Osservatorio Banche
La difficile partita delle banche da salvare

Le istituzioni in crisi irreversibile non sono molto numerose in Italia. Eppure la sistemazione dei casi più importanti si sta rivelando un nodo difficile da sciogliere, molto più del passato

Silvano Carletti
Carletti

il sistema bancario italiano appare fiducioso sul tono complessivamente positivo dei bilanci 2021, dopo un 2020 che ha visto in perdita tre dei gruppi maggiori e il 9% delle banche minori. Sia la Banca d’Italia sia l’EBA (European Banking Authority) per il versante europeo hanno documentato come il RoE mediamente conseguito nel primo semestre 2021 sia stato di 6-7 punti percentuali superiore al dato di dodici mesi prima. L’ottimismo che spesso viene percepito nelle dichiarazioni dei vertici aziendali, quindi, sembra questa volta fondato.

Se dai consuntivi si passa agli scenari previsionali il quadro rimane relativamente favorevole. Secondo Prometeia, i prossimi due anni risentiranno di un maggiore flusso di rettifiche con il RoE (medio) del sistema al di sopra del 5% solo nel 2024, uno scenario non brillantissimo ma comunque meno sfavorevole di quanto immaginato poco tempo fa. È quasi superfluo evidenziare che questa previsione (come le precedenti) è largamente vulnerabile agli esiti del contrasto alla pandemia, un fronte sul quale l’errore di previsione è stato finora ampio.

Nel descrivere l’evoluzione del sistema bancario italiano c’è una sezione di cui si parla meno volentieri, quella delle istituzioni in condizioni critiche. È una problematica con cui si confronta la quasi totalità dei paesi europei, circostanza che ovviamente non attenua in alcuna misura il problema.  

Le istituzioni in crisi strutturale in Italia non sono per fortuna numerose e nella maggior parte dei casi si tratta di banche di minore dimensione. A quest’ultima classificazione sfuggono tre gruppi bancari, Monte dei Paschi, Carige, Popolare di Bari. Il primo ha dimensioni rilevanti (totale attivo pari a circa 150 mld); gli altri due sono di dimensione minore (22 mld e 11 mld, rispettivamente) ma comunque istituzioni di riferimento nella loro regione e in alcune di quelle limitrofe.

Con un deciso intervento esterno in tutti e tre i casi è stata imposta una netta svolta sia nella gestione sia nella situazione patrimoniale. La fragilità di queste istituzioni è un dato acquisito da tempo e ha reso necessari molteplici e cospicue ricapitalizzazioni: nel caso del Monte dei Paschi, dal 2008 a oggi, 5 per un totale di 23,5 mld; da parte sua Carige dal 2013 ha concluso 4 ricapitalizzazioni per un importo totale prossimo a 3 mld; il rafforzamento patrimoniale della Popolare di Bari è stato invece pari a 1,6 mld. 

Negli anni più recenti a farsi carico di questo onere è toccato allo Stato (direttamente nel caso del Monte dei Paschi, attraverso il Mediocredito Centrale in quello della Popolare di Bari); al salvataggio di Carige ha invece provveduto il FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) e quindi l’insieme delle banche italiane. Tesoro, Mediocredito Centrale e FITD ne sono così diventati gli azionisti dominanti. Per Monte dei Paschi e Carige la BCE richiede in tempi relativamente brevi una nuova iniezione di capitale (2,5-3 mld e 400 mln, rispettivamente).

Quando si decide intervenire in realtà bancarie in condizioni critiche il percorso che si immagina è (in estrema sintesi) articolato in tre tappe: prima di tutto neutralizzare ogni rischio di instabilità sistemica con un forte rafforzamento patrimoniale; poi avviare un’intensa attività di riqualificazione delle principali voci del conto economico e dello stato patrimoniale, passaggio questo che inizia con il ricambio integrale dei vertici aziendali; la terza fase è quella della ricerca di un operatore del settore disposto ad acquisire e rimettere definitivamente in carreggiata queste banche. 

