BANCHE CENTRALI
La diversa “normalizzazione” delle politiche monetarie negli USA e nell’Eurozona

Normalizzare la politica monetaria significa uscire dai tassi di interesse negativi. Una politica monetaria “normale” torna a gestire la dinamica dei tassi di policy, e degli altri strumenti a disposizione, in modo coerente con la sottostante evoluzione dell’andamento economico e dei prezzi. La decisione di rimuovere il fenomeno più eclatante degli ultimi otto anni, cioè i tassi negativi, va salutata con soddisfazione

Giorgio Di Giorgio
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Il ritorno dell’inflazione è stato rapido e impetuoso nella gran parte dei paesi industrializzati. Gli ultimi dati parlano di incrementi dell’indice generale dei prezzi intorno al 8%, negli USA come nell’Eurozona. Solo nove mesi fa il consenso era ancora forte sul considerare i primi segnali di aumenti dei prezzi come “temporanei” e meno preoccupanti. Forse perché ci eravamo tutti abituati all’assenza di fenomeni inflazionistici da intere decadi e nonostante 15 anni di politiche monetarie ultra accomodanti e super espansive nel post crisi finanziarie (dei mutui subprime negli USA, dei debiti sovrani per la BCE). Semmai, il rischio è stato a lungo di cadere in deflazione e il risultato conseguito quello di rimanere ben al di sotto degli obiettivi di inflazione dichiarati dalle banche centrali. 

La ripresa dell’inflazione è stata alimentata dai forti rincari nei prodotti energetici e nelle materie prime, in gran parte dovuti al venir meno, per l’emergenza pandemica, delle naturali interconnessioni commerciali tra paesi, bloccate da lockdown e chiusure di molte delle strutture alla base delle catene logistiche di approvvigionamento. 

Lo scoppio del conflitto in Ucraina ha ulteriormente contribuito ad allargare ai prodotti alimentari rincari rilevanti e ha innescato fenomeni speculativi su gas e petrolio, che vanno oltre l’impatto della riduzione di offerta di materie prime dalla Russia e dall’Ucraina. Alla ripartenza dell’inflazione hanno d’altronde contribuito senza dubbio il cumularsi di liquidità in eccesso, la ripresa della domanda di beni e servizi fortemente compressa durante la pandemia e gli ingenti sostegni alla domanda aggregata assicurati ovunque dai governi, con stimoli fiscali addizionali cumulati che hanno raggiunto percentuali del 20-25% del Pil negli USA. 

La dinamica dell’inflazione recente –  simile nell’aggregato, seppure con qualche mese di ritardo nell’Eurozona –  è d’altronde diversa, nella sua composizione, tra USA ed Europa. Negli Stati Uniti l’energia spiega circa 1/3 dell’aumento dei prezzi, ma le pressioni salariali e l’eccesso di domanda aggregata hanno dato il maggiore contributo.

Il tasso di disoccupazione è di nuovo sui minimi negli Usa, nonostante una occupazione che ancora non torna ai livelli prepandemici. Sul mercato del lavoro USA pesano infatti i mismatch tra gli skills richiesti dalle aziende e le competenze dei lavoratori; l’uscita di centinaia di migliaia di lavoratori dalla forza lavoro, probabilmente per motivi psicologici e sanitari connessi alla pandemia; la riduzione della forza lavoro femminile connessa alla chiusura, durante il Covid, di numerosi centri di accoglienza e assistenza a bambini ed anziani, che sicuramente ha impattato con maggior rilevanza sulle donne.

Nell’Eurozona, l’occupazione ha tenuto meglio per la maggiore estensione dei programmi di welfare e la dinamica salariale è stata sin qui modesta. Mentre i 2/3 dell’inflazione sono importati e di origine energetica ed alimentare.  

Ciò spiega la diversa reazione di Fed e BCE, con la prima più veloce nel tornare ad aumentare i tassi di interesse e più aggressiva in termini di riduzione del bilancio della banca centrale. La Fed ha alzato i tassi già due volte, con il primo aumento, di soli 25 basis points, a marzo, sicuramente influenzato dal recentissimo avvio dell’invasione dell’Ucraina, e il secondo, in maggio, di 50 basis points, che annuncia ulteriori strette di pari intensità.

Ha anche già attivato una riduzione rilevante nello stock di titoli in bilancio, sia governativi che di origine cartolarizzata, annunciando che, a partire dal corrente mese di giugno, il ricavato dei rimborsi di titoli acquistati sul mercato aperto e venuti a scadenza sarà reinvestito solo se in eccesso rispetto ad alcune soglie. Queste  sono state determinate in 30 miliardi di dollari per i titoli governativi (60 miliardi nei tre mesi successivi) e 17,5 per gli MBS/ABS (35 nei tre mesi successivi). Le aspettative di mercato vedono altamente probabile un ritorno del fed funds rate al 3,25 – 3,50% entro un anno, per poi stabilizzarsi ed eventualmente scendere di poco qualora l’inflazione torni vicina all’obiettivo del 2%.  

