Osservatorio Banche
La lezione del crack della Silicon Valley Bank

I timori di una crisi acuta e diffusa a gran parte del circuito bancario internazionale sembrano allontanati. Il lavoro di riforma di questi anni è stato quindi utile per evitare il coinvolgimento dell’economia reale. Le vicende di queste ultime settimane, però, pongono problemi cui è difficile ma necessario dare rapida risposta. Come il costo per la collettività del moral hazard

Silvano Carletti
Carletti

Le gravi tensioni scoppiate a marzo nel circuito bancario internazionale sembrano essere state sedate. I focolai da cui quelle tensioni erano state originate sono stati neutralizzati: negli Stati Uniti, la Silicon Valley Bank (come la più piccola Signature Bank) è avviata verso la liquidazione sotto la supervisione della FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation); First Republic Bank, altro caso molto critico, è stata tenuta a galla con una robusta iniezione di liquidità delle maggiori banche statunitensi; in Svizzera, Crédit Suisse, too big to fail, è stato acquisito da UBS al termine di un matrimonio forzato, pilotato e oliato dalle autorità nazionali.

Per ognuna di queste situazioni è facile indicare come si è arrivati alla crisi insanabile. Ad esempio, SVB (Silicon Valley Bank) era molto esposta in titoli a medio-lungo termine, un investimento che l’aumento dei tassi ufficiali ha fortemente deprezzato; parallelamente, la sua raccolta risultava molto focalizzata su imprese e grandi depositanti (congiuntamente oltre il 90% del totale), una circostanza che ha reso la banca vittima di una delle prime digital bank run (trasferimento di fondi con un click). Uno squilibrio di questo genere avrebbe dovuto determinare l’intervento delle autorità di vigilanza, azione non avvenuta per le modifiche apportate nel 2018 al Dodd-Frank Act che hanno esonerato da monitoraggio e requisiti stringenti le banche con attivo inferiore a 250 mld di dollari. Pur essendo tra le prime 20 banche del paese, SVB era (non di molto) al di sotto di questa soglia. In una lettera al parlamento nazionale il governatore della Bank of England (cui competeva la vigilanza su SVB UK) ha rivelato di avere nel passato richiamato l’attenzione delle autorità americane sulla fragilità di SVB, iniziativa che però non sembra aver avuto conseguenze.

Anche la crisi del Crédit Suisse (CS), divenuta ora terminale, viene da lontano. È una crisi di risultati e di reputazione: da tempo scandali e perdite si combinano, quasi senza interruzione. A metà 2007 il titolo era quotato sopra 80SFr (Franchi Svizzeri), a fine 2015 era sceso sotto 20 SFr, a fine febbraio 2023 non arrivava a 3 SFr. Dal 2012 al 2022 CS ha pagato circa 12 mld di SFr per multe, liquidazioni e danni. Nel 2021 e nel 2022 il bilancio è stato chiuso con perdite significative. Causa frequente delle perdite è stata la spregiudica condotta delle attività di investment banking, inclinazione spesso condivisa con UBS. Il coinvolgimento nel crollo (2021) dell’hedge fund  statunitense Archegos Capital Management è costato a CS $ 5,5 mld e a UBS quasi $0,8 mld.

Il timore di una crisi acuta e diffusa a gran parte del circuito finanziario internazionale sembra allontanato. C’è quindi la soddisfatta constatazione che il lavoro di questi anni ha evitato un vorticoso trasferimento di fondi e una contestuale destabilizzazione dell’economia reale. Emerge, però, la consapevolezza che le vicende di queste ultime settimane pongono in primo piano problemi cui è difficile ma necessario dare rapida risposta.

Il primo di questi problemi è individuabile nell’enorme ammontare di liquidità immesso nel circuito finanziario con il QE (Quantiative Easing). Nel caso dell’eurosistema, l’attuazione dell’Asset Purchase Programme (APP) ha portato la Bce ad accumulare titoli per quasi 3.300 mld, cui si devono aggiungere i circa 1.700 mld del Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP); inoltre per dieci anni (luglio 2012 – settembre 2022) il tasso di interesse applicato alle operazioni di rifinanziamento principali è rimasto sotto l’1%. Politiche di QE altrettanto importanti sono state attuate da tutte le principali autorità monetarie, dalla Bank of England alla Federal Reserve statunitense, alla Bank of Japan. Questa imponente e prolungata disponibilità di liquidità ha avuto molteplici effetti: alcuni probabilmente positivi sulla dinamica economica, altri meno, come la frequente adozione di un approccio speculativo o comunque l’incentivo ad una gestione meno prudente delle attività.