Guardando alle tre istituzioni considerate, si può dire che il primo obiettivo è stato raggiunto.  La seconda parte del percorso è un working in progress richiedendo tempi piuttosto lunghi ma con prime, limitate indicazioni favorevoli (nei bilanci intermedi del 2021 si rileva un timido risultato positivo per Monte dei Paschi e una riduzione delle perdite per Carige). 

La ricerca del cosiddetto socio industriale si sta rivelando (non inaspettatamente) il passaggio più difficile dell’intero processo. Le condizioni poste da UniCredit per aggregare Monte dei Paschi sono state dichiarate non accettabili. Nel caso di Carige bisognerà aspettare metà febbraio per sapere se BPER vorrà presentare un’offerta vincolante. Per quanto riguarda Popolare di Bari sembra essere proprio Mediocredito Centrale (entità pubblica) l’operatore bancario che cercherà di riformularne il profilo, un progetto che per ora però esiste solo nei comunicati e nelle dichiarazioni. 

Un processo di crescita realizzato attraverso acquisizioni è un’opzione disponibile in ogni settore produttivo. Nella storia di Google si contano quasi 240 acquisizioni, di cui due terzi dal 2001 in poi. L’esperienza degli ultimi decenni indica che uno sviluppo realizzato lungo linee esterne invece che attraverso una (più lenta) crescita interna è scelta frequente quando si aprono nuovi spazi di attività, per esempio per effetto di radicali novità normative e/o di un processo di innovazione particolarmente intenso. Nell’attuale realtà italiana nessuna rivoluzione normativa è in corso e le istituzioni da salvare non possono certamente dirsi campioni di innovazione. 

Perché allora un’istituzione “in salute” dovrebbe impegnarsi nell’acquisizione di queste banche? La stampa propone tesi molto deboli, quale ad esempio la volontà di UniCredit di colmare il divario dimensionale con Intesa. Più robusta sembra quella individuabile nella volontà di BPER di costruire con il suo azionista di riferimento (Unipol) un conglomerato bancario-assicurativo di rilevante dimensione.  

Quello della sistemazione delle banche in profonda crisi è una partita in cui oggi è soprattutto il compratore a guidare la trattativa. Il venditore ha da tempo abbandonato la speranza di recuperare quanto speso per le ricapitalizzazioni e ha il prevalente obiettivo di uscire rapidamente di scena. L’aumento a livelli adeguati delle rettifiche sui prestiti irregolari, l’aggiornamento tecnologico, il finanziamento del processo di riduzione degli organici, etc richiedono al venditore di predisporre una rilevante dote finanziaria. Il compratore richiederà un incremento di questa grandezza per coprirsi a fronte del cosiddetto execution risk, il rischio che alcune previsioni che supportano l’acquisizione siano smentite in senso sfavorevole, un rischio che anche la più meticolosa due diligence o la più evoluta pianificazione (ad esempio sul fronte delle sinergie) può solo contenere. 

Supponendo che compratore e venditore trovino un accordo sulla dimensione complessiva di questo importo si è arrivati alla cosiddetta neutralità finanziaria dell’operazione. Per poterla effettivamente realizzare, tuttavia, è ancora necessario che il venditore aggiunga un incentivo finanziario per convincere il compratore, anche se per quest’ultimo l’incentivo più forte per concludere l’acquisizione è (o dovrebbe essere) la solidità del progetto industriale.

In definitiva, quindi, la sistemazione di realtà bancarie in profonda crisi richiede di combinare da un lato un rilevante sforzo finanziario, dall’altro lato una solida prospettiva industriale. Mettere insieme questi due aspetti è particolarmente difficile, con l’evoluzione del quadro economico-finanziario generale che può facilitare o al contrario allontanare eventuali ipotesi di chiusura.