INFLAZIONE / LA LEZIONE DI KURODA
La cura giapponese può funzionare in Occidente?
Paola Pilati

All’incubo della “giapponesizzazione” dell’Occidente, cioè del suo ingresso in un limbo con Pil anemico, tassi zero e inflazione piatta, oggi si aggiungono i primi dubbi sull’efficacia degli strumenti a disposizione delle banche centrali non solo a combattere un’altra crisi finanziaria, ma anche a portare il sistema sul cammino della crescita.

Ci si interroga infatti se gli strumenti della politica monetaria abbiano dato buona prova e se il bazooka imbracciato da Mario Draghi, che pure ci ha finora salvato la pelle, non possa trasformarsi in un’arma scarica. L’appello che si sente risuonare sempre più spesso è a un’azione fiscale dei governi, collettiva e coordinata, che affianchi la politica monetaria delle banche centrali, ormai insufficiente.

La lotta per portare l’inflazione al livello considerato soddisfacente (per la Bce sotto, ma vicino, al 2 per cento, come ha ricordato Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa, https://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2019/html/ecb.is190725~547f29c369.en.html) è uno dei fronti più cruciali, tanto che ci si chiede se non sia il caso di rivedere quel livello (https://mirror.fchub.it/i-vantaggi-di-un-obiettivo-di-inflazione-mobile-per-le-banche-centrali/), e negli Usa la questione è già sul tappeto.

Per capire il disperato corpo a corpo di una banca centrale con l’indice dei prezzi è interessante la testimonianza che ne ha reso recentemente Haruhiko Kuroda, governatore della Banca centrale del Giappone, portatore dell’esperienza di inflazione piatta ormai paradigmatica a livello planetario (https://www.boj.or.jp/en/announcements/press/koen_2019/ko190723a.htm/).

Verso la fine degli anni Novanta il Giappone entrò in deflazione, cioè in una fase di declino persistente dei prezzi, e vi restò per quindici anni. Per uscirne, la deflazione è stata curata con tassi zero e un uso massiccio di QE, il quantitative easing. I prezzi si sono risvegliati, è vero, ma la stabilità al valore target del 2 per cento non è mai stata raggiunta ed è ancora un’araba fenice: il tasso di inflazione resta oggi sotto l’1 per cento.

Una dimostrazione di impotenza che mette in discussione l’efficacia degli strumenti a disposizione dei banchieri centrali, e quindi anche il loro ruolo e la loro autonomia? Per scacciare questo destino Kuroda, in una lezione tenuta alla fine di luglio al Fondo monetario Internazionale, ha messo in campo argomenti che difficilmente si sentono usare tra economisti che muovono la moneta.

Le ipotesi del governatore giapponese è che ci siano fattori strutturali che impediscono all’inflazione di salire. La prima è che la lunga era della deflazione abbia condizionato l’atteggiamento mentale dei giapponesi, si sia talmente infiltrata nelle loro abitudini di vita, da abitare la loro visione del futuro, che quindi non prevede inflazione, visto che così è stato durante una fase che di fatto copre una generazione.

La seconda ipotesi è che vuoi i progressi della tecnologia, vuoi sempre l’esperienza della deflazione del passato, hanno condizionato il costo unitario del lavoro, comprimendolo. Nonostante il bassissimo tasso di disoccupazione, il livello degli stipendi quasi non si è mosso: anche qui la memoria della lunga deflazione vissuta ha portato a privilegiare la stabilità del posto rispetto alla conquista di aumenti in busta paga. Senza contare che le stesse imprese, di fronte a consumatori convinti del fatto che i prezzi non si muoveranno, ci pensano due volte ad alzarli per il timore di perdere quote di mercato.

Tuttavia la politica monetaria non è stata inutile, anzi. Il QE ha fatto la sua parte per cambiare la direzione di marcia ai prezzi, e per rilanciare l’economia. Ma si può fare di più? E che cosa?

