DAVOS
La globalizzazione è morta? Non ancora

Entriamo in una nuova guerra fredda, sostiene il Fondo monetario in un suo paper, spiegando che l'era della frammentazione è di fronte a noi. Niente affatto, sostiene McKinsey, le sfide di oggi non sono mai state così globali e servono leader e interventi a livello collettivo. Chi ha ragione?

Paola Pilati

L’era della frammentazione è davanti a noi. Il requiem della globalizzazione era già stato annunciato da molte parti, ora è definitivamente intonato dal Fmi, con eco nella messa cantata di Davos. Anche se per le sue nuove previsioni economiche il Fondo ha preferito questa volta evitare la tribuna svizzera e attendere fine mese, i suoi dati parlano chiaro: una nuova guerra fredda è alle porte.

Ma non tutti la pensano così. Il controcanto viene dalla McKinsey, la prestigiosa società di consulenza manageriale, che leggendo i segnali di questa nuova epoca vede invece il bicchiere della globalizzazione mezzo pieno. Semmai, sostiene, è necessario ri-immaginare la globalizzazione. Come? Puntando sulla diversificazione piuttosto che sul decoupling.

Ma vediamo le due posizioni a confronto.

Il Fondo ha definito la sua interpretazione della situazione in una staff discussion recentissima, sintetizzata in un paper dal titolo Geoeconomic Fragmentation and the Future of Multilateralism.

Il grande ciclo di sviluppo che ha portato negli ultimi cinquant’anni verso un maggiore benessere condiviso, attraverso il commercio, gli scambi, il trasferimento di attività industriali dai paesi avanzati a quelli più arretrati, la condivisione delle tecnologia e via dicendo, che ha triplicato il volume dell’economia mondiale e sollevato dalla condizione di estrema povertà 1,5 miliardi di persone ma ha anche avvantaggiato le fasce più povere dei consumatori delle economia avanzate grazie ai prezzi bassi, tutto questo si è bloccato con il covid, poi con la guerra, ma soprattutto con i conflitti commerciali tra le due grandi potenze, gli Usa e la Cina.

Il costo di questa frammentazione, afferma nel suo blog Kristalina Georgieva, direttore generale del Fmi, può tagliare il prodotto globale dallo 0,2 per cento al 7 per cento. Sommando anche il decoupling tecnologico, per alcuni paesi le cose possono andare anche peggio, con perdite del 12 per cento del Pil.

Tanti sono i fattori che possono entrare in gioco e rendere lo scenario più fosco. Il blocco delle migrazioni ridurrebbe le rimesse dei lavoratori verso i paesi di provenienza e priverebbe i paesi d’arrivo di nuove risorse lavorative; il congelamento dei flussi finanziari, la loro frammentazione e regionalizzazione si aggiungerebbe come fattore di rischio alla frammentazione del sistema globale dei pagamenti. Persino la sicurezza del sistema finanziario internazionale potrebbe essere in pericolo.

In parallelo con la frammentazione globale, e con l’incertezza che l’accompagna, il mondo si troverà a che fare con l’aumento dell’incertezza politica. Per misurane i suoi effetti basta prendere ad esempio quello che è successo in gran Bretagna nei tre anni dopo la Brexit: le imprese hanno pagato l’incertezza politica con una perdita di produttività dal 2 al 5 per cento.

Che cosa si può fare per contrastare questo scenario?  Come minimizzare i rischi che questa frammentazione può produrre a danno dei paesi più vulnerabili e con l’effetto di acuire le tensioni geopolitiche?

La risposta del Fondo è articolata. Sui temi di interesse comune come le sfide climatiche, la sicurezza delle forniture alimentari, la lotta alle pandemie,  la risposta deve essere quella di un rafforzamento delle regole che presiedono i rapporti multilaterali.

Dove invece gli interessi dei paesi non sono allineati, e la strada dell’accordo multilaterale porterebbe allo stallo, bisogna scegliere la strada a iniziative plurilaterali ma non discriminatorie. Infine, su materie in cui non c’è spazio per intese, devono essere messi in campo dei “guardrail”, cioè norme di condotta che facciano da “corridoio” per assicurare quel livello minimo di scambi in alcuni settori critici come cibo, finanza, servizi.

Quali argomenti porta McKinsey per rovesciare questa narrazione? Non ci sono mai stati tanti leader presenti a Davos come quest’anno, osserva nel suo paper “Why Davos matters more than ever”, e questo smentisce i catastrofisti e va interpretato come un segno del bisogno da parte dei leader di tutte le parti del mondo che la globalizzazione è un bene, che nessuna regione è un’isola, che tutti si rendono conto di avere bisogno degli altri per beni vitali. Insomma: i legami costruiti negli anni delle grandi liberalizzazioni sono forti e non possono essere recisi.

Ma c’è un altro argomento, ed è quello della natura delle sfide che vanno affrontate oggi: sono tutte sfide per loro natura globali: l’energia, il benessere per tutti, la lotta contro le discriminazioni, contro le pandemie. Per risolverle non bastano dimensioni nazionali, ma servono leader e interventi a livello internazionale.

I temi sul tavolo del meeting di quest’anno, secondo McKinsey, sono cinque, e su questi i leader si devono misurare.

Primo: prepararsi alle sfide di domani. Negli Usa e in Europa, sia il settore pubblico che il settore privato, cioè le imprese, devono organizzare i propri strumenti di difesa e affinare gli strumenti per essere più incisivi in attacco. Quindi investire in tecnologie, in educazione, nella lotta alle disuguaglianze, in progetti che rafforzino le economie e le società con una visione di lungo termine.

Il secondo fronte è quello della sfida energetica per raggiungere il net-zero, il futuro dell’ambiente senza emissioni di gas serra. Ciò implica una allocazione di capitale enorme su questo obiettivo, con grandezze molto superiori a quelle finora messe in campo: gli investimenti, secondo McKinsey, dovrebbero salire di 3,5 trilioni di dollari l’anno.

Terza parola d’ordine: diversificazione. Invece di recidere i rapporti commerciali pensando di rinserrarsi nei propri confini o nel friend-shoring, i rapporti commerciali, oggi troppo concentrati, vanno ricostruiti cercando nuove fonti di approvvigionamento.

Anche l’inclusione è uno strumento di competitività, dice MKinsey. La parità di genere, le disparità economica a livello globale, le discriminazioni in base alla razza sono delle barriere non solo etiche ma anche commerciali. Combattendole, si aprono nuovi mercati per le aziende.

Il quinto tema è la space economy. Il business dello sfruttamento commerciale dello spazio è ancora allo stato nascente, ma il suo sviluppo apre porte verso nuove tecnologie e verso un mercato tutto nuovo e dal potenziale immenso.

Nonostante l’impostazione apparentemente divergente, le due visioni non sono poi così lontane l’una dall’altra. Più concentrata sul proprio ruolo di grande organizzazione sovranazionale la prima, più votata a muovere interessi e attori privati la seconda. Ma entrambe sono due preghiere laiche alla capacità di leadership, alla sua saggezza e visione. Che, a Davos o fuori, non sembra in questo momento illuminare il mondo.