Fino a poco tempo fa si ipotizzava che il cambio di passo della politica monetaria avrebbe fatto emergere fragilità in alcuni segmenti del comparto finanziario non bancario. Si temeva che il poco trasparente, meno regolato e quindi più rischioso shadow banking system avrebbe prima o poi prodotto situazioni di crisi, eventualità in effetti avvenuta ma in misura limitata e gestibile (ad esempio, difficoltà dei fondi pensione inglesi, ottobre 2022). Quanto avvenuto nelle scorse settimane porta a concludere che l’area vulnerabile comprende anche alcune parti del circuito bancario.

La decisa svolta di politica monetaria (ancora probabilmente non completata) da un lato è all’origine di molte delle difficoltà attuali, dall’altro lato però ha fornito una decisa spinta al rialzo del margine d’interesse e quindi alla redditività complessiva di gran parte delle banche. L’ampliamento dei margini di reddito rende più gestibile ogni tipo di problemi. Le minusvalenze determinatesi nel portafoglio titoli sono contabilmente sterilizzate dalla diffusa adozione del criterio del costo ammortizzato che evita effetti diretti sulla redditività o sul patrimonio; emergerebbero come serio problema nel caso in cui si determinasse la necessità di vendere i titoli prima della scadenza.

Dalle vicende dello scorso mese (ma in realtà già da prima) emerge anche la necessità di un aggiornamento della definizione di istituzione di rilievo sistemico. Secondo la normativa attuale sono tali le istituzioni (banche, assicurazioni, istituzioni finanziarie) le cui difficoltà o peggio il fallimento potrebbero innescare una crisi sistemica a livello globale o a livello nazionale (G-SIFI e O-SIIs). Alla loro individuazione contribuisce largamente il parametro dimensionale pur se si tiene conto anche della complessità organizzativa, delle interconnessioni con il resto del sistema, della possibilità di sostituirne rapidamente l’attività, del suo operare a livello globale.

L’esperienza di questi anni ha però dimostrato in molti contesti che il circuito finanziario è sempre più un sistema di vasi comunicanti che può essere destabilizzato anche da istituzioni bancarie relativamente piccole o da operatori attivi in comparti finanziari non bancari. Anche in Italia se ne è avuta una (limitata) prova negli anni scorsi. L’intero sistema delle banche regionali statunitensi o anche quello delle banche minori tedesche presentano aspetti di non lieve criticità e dovrebbero essere tenute sotto attento monitoraggio. Causa di destabilizzazione dei mercati finanziari internazionali potrebbe essere anche il malfunzionamento delle grandi piattaforme hightech.

In conclusione, necessitano di un rapido e sostanziale salto di qualità sia i criteri che presiedono l’individuazione delle istituzioni potenzialmente significative per la stabilità sistemica, sia soprattutto l’articolazione dei sistemi di monitoraggio e controllo.

Altro problema ripropostosi con forza è quello del cosiddetto moral hazard. Sia nello scenario statunitense sia in quello svizzero il fallimento delle istituzioni prima indicate è destinato a determinare costi per la collettività la cui entità potrà essere precisata solo tra qualche tempo. Nel caso di SVB, per evitare rischi di contagio o ricadute sul resto del sistema la FDIC ha riconosciuto una piena garanzia a tutti i depositi, non solo come previsto a quelli fino a 250mila dollari; in Svizzera le autorità hanno messo a disposizione di CS liquidità per 100mld di SFr e assicurato a UBS la copertura di eventuali perdite fino ad un massimo di 9 mld di SFr.

La sanzione del moral hazard rimane un problema aperto. Di fatto, per favorire una rapida fuoriuscita  dalle situazioni di crisi questa volta (diversamente dal 2008) si è deciso di derogare ad alcuni principi fissati: nel caso di SVB si è estesa la garanzia pubblica ai depositi di qualunque importo, malgrado imprese e grandi depositanti difficilmente possano considerarsi soggetti finanziariamente “ingenui o inesperti”. In Svizzera i titolari delle obbligazioni AT1 (Additional Tier 1) emesse da CS sono stati esposti alla sanzione massima (perdita totale) mentre agli azionisti del CS si è concesso di recuperare almeno parte del loro investimento (riceveranno 3 mld SFr in azioni di UBS).

Il ristoro del danno finanziario direttamente e indirettamente inflitto alla comunità resta un passaggio mancante. Il timore di ritardare una normalizzazione della situazione spinge ad evitare decisioni drastiche. Viene però a mancare la definizione di disincentivi tali da spingere gli operatori finanziari ad adottare nella loro quotidiana attività comportamenti prudenti o comunque non spregiudicati.