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La Comunicazione Consob sulla distribuzione di prodotti complessi: prove tecniche di product governance (?)

Nel corso degli ultimi anni è aumentata in Europa la commercializzazione di prodotti finanziari caratterizzati da profili di complessità che non sempre consentono agli investitori retail la piena comprensione dei relativi rischi e costi. Al fine di mitigare il rischio di asimmetrie informative, la distribuzione di tali prodotti “complessi” è stata recentemente oggetto di particolare attenzione da parte delle autorità di vigilanza a livello comunitario e nazionale. Anche la Consob si è espressa in materia con una comunicazione, ribadendo l’importanza della due diligence effettuata dall’intermediario su tutti i prodotti complessi che intende offrire alla clientela retail, sia nei processi di design e sviluppo, che di successiva commercializzazione degli stessi. A tal proposito, ci si chiede se il carattere di “mera” raccomandazione della Comunicazione escluda soltanto nella forma la violazione del divieto di gold plating e se tale intervento sia in realtà riconducibile ad una misura in senso lato di product intervention, manifestazione quindi dell’ approccio paternalistico che rinnega la libertà di scelta degli investitori retail.

Marco Tofanelli
Tofanelli

Con la Comunicazione sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi, la Consob parte dal c.d. processo di retailisation dei prodotti complessi e dalla constatazione, da un lato che gli obblighi di trasparenza hanno limitati effetti nel colmare le asimmetrie informative e, dall’altro, che le regole di correttezza applicate alla sola fase di distribuzione sono talvolta risultate non sufficienti a prevenire effetti dannosi.

Detta, quindi, le sue raccomandazioni in materia, prendendo le mosse dalle due opinion dell’Esma del 7 febbraio e del 27 marzo, volte (molto velocemente) la prima a che le Autorità monitorino che gli intermediari si siano dotati di controlli interni adeguati a evitare che l’investimento vada a detrimento della clientela, e la seconda a fornire good practices di product governance, al fine di rafforzare la protezione degli investitori.

Ora, il carattere di “mera” raccomandazione esclude soltanto nella forma la violazione del divieto di gold plating? L’intervento dell’Autorità domestica è in realtà riconducibile ad una misura in senso lato di product intervention, manifestazione quindi del (peggior) approccio paternalistico? quello che finisce col rinnegare la libertà di scelta degli investitori retail?

Certamente, l’avvento della MiFID ha segnato il superamento della strategia normativa di pura trasparenza, favorendo l’ingresso di forme di protezione più incisive per l’investitore rispetto al mero obbligo di informazione; il “passaggio” è derivato, in buona sostanza, da uno “sbilanciamento”, comunitario e nazionale – anche a seguito della crisi vissuta dalla teoria economica neoclassica, messa in discussione dall’avanzare dei nuovi concetti della finanza comportamentale- verso approcci, come accennato, di tipo paternalistico, che vorrebbero contenere le conseguenze degli errori comportamentali indirizzando le scelte degli investitori nella direzione ritenuta corretta, attraverso incentivi verso le opzioni disponibili e giungendo, nel caso più estremo, al divieto o alla limitazione nell’investimento dei prodotti più rischiosi.

In letteratura economica, l’espressione paternalismo evoca una situazione nella quale un intervento che limita la libertà di una persona è (nelle intenzioni) attuato nell’interesse della persona stessa. Come rileva Luca Beltrametti, nel caso del paternalismo “autoritario”, e richiamando termini e concetti tipici dell’analisi economica normativa, un’autorità impone ad un altro soggetto modalità di utilizzo di risorse di proprietà del soggetto medesimo in nome del (reale o presunto) benessere di questo, attraverso limitazioni normative alle opzioni disponibili sul mercato. Si tratta di una situazione nella quale si crea una gerarchia tra preferenze, ritenendo che alcune decisioni di taluni soggetti siano “necessariamente imperfette”, sicuramente meno perfette di quelle prese da altri e che ai primi (l’investitore) manchi la consapevolezza di tale imperfezione. V’è chiaramente una contrapposizione (più o meno latente) tra comportamento paternalistico e rispetto dell’interlocutore. E, volendo richiamare Francesco Denozza (che scriveva sia pure con riferimento ad altro contesto), “poiché legislatori, giudici e funzionari amministrativi, non sono enti astratti, ma uomini con proprie preferenze, non c’è nessuna ragione di presumere che essi assumeranno, neppure tendenzialmente, decisioni efficienti, sagge e, soprattutto, allineate con le preferenze di coloro che rappresentano, anziché con le loro preferenze personali”

La desiderabilità di un approccio paternalistico, quale quello autoritario, che addirittura non alloca risorse ma diminuisce imperativamente opzioni disponibili, è quindi lungi dall’essere reclamata da chicchessia (sempre nell’ambito del paternalismo vi sono –si vedano Thaler e Sunstein- modelli di protezione riconducibili al nudging, scelte di regolazione definite appunto pungoli (nudge), “spinte gentili” nella direzione che promuova il benessere delle persone rendendole effettivamente libere di scegliere).

