Scenario globale
La Fed e la stabilità finanziaria

Rischio liquidità. Rischio indebitamento. Quotazioni di borsa troppo alte. I segnali di fragilità dell'economia mondiale tenuti sotto controllo dalla Federal Reserve aumentano. Per evitare una nuova crisi finanziaria, alle mosse dell'autorità monetaria si devono aggiungere le politiche fiscali e industriali

Giorgio Di Giorgio
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Sono trascorsi oltre 11 anni dal culmine, con il fallimento di Lehman Brothers, della grande crisi finanziaria internazionale scoppiata nell’estate del 2007. Il ricordo dei lunghi mesi dominati da incertezza, paura, instabilità dell’intero Sistema finanziario è ancora vivo, e non solo tra gli esperti e le autorità di politica economica e di regolamentazione e vigilanza sui mercati e sugli intermediari. 

Non deve quindi sorprendere che, nonostante un lungo percorso – decennale – di ripresa prima e di espansione poi nella maggior parte dei paesi industrializzati, il rallentamento in corso nei ritmi di crescita dell’economia mondiale e una serie di vulnerabilità riscontrabili nei mercati finanziari inducano nuovi e fondati timori di un possibile imminente ritorno di scenari negativi. 

L’ultimo World Economic Outlook del Fondo Monetario internazionale (Ottobre 2019) stima al 3% la crescita mondiale nel 2019 e al 3,4% quella nel 2020, riconoscendo esplicitamente nella caduta del commercio mondiale, alimentata da dannose politiche protezionistiche, e nel contemporaneo rallentamento della manifattura negli USA, in Germania e in Cina le principali ragioni delle difficoltà attuali.  

Il ritmo di crescita  è decisamente inferiore a quanto realizzato negli ultimi anni, ma non drammaticamente al di sotto (solo di un paio di decimali) dalla performance media dell’economia mondiale negli anni ‘80 e ‘90, che certo non ricordiamo come “anni di crisi”. 

È vero, tuttavia, che il dato emerge da un contributo molto limitato dei paesi industrializzati – che si prevede crescano in media poco sopra l’1,5% questo e il prossimo anno – e da performance brillanti (superiori al 5% di crescita) solo in alcuni paesi emergenti.  Il rapporto del Fondo riconosce, peraltro, che al rallentamento globale in corso, le politiche monetarie potranno opporre solo armi ormai spuntate, dato il livello molto basso, quando non negativo, dei tassi di interesse e l’abbondante liquidità emessa negli ultimi dieci anni dalle banche centrali. 

Senza il supporto di tali politiche la crescita mondiale sarebbe stata inferiore di mezzo punto percentuale.

In verità, giova ricordare anche alcuni aspetti positivi dello scenario macroeconomico internazionale, come il livello eccezionalmente basso della disoccupazione nei maggiori paesi, che sostiene il reddito disponibile delle famiglie e i livelli di consumo, l’assenza di tensioni inflazionistiche e una dinamica ancora robusta dei profitti delle imprese, una evidente maggiore solidità patrimoniale nei sistemi bancari e finanziari.  

Una valutazione oggi dell’effettiva rischiosità della situazione economica e finanziaria mondiale non è quindi per nulla banale, dovendo necessariamente “pesare” e confrontare i molti fattori di fragilità, in particolare il notevole indebitamento, sia pubblico che privato, ma anche i prezzi elevati sui mercati di borsa, con gli appena richiamati punti di forza e resilienza dei mercati del lavoro e dei beni. 

Il compito sarà comunque reso più agevole dal recente impegno assunto dalla Federal Reserve di unirsi ad altre importanti banche centrali nella produzione di un Rapporto sulla stabilità finanziaria, nonostante che l’obiettivo della stabilità finanziaria – per quanto richiamato, anche esplicitamente, in alcuni frammenti della normativa statunitense –  non possa certo considerarsi avere lo stesso ruolo, sicuramente dal 2012, rispetto al cosiddetto “dual mandate” di garantire la stabilità dei prezzi e il pieno impiego delle risorse (un tasso di disoccupazione vicino al suo livello “naturale”).   

