L. Codogno e Giampaolo Galli, Crescita economica e meritocrazia. Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce. Il Mulino 2022, pp.338, 34 euro
Il volume di Codogno e Galli è una boccata d’aria fresca per chi, come me, si è occupato per cinque decenni dell’economia italiana e dei suoi malfunzionamenti (senza peraltro trovare la chiave per rompere l’impasse), perché riesce a descrivere in maniera efficace e sostenuta dai dati quel che ci blocca e ci impedisce di modernizzare l’economia e la società. In sostanza, i meccanismi di selezione delle persone come delle imprese sono frenati da una normativa onnipresente, nella quale si esprimono i compromessi difensivi tra le componenti sociali, da una burocrazia opprimente che frena il cambiamento e da livelli di istruzione del tutto inadeguati per una società, prima che un’economia, che voglia affermarsi nel nuovo ambiente dell’economia della conoscenza.
Gli autori sintetizzano il giudizio su quel che non funziona ponendo al centro la variabile del merito, o meglio il suo debole ruolo nei processi di selezione tra le imprese e le persone; io tenderei a vedere questo fattore come l’espressione manifesta di quel che non funziona, più che la sua causa determinante o principale. In altre parole, in un sistema economico e sociale governato dalle relazioni interpersonali e dalla protezione vischiosa dell’esistente, il merito fatica inevitabilmente ad affermarsi come il criterio principale di selezione. Ma l’introduzione sempre più estesa del merito nei processi di selezione può diventare un motore di miglioramento della società e dei meccanismi che ne governano il cambiamento.
Il messaggio è efficace, la sua verifica da un capitolo all’altro dell’economia – il mercato del lavoro, il sistema delle imprese, l’amministrazione pubblica – appare convincente. Lo snodo cruciale che ci ha condotto ad essere un’economia di bassa crescita è quello tra dimensione d’impresa e produttività (capitolo 2). In effetti, gli ultimi quarant’anni hanno visto una caduta continua della dimensione d’impresa, con una dispersione rilevante di competenze manageriali e industriali. La mia personale visione su questo è che all’origine del fenomeno vi siano la violenza del conflitto sociale degli anni Settanta e la rigidità delle regole d’impiego del lavoro che ne seguirono e che ancora resistono a ogni tentativo di modernizzazione. Il volume ricorda la marcia indietro di nuovo imposta dalle magistrature ai progressi ottenuti con il cd. Jobs Act introdotto dal governo Renzi (capitolo 8).
In tale ambiente, le imprese hanno scoperto evidentemente che si sopravvive meglio frammentando l’impresa nelle sue componenti, riducendo la dimensione media, riservando le posizioni decisionali a membri della famiglia (capitolo 9). La debolezza del tessuto d’impresa e l’esigenza di sostenere l’impiego del lavoro in misura rilevante divenuto inefficiente e troppo costoso ha a sua volta alimentato una economia dei sussidi, nella quale si sono generati un ruolo abnorme del settore pubblico nel sostegno delle imprese inefficienti e le degenerazioni culturali così ben descritte dagli autori del volume.
Il volume è ben conscio del peso della nostra “storia travagliata”, che ci ha lasciato in eredità un patrimonio rilevante di sfiducia reciproca tra le persone e tra le persone e lo stato. La sfiducia è il primo indicatore del capitale sociale, a sua volta emerso negli ultimi anni come variabile fondamentale nelle analisi della capacità di crescita dei paesi. Ebbene, una tabella piuttosto shoccante sugli indicatori di capitale sociale del nostro paese nel confronto internazionale (Tab. 3,1) vede l’Italia agli ultimi posti tra i paesi dell’OCSE per la fiducia nelle istituzioni finanziarie e nelle banche, nel pubblico e nei politici, nel sistema giudiziario, financo nelle reti famigliari e amicali di sostegno in caso di difficoltà. Dunque, meglio non averne bisogno: con la conseguenza di abbassare drasticamente la propensione al rischio: gli investimenti più lunghi si fanno solo con il sostegno dello stato, con la conseguenza prevedibile che questo privilegia gli attori esistenti ed è incapace di promuovere nuove direzioni per l’impiego del capitale, anche meno nelle nuove tecnologie che alterano in maniera sospetta gli equilibri esistenti.
Nell’introduzione gli autori ci ricordano che il merito, in realtà metafora per una selezione competitiva aperta, costituisce il fondamento di una società libera, nella quale il destino delle persone dipenda dall’uguaglianza diffusa delle opportunità. In questo senso il merito ha una importante funzione morale, perché nutre di legittimità i processi economici e sociali di selezione e il cambiamento che ne deriva. Quando le persone sanno che la selezione si basa sul merito, gli standard morali delle istituzioni, come delle imprese, come dei meccanismi di mercato sono elevati; al contrario, essi degradano quando la selezione si basa sul clientelismo. Questa è la lezione principale che riterrei dalla lettura di questo bel volume, che raccomando nel modo più favorevole per i giovani studiosi, ma anche i non specialisti che vogliano capire un po’ meglio perché il nostro paese è inchiodato da vari decenni sulla crescita dello zero virgola.