In realtà, l’opzione di regolazione, comunitaria e, anticipo, domestica, mi sembra chiaramente orientata verso forme graduali di intervento; si sviluppano metodologie che consentano al risparmiatore di scegliere tra le alternative di investimento, potendo ben considerare i loro possibili esiti in termini di rischi, rendimenti, durata; contestualmente, si sviluppano metodologie che consentano (o meglio impongano) all’intermediario di conoscere i clienti, valutandone propensione ed attitudine al rischio, attraverso informazioni acquisite mediante tecniche di valutazione indirette; per ciò, la necessità di garantire adeguati presidi ai conflitti di interesse e una rigorosa informativa coerente con i criteri e i modelli impiegati dagli operatori a “fini interni”, laddove il riferimento sia a prodotti ad elevata complessità.

Come anticipato da Vittorio Conti nell’agosto 2012 (all’epoca Commissario Consob), “sulla verifica di queste condizioni si misurerà anche la capacità delle Autorità di attivare iniziative di vigilanza ed azioni di enforcement funzionali al rafforzamento delle tutele attraverso il monitoraggio del comportamento degli operatori. Infatti, se intermediari e distributori non dovessero muoversi in coerenza con le linee appena indicate, la sola strada praticabile per le Autorità diverrebbe quella prefigurata nella normativa così detta di “product intervention”, orientata a proibire la distribuzione agli investitori retail di prodotti particolarmente innovativi o complessi”; potrebbe essere difficile collocare tale scelta di regolamentazione “tra gli strumenti di tutela degli investitori retail, data la riduzione delle alternative di investimento che essa comporterebbe e le inevitabili maggiori difficoltà di strutturazione di azioni volte a diversificare ed immunizzare i rischi di portafoglio”.

A tale logica consapevole sono dunque riconducibili le recenti disposizioni in materia di product intervention recate dal MiFIR che conferiscono alle autorità nazionali competenti e, in via sussidiaria all’ESMA e all’EBA (quest’ultima limitatamente ai depositi strutturati), il potere di intervenire vietando temporaneamente o limitando la commercializzazione, la distribuzione o vendita di determinati strumenti finanziari (o depositi strutturati) ovvero di strumenti finanziari (o depositi strutturati) con caratteristiche specifiche ovvero ancora un tipo di attività o pratica finanziaria, pregiudizievoli per la tutela degli investitori, per l’ordinato funzionamento e l’integrità dei mercati, per la stabilità dell’intero sistema finanziario o di una sua parte. Si tratta di misure aventi carattere preventivo e generalizzato, finalizzate, in un’ottica di maggior tutela per i risparmiatori, a bloccare la diffusione di titoli potenzialmente “tossici” per i risparmiatori medesimi prima ancora della loro immissione sul mercato.

Non è questa la situazione nella quale si colloca la Comunicazione della Consob; mi sembra, anzi, che l’intervento sia volto invece proprio a porre le condizioni per prevenire il ricorso a questi percorsi estremi: è lasfida che il contesto normativo complessivo pone alle Autorità nella duplice veste di regolatori e (ancor prima, ancor più) di supervisori attenti a verificare la compliance degli assetti organizzati, delle regole di condotta e dei sistemi di governance degli intermediari allo spirito delle normative europee.

Sempre al fine di evitare il ricorso a sistemi “bismarckiani” deve apprezzarsi lo sforzo del legislatore comunitario di ridurre il rischio che i prodotti finanziari emessi e/o collocati non siano adeguati al cliente finale attraverso l’introduzione dei meccanismi c.d. di product governance, atti a garantire, in un’ottica ex ante, la coerenza tra prodotti emessi e/o collocati e determinati target di clientela.

In tale ottica va considerato lo strumento della Raccomandazione adottato dalla Consob e il richiamo propedeutico alle opinion dell’Esma. In tale contesto vanno misurati i contenuti e i termini adottati che, sia pure con qualche indulgenza all’autoritarismo (“qualora l’intermediario…disattenda la predetta raccomandazione”), mostra rispetto (anche laddove disincentiva) per la vera tutela degli investitori, considerando i prodotti di cui alla c.d black list “normalmente” non adatti alla clientela al dettaglio, lasciando ampi margini all’autonomia degli intermediari e all’ulteriore confronto con gli stessi.

La Consob, lungi dall’aver abdicato alla propria capacità di supervisione, con la Raccomandazione mostra di aver voluto porre in essere, in buona sostanza, prove tecniche di product governance, non certo di product intervention.