizioni aparentemente confliggenti (cfr., ad es., Cass., 6 agosto 2014, n. 17726).

Non molto dissimile, sotto il profilo del procedimento ermeneutico e della tecnica argomentativa, è il sostanziale ampliamento della disciplina dell’appropriatezza, mediante il richiamo al principio generale del “best interest” o, ancora, l’enunciazione di una regola proibitiva della negoziazione di determinati prodotti, nel caso in cui ciò sia incompatibile con il principio del “servire al meglio l’interesse del cliente”; in tal modo giungendo a risultati operativi sostanzialmente non difformi da quelli cui è di recente pervenuto il legislatore comunitario, con stringenti regole in materia di c.d. product intervention (cfr. Enriques – Gargantini, op. cit., p. 118, nonché, amplius, Busch, Product governance and product intervention under MiFID II / MiFIR, in Busch – Ferrarini, op. cit., p. 123 ss.).

Nell’esperienza giuridica italiana, il settore che forse meglio di ogni altro ha dimostrato il difficile coordinamento fra princìpi generali e regole analitiche è quello della negoziazione di strumenti finanziari derivati non standardizzati, nei confronti della clientela corporate. E ciò, probabilmente, in ragione della particolare conflittualità fra intermediario e cliente, che contraddistingue la negoziazione di questi strumenti finanziari, i quali, come noto, si risolvono nella stessa conclusione, fra intermediario e cliente, di specifici contratti, destinati a incidere direttamente e in termini, per così dire, simmetrici, sulla sfera giuridico-patrimoniale delle parti, così esasperando la pur insopprimibile conflittualità insita nella prestazione del servizio (o “attività”) di negoziazione per conto proprio. Il che pone, evidentemente, un problema di non agevole coordinamento delle regole analitiche in tema di negoziazione con il principio generale del realizzare al meglio l’interesse del cliente.

Le problematiche sopra evocate sono state affrontate – con piena consapevolezza delle implicazioni sistematiche pure ricordate – in un lodo arbitrale milanese, nel quale è stato discusso, fra l’altro, il problema della possibilità di ritenere applicabile la regola che impone all’interemdiario di esplicitare ex ante al cliente le varie componenti di costo e il fair value dello strumento finanziario a una fattispecie che aveva esaurito i suoi effetti prima del recepimento, in Italia, della Direttiva MiFID e, in particolare, dell’emanazione della Comunicazione Consob 2 marzo 2009, n. 9019104 (cfr. Coll. Arbitrale, 4 luglio 2013, in Banca e Borsa, 2015, II, 220). La maggioranza del Collegio ha risposto affermativamente al quesito, argomentando dai princìpi generali contenuti nell’art. 21 T.U.F., giungendo alla conclusione secondo cui “i doveri di buona fede oggettiva     o, se si preferisce, seguendo un noto orientamento giurisprudenziale che va acquistando sempre più spazio, la cooperazione contrattuale alla stregua dei valori costituzionali di solidarietà e tutela del risparmio […] impongono di incorporare nel contratto alcune informazioni, informazioni     attinenti perlomeno alla metodologia con cui una persona anche esperta, ma non specializzata professionalmente, possa ricostruire il fair value dell’operazione e così perimetrare l’alea, la zona di rischio ipotetico da assumere, per il quale o contro il quale si ‘scommette’. L’MTM vale quindi al limite a stabilire se ex ante alea vi sia o meno”. Donde la conclusione, secondo cui “i principi dell’art. 21 TUF e 26 Reg., oltre che imporre obblighi di comportamento fondano la necessità della adozione di un determinato contenuto contrattuale, come elemento rilevante sotto il profilo del requisito degli artt. 1346 e 1418, secondo comma, cod. civ.”. A opposte conclusioni è, per contro, pervenuto il terzo Arbitro (Guido Ferrarini), il quale ha escluso la possibilità di desumere dai princìpi generali regole non previste dalla disciplina vigente e, in ogni caso, contestando la correttezza della tesi secondo cui la violazione di regole di trasparenza e informativa precontrattuale può determinare la nullità del contratto, richiamando le ricordate “sentenze gemelle” delle Sezioni Unite.

L’approccio alla regolamentazione di settore incentrato sull’interpretazione delle regole alla luce dei princìpi generali può accrescere, come si è tentato di evidenziare, la disarmonia nella disciplina effettivamente in vigore nei diversi stati membri, in contrasto con l’aspirazione all’uniformazione. Si tratta, peraltro, di un inconveniente in gran parte accettato, se non proprio voluto dal legislatore comunitario, forse nella consapevolezza dell’insopprimibile ruolo “creativo” dell’interprete municipale (il giudice, in primis), mediante l’utilizzazione – consapevole o inconscia – di archetipi e modelli ricostruttivi propri delle diverse tradizioni giuridiche.

