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Osservatorio Banche
La deriva sovranista coinvolge anche le banche

 

 

Il processo di costituzione dell’Unione Bancaria Europea ha consentito finora una strutturale rifondazione del circuito bancario continentale che oggi appare decisamente più solido. La febbre sovranista ed euroscettica allontana la possibilità di un suo completamento?

 
Silvano Carletti
Carletti

Le recenti elezioni europee hanno mostrato quanto seria sia la minaccia sovranista il cui obiettivo più immediato è arrestare il già lento processo di costruzione europea. Per contrastare questa ondata di euroscetticismo (termine sempre più inadeguato a descrivere la situazione), sarebbe opportuno dare più sostanza ed energia al processo di integrazione continentale ma il contagio sovranista, i nodi irrisolti e gli errori compiuti rendono particolarmente complicato questo percorso.

L’ambito bancario è tra quelli in cui più visibili sono le favorevoli conseguenze determinate dalla costruzione di una nuova dimensione europea. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di un percorso non ancora completato. Il progetto di Unione Bancaria Europea è nato nel 2012 nel pieno di una crisi del debito sovrano che scosse profondamente il vecchio continente. L’obiettivo di fondo che l’Unione Bancaria deve conseguire è attenuare il legame bidirezionale esistente tra banche e rischio sovrano: da un lato, far sì che le eventuali difficoltà di istituti di rilevante importanza non determino conseguenze tali da richiedere rilevanti interventi della finanza pubblica; dall’altro lato, evitare che in paesi sottoposti a tensioni di finanza pubblica si determino situazioni che mettano in discussione la solidità patrimoniale del circuito bancario.

Il progetto è articolato nella costruzione di tre pilastri. Il primo è quello dell’accentramento della vigilanza bancaria presso la Bce (Single Supervisory Mechanism – Ssm), pilastro pienamente e rapidamente realizzato: dal novembre 2014 la responsabilità della vigilanza bancaria sui circa 130 principali operatori continentali è passata dalle autorità nazionali alla Bce, con un evidente salto di qualità nei requisiti e nel rigore dei controlli. Inattese crisi bancarie di rilevante spessore sembrano oggi meno probabili.

Il secondo pilastro è quello della definizione di regole e istituzioni europee tali da garantire una risoluzione ordinata delle banche in dissesto, con costi il più possibile limitati per i contribuenti e per l’economia reale (Single Resolution Mechanism – Srm). Le banche sono state chiamate a finanziare la costituzione di un Fondo di risoluzione. Operativo dal 2016 il Srm propone un consuntivo non pienamente soddisfacente: per evitare l’applicazione di alcune delle regole fissate (a partire dal principio del bail-in) e trattandosi di operatori di media e piccola dimensione, si è preferito continuare ad intervenire sulla base di regole nazionali di liquidazione, assai difformi da paese a paese.

Il terzo pilastro – costituzione di un unico sistema di assicurazione dei depositi (European Deposit Insurance System – Edis) – non è stato mai realizzato. Alcuni paesi non intendono condividere i rischi finanziari di altri, un rifiuto che persiste immutato sebbene la solidità delle diverse articolazioni del sistema bancario europeo sia molto migliorata negli ultimi 10 anni. 

In quest’ultimo caso, se non è stato raggiunto l’obiettivo principale, è stato compiuto tuttavia un rilevante sforzo di armonizzazione, che contribuisce alla stabilità e all’ordinato funzionamento del circuito bancario continentale. Una direttiva approvata nell’aprile 2014 (Deposit Guarantee Schemes Directive) stabilisce un identico livello di protezione dei depositi, in termini sia di ammontare (copertura totale fino a 100mila euro) sia di tempi di liquidazione. In ogni paese deve esistere almeno un Fondo di tutela di depositi con una disponibilità di risorse non inferiore allo 0,8% dei depositi, un traguardo questo da raggiungere non più tardi del 3 luglio 2024. A finanziare i fondi di tutela sono le banche che ad essi aderiscono, attraverso versamenti di liquidità o anche (fino ad un massimo del 30%) attraverso impegni assistiti da collaterali altamente liquidi che il fondo di tutela possa monetizzare rapidamente. Ogni operatore bancario (comprese le filiali di banche estere) deve obbligatoriamente aderire ad uno dei fondi di tutela esistenti. Se il Fondo di tutela è chiamato a far fronte agli effetti di un dissesto, entro tempi definiti i suoi mezzi finanziari devono essere riportati alla soglia minima dello 0,8%.

In assenza di un fondo unico di tutela, l’applicazione erga omnes di un ratio minimo dello 0,8% rassicura sulla tenuta di ciascuno dei 36 fondi operanti. La creazione di un fondo unico europeo avrebbe probabilmente permesso un ratio minimo più basso.