La Fed, dal novembre 2018, pubblica due volte l’anno, una disamina analitica degli shocks che colpiscono il sistema finanziario e delle principali vulnerabilità che lo stesso sembra esibire. Gli shocks, per definizione, sono eventi inaspettati che colpiscono profondamente le dinamiche di un sistema economico e finanziario e che richiedono una adeguata risposta di policy. Le vulnerabilità, invece, costituiscono riconoscibili fattori di fragilità che possono, nel tempo, causare problemi e difficoltà.  Un efficace monitoraggio delle stesse, e il tentativo di contenerle e ridurle con azioni mirate, contribuisce a ridurre gli effetti negativi indotti dalla realizzazione di futuri shocks avversi.

La Fed classifica le vulnerabilità presenti nel sistema finanziario in quattro categorie distinte. 

Una prima categoria è relativa a pressioni valutative che possono indurre prezzi di attività molto superiori ai valori “normalmente” assunti, anche da un punto di vista storico, e che potrebbero quindi originare veloci ed intense cadute negli stessi e indurre rilevanti perdite nei bilanci di chi le detiene.

Molta attenzione è poi posta sia sul livello di indebitamento di famiglie ed imprese –  che espone a costi rapidamente crescenti in caso di riduzione dei flussi di reddito, di cadute nel valore delle attività o di repentini aumenti nei tassi di interesse e/o nei premi per il rischio – sia sulla leva del sistema finanziario nel suo complesso, così come costituito da banche e altre società di intermediazione finanziaria. Un sistema ben capitalizzato ha ovviamente maggiori capacità di reagire ad eventuali shocks negativi senza ridurre prestiti, garanzie e altre attività svolte a favore dei prenditori di fondi.  

Infine, il sistema finanziario è esposto a rischi di liquidità, investendo normalmente in strumenti a più lunga scadenza e in media meno liquidi rispetto a quelli con cui ottiene le risorse (depositi o quote di fondi comuni sul mercato monetario).

Nell’ultimo report di Maggio (il prossimo uscirà in Novembre), la Fed stimava preoccupanti il livello di indebitamento delle imprese, ed in particolare delle imprese più rischiose (che emettono high yield bonds) e, seppure non eccessivamente, la valutazione dei prezzi di borsa, che rifletteva un sostenuto appetito per il rischio da parte degli investitori. 

Per contro, la solida capitalizzazione delle maggiori banche negli USA, una leva contenuta delle imprese di investimento e una posizione finanziaria florida delle compagnie assicurative, consentiva un moderato ottimismo, confermato dal riconoscere un peso modesto, in rapporto ai redditi, dell’indebitamento delle famiglie, in particolare se confrontato con la situazione pre crisi dei mutui subprime.

Che cosa è cambiato negli ultimi mesi? Sicuramente, le pressioni valutative si sono fatte ancor più rilevanti, dato che la dinamica macroeconomica attesa in generale peggioramento avrà qualche effetto sui profitti futuri delle aziende, che sinora sono stati un fattore di sostegno ai prezzi. L’atteggiamento accomodante delle autorità di politica monetaria potrebbe limitare il trasferimento sul mercato del lavoro di effetti negativi, giocando sul mantenimento di oneri finanziari limitati, ma gli spazi non sono molti.

 È necessario che politiche fiscali e industriali intervengano a sostenere la domanda aggregata, per disinnescare il rischio che una crisi di fiducia sui mercati finanziari riporti ad un rapido aumento dei premi al rischio e spinga in difficoltà una quota consistente delle imprese più indebitate. In questa ottica devono leggersi I ripetuti recenti richiami di Mario Draghi all’opportunità di affiancare l’azione delle banche centrali con altri strumenti di policy. 

I prossimi mesi indicheranno se l’attuale fragile e rischioso sentiero di espansione dell’economia mondiale potrà riprendere con maggiore tranquillità e superare i timori di ritorno di una situazione di crisi finanziaria. Un ruolo importante sarà giocato dal sostegno alla domanda aggregata offerto da politiche fiscali auspicabilmente e responsabilmente espansive (laddove possibile) e da opportune strategie di rafforzamento patrimoniale da parte delle imprese più indebitate.

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