Dalle critiche al pacchetto tedesco da 200 miliardi alla ipotesi che il fondo-calmiere per i prezzi di energia e gas possa decollare proprio grazie alla mossa di Berlino
Un gesto di egoismo, un atto di rottura che mina i rapporti di solidarietà europea. È stata questa la reazione di molti commentatori all’annuncio da parte della Germania di intervenire con un pacchetto di 200 miliardi di euro per supportare l’aumento dei prezzi dell’energia per i propri cittadini e le proprie imprese. Ai giudizi a caldo dichiaratamente critici arrivati da molti governi europei all’indomani della decisione tedesca – compresi quelli dei due commissari europei, Thierry Breton e Paolo Gentiloni, affidati a un articolo su Irish Times – non solo stanno facendo seguito riflessioni più meditate, ma sembra aprirsi la strada a qualcosa di più. E cioè un intervento di supporto a livello europeo.
Ma andiamo con ordine. La Germania si è difesa dalle accuse di volersi cavare dall’impaccio del caro energia voltando la faccia alle difficoltà dei partner europei, affermando che non è la sola a farlo (Francia, Spagna, Portogallo e anche l’Italia ha messo in atto ammortizzatori ai prezzi finanziati dalle casse pubbliche), e aggiungendo che comunque i benefici della mega spesa pubblica tedesca si ripercuoteranno su tutta l’area.
Il fronte opposto ha sottolineato che rendere artificiosamente meno costosa l’energia per i tedeschi avrà effetti sull’inflazione del paese, accentuando le divergenze con gli altri, che dovranno combatterla a mani nude (anche se sia Francia che Italia hanno calmierato altrettanto artificiosamente i prezzi alla pompa).
Ma è soprattutto il tema della competitività in discussione: l’apparato industriale tedesco, motore del continente, potrà essere avvantaggiato dal pacchetto di aiuti, mentre il resto d’Europa arrancherà, oltretutto in uno scenario mondiale che segnala tempi durissimi, anche una recessione globale.
Visto a mente fredda, però, il famoso pacchetto – la cui cifra è certamente di grande impatto – prevede che la spesa dei 200 miliardi non sia uno stanziamento ma la cifra massima spendibile (posto che già 100 miliardi erano stati messi in campo, non è tuttavia chiaro se i 200 siano aggiuntivi o un tetto massimo). Inoltre è vero che la potenza di fuoco è misurata in rapporto al Pil e arriva al 5,5 per cento del Pil tedesco se considerata tutta insieme, però il programma di interventi si spalmerà in due anni, riducendo quindi l’incidenza sul Pil al 2,7 all’anno: l’Italia, per dire, ha speso finora il 3,3 per cento del Pil per contrastare i rincari energetici, e questo nonostante la ben diversa condizione dei conti pubblici.
È proprio la dimensione del pacchetto, tuttavia, che potrebbe spianare la strada, finora chiusa, alla soluzione che molti considerano ideale: un intervento di livello europeo. Se la Germania può permettersi di indebitarsi sui mercati in virtù del suo rigore nei conti e del suo basso debito (condizioni invidiabili, non una colpa), potrebbe essere interesse dell’Europa bilanciarne gli effetti inevitabili sulla competitività dell’intero continente. Impedendo però che gli aiuti finiscano per costituire un liberi tutti nell’uso dell’energia. La parola d’ordine, viceversa, deve essere quella di limitare i consumi.
Per il Bruegel Institute, con un post, tre firme autorevoli – Simone Tagliapietra, Georg Zachmann, e Jeromin Zettelmeyer – si esercitano sull’argomento mettendo subito un paletto: anche qualsiasi misura di solidarietà europea non si deve basare sul supporto finanziario di un paese verso l’altro, ma su un sistema di incentivi che riduca i consumi di tutti. Come appunto dovrebbe accadere con il piano tedesco del “freno” al prezzo del gas e dell’energia elettrica (per il suo funzionamento in sintesi vedi qui).
Per evitare che il continente si muova a macchia di leopardo, scatenando una concorrenza interna tra piani di sostegno nazionali, induce gli autori a sostenere la necessità di un intervento di sistema a livello europeo, ma con delle differenze rispetto a interventi come quelli della pandemia: qualcosa che non sia un semplice fondo di stabilizzazione, come il fondo SURE, e che sia mirato soprattutto alle imprese a forte consumo energetico attive internazionalmente. L’elemento portante della struttura industriale e competitiva del continente. In che modo?
Una strada può essere quella di assicurare il supporto alle imprese nazionali con le caratteristiche appena dette, ma solo a livello europeo: sarà il fondo a supportarle, e in questo caso qualsiasi intervento a livello nazionale dovrà essere proibito. In alternativa, può spettare ai singoli paesi gestire le risorse del fondo, ma con i vincoli imposti dalle regole sugli aiuti di Stato. In tutti e due i casi, deve essere tenuto presente il vincolo di non incentivare i consumi ma anzi di dirigerli verso il risparmio energetico. Anzi, i trasferimenti del fondo potrebbero essere più generosi con chi ottiene meglio questo risultato.
Quanto al finanziamento del fondo, il paper non si sbilancia. Ma sottolinea una cosa: il meccanismo non deve finire per avere effetti redistributivi. Se si utilizzasse la quota del Pil o la griglia dei contributi al budget europeo, questo rischio ci sarebbe. Gli autori indicano quindi preferibile tenere come riferimento la quantità di consumo di gas da parte delle imprese esportatrici energy intensive in rapporto al Pil.
Il ballon d’essai è lanciato. Vedremo se nel pacchetto di interventi su cui l’Europa sta lavorando le resistenze sul fondo saranno vinte. In questo caso dovremmo ringraziare la Germania.