La BCE ha invece mantenuto gli annunci relativamente all’abbandono in marzo del programma straordinario di acquisti pandemici (il PEPP), svincolato dalla capital key rule che inibisce, nel più tradizionale APP, acquisti non proporzionali alle quote di ogni paese nel capitale della BCE, potenziando solo marginalmente nel secondo trimestre il quantitative easing tradizionale (appunto l’APP), anche esso ora in chiusura.

Al momento sono stati previsti due aumenti dei tassi di interesse di 25 basis points ognuno in estate (luglio e settembre), mantenendo tuttavia ad oggi l’intenzione di reinvestire l’intero ricavato ottenuto dai titoli che verranno a scadenza per tutto il 2022, così da mantenere invariato il bilancio della banca centrale e elevata la liquidità nel sistema finanziario, in un contesto in cui decisamente le ripercussioni negative sull’andamento dell’economia del conflitto tra Russia ed Ucraina preoccupano maggiormente. Si tratta di un approccio, che dovrà essere confermato sulla base dei prossimi dati, più cauto e ispirato a maggiore cautela, ma non necessariamente sbagliato. 

Normalizzare la politica monetaria, d’altronde, significa uscire (finalmente!!) da quell’anomalia caratterizzata nell’Eurozona (ma non negli USA) da tassi di interesse negativi che hanno prodotto effetti collaterali di difficile comprensione e di non uniforme valutazione. Una politica monetaria “normale” torna a gestire la dinamica dei tassi di policy, e degli altri strumenti a disposizione –  dalle operazioni di mercato aperto, a titolo definitivo piuttosto che repo, ai rifinanziamenti del settore bancario e finanziario alla forward guidance –  in modo coerente con la sottostante evoluzione dell’andamento economico e dei prezzi. La calibrazione del contributo dei diversi strumenti potrà mutare nel tempo, ma la decisione di rimuovere per prima cosa il fenomeno più eclatante degli ultimi 8 anni, cioè i tassi negativi, va senza dubbio salutata con soddisfazione.

Va anche sottolineato che il bilancio della BCE, rispetto a quello della FED, è cresciuto meno, nei quindici anni trascorsi dallo scoppio, nell’estate del 2007, della grande crisi finanziaria internazionale. Fatto pari a 100 il bilancio delle due banche centrali nel 2007, oggi la FED è a 950 e la BCE di poco inferiore a 600.  Mantenere un approccio di politica monetaria accomodante nei prossimi mesi, a fronte dell’incertezza che sta rapidamente riducendo le attese di crescita e (in alcuni casi) addirittura facendo paventare rischi di recessione sembra un approccio condivisibile, anche considerando i vincoli evidenti ad ulteriori ricorsi al debito pubblico nel contesto europeo.

Ricordiamoci che mentre negli USA esiste la possibilità di consolidare (almeno teoricamente) il bilancio di banca centrale e tesoro, nell’Eurozona non esiste una sovrapposizione geografica e politica tra le aree di riferimento della politica monetaria e del bilancio (o nazionale o dell’UE a 27, ma certamente non dell’area dell’euro). E, con l’eccezione della sola Germania, ovunque il debito in rapporto al PIL è cresciuto oltre i livelli di guardia identificati dalla letteratura prevalente. In Italia, tale rapporto è al 150%, ma in Francia e Spagna si colloca comunque al 112% e al 118%, rispettivamente.

Gradualità, prudenza e attenzione all’evoluzione macroeconomica dovranno quindi orientare le prossime scelte della BCE, che non necessariamente dovrà imitare da vicino la FED. 

La sfida è costituita dal bilanciare i rischi di perdere il controllo dell’inflazione con quelli di destabilizzare il sistema finanziario e portare l’economia in recessione. Un compito difficile, ma le cui ricette sono meglio conosciute rispetto alle ardite novazioni nella varietà e nell’uso di strumenti di policy cui ci hanno abituato negli ultimi quindici anni le nostre Autorità monetarie.

L’auspicio è che la “normalizzazione” delle banche centrali si accompagni ad una rimozione delle drammatiche fonti di rischio ed incertezza che originano dal conflitto in Ucraina e dal mutare e perdurare della minaccia pandemica, così da riportare l’economia mondiale sul quel percorso di ripresa abbandonato troppo presto dopo l’esperienza devastante della mega recessione “sanitaria” del 2020.