È opportuno evidenziare che in molti stati i fondi di tutela possono utilizzare le risorse a disposizione oltre che per rimborsare i depositanti, anche per prevenire il fallimento di una istituzione di credito (intervento preventivo) o per contribuire ad un’operazione di salvataggio (intervento alternativo), di concerto con le autorità monetarie nazionale e nel rispetto di precise condizioni (in particolare, quella del minor costo). Dei 93 interventi effettuati dai fondi di tutela italiani, solo 3 hanno assunto la forma di rimborso dei depositanti, 57 quella dell’intervento preventivo.

L’Eba (European Banking Authorithy) ha recentemente documentato a che punto è il processo di convergenza. A livello aggregato il target dello 0,8% risulta già raggiunto: a fine 2023  le risorse complessive dei fondi di garanzia (73 mld) erano pari allo 0,86% degli 8.500 mld di depositi bancari oggetto di protezione. La crescita di questo ratio ha molto beneficiato del rallentamento della crescita dei depositi registrata a livello continentale (+8,2% nel 2020, +5,4% nel 2021, +2,6% nel 2022, +1,7% nel 2023), cui si è contrapposto un incremento delle risorse dei fondi di tutela molto intenso (+14,9% nel 2023).

In mancanza di un unico fondo europeo, il target dello 0,8% deve essere rispettato da ciascuno dei fondi di tutela. Alla fine del 2023 dei 36 fondi di tutela operanti in Europa 21 risultavano aver raggiunto il target e altri 5 vi erano molto vicini. 

Il posizionamento attuale di ciascuno di questi fondi è, in misura non secondaria, spiegato dalla sua situazione all’avvio del processo: già nel 2015 i fondi di tutela di Belgio, Cipro, Repubblica Ceca, Polonia, etc. erano oltre il target dello 0,8%, quello dei Paesi Bassi vi era molto vicino. Viceversa, in altri paesi a quella data avevano una dotazione molto modesta (l’analogo ratio dei 3 fondi di tutela tedeschi era in media pari ad appena lo 0,28%).

In Italia i Fondi di tutela attualmente operanti sono due, quello cui aderiscono le banche di credito cooperativo e quello (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, FITD) partecipato dal resto degli operatori bancari. Alla fine dello scorso anno il rapporto tra fondi a disposizione e depositi da tutelare si posizionava in media allo 0,64% (leggermente più in alto quello delle banche di credito cooperativo).

Si tratta di concludere un percorso la cui intensità è ben descritta da due dati: tra il 2016 e il 2023 i depositi tutelati sono aumentati complessivamente del 27%; la dotazione dei 2 Fondi di tutela risulta invece moltiplicata quasi per 8 (circa 5 mld in più). Per raggiungere il target dello 0,8% gli available financial means devono ceteris paribus salire a 6,8 mld, circa 1,3 mld in più rispetto al dato rilevato a fine 2023.

I bilanci delle banche italiane ben documentano questa sforzo. Ai gruppi di dimensioni maggiore sono stati richiesti versamenti nell’ordine delle centinaia di milioni. Intesa, ad esempio, nel 2023-24 ha versato complessivamente circa 750 mln, che al netto dell’effetto fiscale ha determinato una riduzione del risultato finale del gruppo di circa 500 mln. Da parte sua, Unicredit nel biennio 2022-23 ha effettuato versamenti (ordinari e straordinari) al FITD per circa 600 mln. Come per il resto del sistema, per entrambi i gruppi questo sforzo si è combinato con la richiesta di contributi ugualmente cospicui per il Fondo di risoluzione (nel biennio 2022-23 UniCredit ha versato quasi 1,1 mld, Intesa 700 mln circa, importi lordi).

In conclusione, il processo di costituzione dell’Unione Bancaria Europea ha consentito una strutturale rifondazione del circuito bancario continentale che oggi appare decisamente più solido. Sono state predisposte procedure e istituti in grado sia di prevenire sia di gestire gravi situazioni di difficoltà, evitando processi di contagio al resto del sistema, impegnativi interventi della finanza pubblica, corse agli sportelli (bank run), queste ultime in un contesto digitale divenute particolarmente intense e rapide.

Alcune importanti parti del progetto di Unione Bancaria, tuttavia, non sono state realizzate (unico sistema di assicurazione dei depositi) o sembrano richiedere correzioni per migliorarne il funzionamento (procedura di risoluzione di istituti in dissesto). La spinta sovranista che da tempo si percepisce non sembra favorire la realizzazione di questi auspicabili passi in avanti.