Kuroda ha spiegato che la prima sfida è quella di comunicare con il pubblico in modo da influenzare le aspettative collettive. Un corollario importante, questo, della “forward guidance” delle banche centrali, da mettere in campo proprio in una situazione di bassa inflazione. Dunque messaggi pubblici chiari e destinati a una platea più ampia possibile e non solo agli addetti ai lavori.

Cosa accade infatti? Il modello economico prevede che il messaggio che una banca centrale dà con l’annuncio di mantenere bassi i tassi per lungo tempo debba condizionare il comportamento di imprese e famiglie. Eppure nella realtà questo non avviene. L’orizzonte di lungo termine, anzi, rende meno autorevole la forward guidance, quasi che la banca centrale diventi meno credibile in un tempo lungo, e che le sue parole abbiano meno presa.

Cosa fare quindi per reagire a questa scarsa attenzione ai messaggi lanciati dalla banca centrale?

Il governatore della banca giapponese ha spiegato che il messaggio che la banca centrale dà al pubblico sulle sue intenzioni va rafforzato in altro modo. Nel 2016 la Bank of Japan ha infatto preso pubblicamente l’impegno di usare tutte le munizioni per muovere l’inflazione, cioè l’impegno a espandere la base monetaria finché il target del 2 per cento non sia raggiunto stabilmente (cosa che ha fatto anche Draghi). Poi ha preso un secondo impegno pubblico, nel luglio 2018, che ha riguardato la promessa del mantenimento dei tassi a livelli molto bassi sia a breve che a lungo termine almeno fino alla primavera del 2020.

Per sostenere con credibilità questo cammino, la banca centrale ha infine deciso di tenere sotto controllo la curva dei tassi attraverso una politica di acquisto dei titoli di stato a dieci anni, i JGB. Obbiettivo, tenere il tasso di questi titoli intorno allo zero per cento.

Per riuscirci, la banca centrale ha fatto leva sulla quantità di titoli in suo possesso, una fetta del 40 per cento del mercato come stock, oltre a una quota come turn over. Ma anche su un nuovo specifico e potente strumento: le operazioni di acquisto a tasso fisso, in cui appunto sono stati fatti acquisti di quantità illimitate di JGB a un certo tasso di interesse. Questo, ha spiegato Kuroda, ha rafforzato la fiducia del mercato sulla capacità della banca centrale di controllare i tassi.

Ma come fare tutto questo e garantire anche il corretto funzionamento del mercato? Come evitare che il mercato approfitti del nuovo strumento, interpretandolo come una put option e quindi ingessando gli scambi, come in effetti è accaduto dall’inizio del 2018?

A luglio di quell’anno la banca centrale è stata costretta a compiere un’altra mossa per aggiustare il tiro. Quella di chiarire che i tassi di interesse a lungo termine potevano muoversi in basso e in alto a seconda dell’andamento economico e dei prezzi, e che gli acquisti di JGB sarebbero avvenuti in maniera più flessibile e opportunistica.

Resta sul piatto il fatto che tassi bassissimi a lungo e lunghissimo termine sono una preoccupazione forte soprattutto per il rendimento dei fondi pensione e dei piani assicurativi. E qui torna in ballo il sentimento della gente, la percezione di un futuro incerto, e l’ansietà che detta comportamenti conservativi e non certo di spesa o di indebitamento. Ma è l’effetto dei tassi zero sul rendimento delle attività finanziarie a preoccupare la banca centrale: in questo clima, l’attività del credito si restringe, lavorando in direzione opposta a quella intrapresa con il monetary easing. Il sistema finanziario insomma finisce per boicottare gli sforzi della banca centrale. Che infatti non è ancora riuscita nel suo intento.

Alla fine di questa ricostruzione, resta l’impressione che se l’inflazione non si risveglia, se resta ostinatamente sotto il livello obiettivo del 2 per cento, la colpa è dell’atteggiamento psicologico delle persone. E non c’è azione di politica monetaria che possa cambiare le cose. È questo in essenza il messaggio che il governatore della Banca centrale del Giappone, Haruhiko Kuroda, lancia ai suoi pari in Occidente. E ai governi, che possono fare la loro parte per restaurare la fiducia nel futuro.