6. Il ricorso ai princìpi generali consente “adattamenti evolutivi” della disciplina del mercato finanziario, geneticamente destinata a seguire le periodiche crisi dei mercati, delineando modelli di condotta alternativi, rispetto a quelli, di volta in volta, rivelatisi “fallimentari”.

In questa prospettiva, merita quanto meno un cenno il ruolo che hanno svolto i princìpi generali nella ricostruzione del rapporto intermediario/cliente, per molti aspetti anticipando le soluzioni, da ultimo, accolte dalla Direttiva MiFID II.

Semplificando e schematizzando un problema di ampio respiro, può dirsi che un modello ricostruttivo diffuso e, per molti aspetti, persistente, esalta il profilo dell’alea nell’investimento finanziario, anche in sede di valutazione della condotta degli intermediari. Secondo questa visione gli obblighi degli intermediari si riducono, fondamentalmente, all’adeguata informazione dei clienti, ma non si estendono alla “responsabilità” per decisioni di investimento successivamente rivelatesi infauste. È, questo, un approccio che, indubbiamente, valorizza la “autoresponsabilità” dei clienti e riduce al minimo l’intervento eteronomo sull’assetto di interessi concordato dalle parti.

Nel contesto successivo alla crisi finanziaria di inizio millennio è andata emergendo l’idea secondo la quale gli intermediari sono tenuti a una condotta più attiva, che attiene, innanzi tutto, alla selezione dei prodotti – rispetto a tipologie di clienti – e, in secondo luogo, all’assistenza del cliente, nel momento dell’investimento (e, per alcuni aspetti, anche in seguito), fino alla vera e propria dissuasione dall’intraprendere scelte “inappropriate”.

Nella nostra esperienza giuridica, l’affermazione di questa nuova visione del rapporto intermediario/cliente è dovuta, in buona misura, alla capacità di dottrina e giurisprudenza di valorizzare i princìpi generali enunciati dall’art. 21 T.U.F., ponendoli a fondamento della ricostruzione del modello di condotta virtuosa dell’intermediario, nel contesto della prestazione dei servizi di investimento, anche alla luce dei più generali obblighi di corretta ed efficiente organizzazione dell’attività d’impresa (art. 21, 1° co., lett. d), T.U.F. previgente). L’idoneità dell’organizzazione interna dell’intermediario a fornire un servizio adatto agli obiettivi di investimento dei clienti costituisce, in questa prospettiva, una componente non secondaria della prestazione a carico dell’intermediario, come tale sindacabile in sede giudiziaria, ai fini del giudizio di esatto adempimento. L’inosservanza dei doveri di organizzazione, in altri termini, può tradursi, nel rapporto contrattuale fra intermediario e cliente, in una mancata esecuzione della prestazione dovuta e non costituisce, esclusivamente, un elemento rilevante, sotto il profilo della sana e prudente gestione dell’impresa di investimento, anche in vista di eventuali provvedimenti sanzionatori (dunque: in una dimensione pubblicistica). E ciò, si badi, a prescindere dal risultato dell’operazione di investimento, senz’altro dipendente anche da variabili estranee alla sfera organizzativa dell’intermediario e, come tali, rientranti nell’alea normale del contratto. Non di meno, il risultato negativo – anche per fattori, per così dire, “di mercato” – di un investimento inadeguato, rispetto al profilo del cliente, costituisce un danno del quale l’intermediario dovrà rispondere, allorché risulti carente una struttura organizzativa idonea «ad assicurare l’effettivo svolgimento dei servizi e delle attività» (cfr. App. Torino, 15 settembre 2009. E si veda ora, in senso conforme, anche la prima pronuncia dell’ACF, n. 1 del 5 giugno 2017).

Le soluzioni operative elaborate da parte della giurisprudenza e della dottrina si sono rivelate, per molti aspetti, anticipatrici delle soluzioni di intervento e controllo sulla predisposizione e sulla distribuzione dei prodotti finanziari, in relazione alle diverse tipologie di clienti (cfr., in particolare, indicazioni nel considerando n. 71 e nell’art. 16 e 24 della Direttiva 2014/65/UE (c.d. MiFID II) e negli artt. 40-43 del Regolamento n. 600/2014/UE (MiFIR), nonché, da ultimo, i nuovi commi 2-bis e 2-ter dell’art. 21 T.U.F. Nella normativa Consob, cfr. l’importanteComunicazione n. 0097996/14, del 22 dicembre 2014, in tema di strumenti finanziari derivati e clientela al dettaglio. Si veda anche il documento ESMA/2012/387 del 25.6.2012, recante Orientamenti su alcuni aspetti dei requisiti di adeguatezza nella Direttiva MiFID, § V.17).