Se Powell deciderà di puntare alla difesa dell’indipendenza della Fed, a fine ottobre dovrebbe mantenere i tassi di interesse al loro livello attuale. Una loro ulteriore riduzione potrebbe minare pesantemente la reputazione anti inflazionistica conquistata negli ultimi dieci anni dalla banca centrale americana
Alla riunione di settembre, il Comitato sulle Operazioni di Mercato Aperto (FOMC) della Federal Reserve ha ripreso il percorso, iniziato un anno prima ma interrotto a dicembre, di riduzione dei tassi di interesse di policy (il federal funds rate), posizionandone il livello target nella forbice compresa tra il 4 e il 4.25%.
La decisione è stata presa con 11 voti favorevoli e 1 contrario, quello del neo nominato membro del Board of Governors, Stephen Miran, già responsabile del Council of Economic Advisors del Presidente Trump, che si era pronunciato a favore di una riduzione di 50 basis points invece che di soli 25.
La riduzione dei tassi arriva, forse con qualche mese di ritardo, in un contesto caratterizzato da un clima teso nei rapporti tra la Banca Centrale americana e l’Amministrazione Trump, clima che ha probabilmente ostacolato l’anticipo di tale decisione a giugno, in un contesto probabilmente più favorevole di quello odierno.
Come noto, infatti, il Presidente USA, appena rieletto, ha iniziato a pungolare, con insistenza e toni anche poco gradevoli, il Chairman del Board della Fed, affinché quest’ultimo proponesse rapidamente ben maggiori riduzioni dei tassi di interesse, allo scopo di favorire l’andamento dell’economia e un meno oneroso servizio del crescente e preoccupante debito pubblico statunitense.
A fine agosto, Trump ha addirittura licenziato, sulla base di un post pubblicato sui social (il cui contenuto è ancora da verificare) uno dei membri del Board, la prima donna afroamericana a ricoprire tale posizione, accusata di aver ottenuto condizioni di favore per un mutuo (prima di esser nominata da Biden e confermata dal Senato nel Consiglio della FED), fornendo informazioni non veritiere. Il Tribunale ha sospeso il licenziamento, su istanza della stessa governatrice (Michelle Bowman), in attesa che i fatti vengano acclarati e che sia valutata la effettiva realizzazione di una delle poche fattispecie che consentono la rimozione di un membro del Consiglio Direttivo della Banca Centrale, la cui indipendenza deve essere tutelata per garantire il perseguimento di un bene pubblico come la stabilità dei prezzi.
Il contesto non è quindi certamente dei più facili per formulare previsioni su quelle che saranno le prossime mosse della Fed, e costituisce un elemento di incertezza notevole per gli operatori che agiscono sui mercati finanziari, in particolare sul segmento del fixed income, ma anche sui mercati azionari.
Se infatti nell’Eurozona l’inflazione già ad agosto era tornata pienamente in linea con l’obiettivo della BCE, a fronte di una crescita economica solo in lieve ripresa ma ancora a tassi decisamente bassi, negli Stati Uniti, oggi, il mandato duale assegnato alla Fed di garantire la massima occupazione e la stabilità dei prezzi pone una bella sfida.
La revisione della strategia di politica monetaria appena varata dalla Fed ha eliminato ogni riferimento ad un tasso “medio” di inflazione e confermato il 2% come obiettivo di crescita del livello generale dei prezzi al consumo. Oggi, tuttavia, l’inflazione negli USA è vicina al 3% e in lieve risalita, e gli ultimi dati sulla crescita del prodotto interno lordo e sulla disoccupazione mostrano una situazione dell’economia tutt’altro che in difficoltà.
Nel secondo trimestre del 2025, il Pil USA ha conseguito una variazione positiva del 3.8%, di molto superiore alle aspettative, e le richieste di nuovi sussidi di disoccupazione sono risultate in diminuzione. La recente decisione di ridurre i tassi di 25 basis points era stata motivata dal garantire sostegno all’occupazione, qualcosa che non sembra più così urgente a pochi giorni di distanza, in particolare se confrontata con un’inflazione ben superiore all’obiettivo e a solo un mese dall’aver sottolineato ufficialmente, eliminando il riferimento all’averaging inflation targeting nello Statement on longer run policy targets, l’opportunità di ancorare saldamente al 2% le aspettative di inflazione.
Insomma, il mandato duale della Fed pone oggi un bel dilemma: il perseguimento della stabilità dei prezzi, minacciata anche dalle pressioni al rialzo indotte ai prezzi dei beni importati dall’imposizione dei dazi voluti da Trump, non suggerisce certo di continuare nella riduzione dei tassi di interesse, ma di monitorare, se caso, se non sia necessario un passo indietro!!!
Al contempo, il sostegno all’occupazione che, prima dell’estate, era una ragione solida per ridurre i tassi, a fronte di una contrazione del PIL di circa mezzo punto percentuale nel primo trimestre, è oggi forse non più necessario. I razionali economici di un ulteriore sforbiciata ai tassi mancano, rimangono solo le forti pressioni politiche dell’Amministrazione Usa, la quale, ora, ha anche un nuovo portavoce “interno” nel Board of Governors.
Se Powell deciderà di puntare alla difesa dell’indipendenza della Fed, un obiettivo ragionevole a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, a meno di nuove sorprese nei dati, a fine ottobre dovrebbe mantenere i tassi di interesse al loro livello attuale. Una loro ulteriore riduzione potrebbe minare, e pesantemente, la seria reputazione anti inflazionistica conquistata negli ultimi dieci anni dalla Banca Centrale americana, senza peraltro aver visto ridursi la propria capacità di sostenere con flessibilità sia l’economia reale che il buon funzionamento del sistema finanziario.