approfondimenti/politica economica
TASSI&INFLAZIONE
La BCE al bivio tra normalizzazione e stretta monetaria

Dopo dieci anni di mancato raggiungimento degli obiettivi sull'inflazione, alla Bce conviene adesso seguire la FED sulla strada dei forti aumenti dei tassi nelle prossime due sedute?  La risposta è no, sostiene l'autore. Anzi, rischierebbe di condurci da un forte rallentamento dell’attività economica alla recessione conclamata. E richiederebbe una rapida marcia indietro da parte della stessa BCE. Peggiorando ulteriormente la percezione sulla sua capacità di anticipare correttamente le dinamiche economiche

Giorgio Di Giorgio
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L’8 settembre, la Banca Centrale Europea ha deciso di seguire l’esempio della Federal Reserve e aumentare in modo aggressivo i tassi di policy nell’Eurozona.  Il tasso sui depositi presso la BCE è stato riportato in territorio positivo (allo 0.75%), il tasso di rifinanziamento sulle operazioni di mercato aperto all’1,25% e il tasso di rifinanziamento marginale all’1,5%.  Si tratta degli incrementi di tassi di interesse di maggior intensità mai adottati dalla costituzione della BCE ad oggi. 

Le decisioni sono state giustificate: a) dalla recente dinamica inflazionistica, seppure la stessa possa considerarsi ancora, per larga parte, “esogena” nell’area dell’Euro ed imputabile al caro energia e alla impennata dei prezzi di materie prime e beni alimentari, e b) dalla necessità di segnalare la determinazione ad agire senza tentennamenti per garantire un ritorno graduale all’obiettivo della stabilità dei prezzi, definito come un tasso di inflazione misurato sull’indice armonizzato dei prezzi al consumo nell’eurozona pari al 2%.

Se dovessimo valutare l’operato della nostra banca centrale dai risultati raggiunti, purtroppo, il giudizio non potrebbe essere positivo, nell’ultimo decennio. L’obiettivo di una inflazione “inferiore ma vicina al 2%” non è stato infatti raggiunto dal 2013 al 2021, anni caratterizzati da tassi di inflazione ridotti e (addirittura) da concreti rischi deflazionistici; dopo la “revisione della strategia di politica monetaria”, adottata nell’estate del 2021, il nuovo obiettivo “del 2%”, appare decisamente fuori portata sia quest’anno che, con elevata probabilità, nel 2023. 

Non ci sono dubbi che gli anni successivi alla grande crisi finanziaria internazionale e alla crisi dei debiti sovrani siano stati caratterizzati da notevoli difficoltà e da profondi mutamenti nell’ambiente economico, sociale e finanziario, guidati dall’innovazione tecnologica, dalle sfide connesse al dibattuto e complesso evolversi dei percorsi di integrazione e globalizzazione delle diverse aree e al riemergere di forti tensioni geopolitiche. Così come l’impatto della pandemia e delle “chiusure”, sia fisiche che psicologiche, non sia successivamente stato banale da comprendere e internalizzare nelle previsioni.

Tuttavia, data la metrica scelta autonomamente dal Consiglio Direttivo della BCE per guidare le proprie decisioni, e nonostante il generale apprezzamento sulle competenze e le qualità di molti autorevoli esponenti dello stesso, il dubbio che un qualche danno reputazionale possa discendere da dieci anni di mancato raggiungimento degli obiettivi rimane. La conseguenza sarebbe un allentamento della capacità da parte della BCE di orientare le aspettative degli operatori economici, con l’effetto di disancorarle dai propri obiettivi rendendone il raggiungimento più arduo. 

Date queste premesse, è lecito riflettere sulla necessità di calibrare in modo opportuno le prossime decisioni di politica monetaria, attese per fine ottobre e metà dicembre, in un contesto di generale deterioramento dell’attività economica e di perdurante incertezza politica dovuta principalmente all’evoluzione del conflitto tra Russia e Ucraina e alla crisi energetica. 

Se la “normalizzazione” della politica monetaria appare ragionevole, questo non implica affatto che lo sia passare ad una politica restrittiva, come probabilmente avverrebbe qualora il Consiglio Direttivo decidesse di continuare a seguire la FED e di proseguire con analoghi “forti” aumenti dei tassi nelle prossime due sedute. 

Una simile decisione sarebbe inopportuna, dato il minor peso nella dinamica inflazionistica europea (rispetto a quella USA) di una componente da “domanda”, e il rapido deterioramento dell’attività, che fa delineare un concreto rischio di recessione nei prossimi mesi.  Diventerebbe anche contrastante con le ripetute rassicurazioni fornite dalla BCE in merito a mantenere la liquidità “ampia” grazie al reinvestimento (fino alla fine del 2024) dei rimborsi ottenuti dagli acquisti di titoli condotti attraverso il programma di emergenza pandemico (PEPP). Reinvestimento “svincolato” dall’applicazione della cosiddetta capital key rule, come lo erano anche gli acquisti originari, e che quindi consente alla BCE una prima linea di difesa flessibile contro eventuali attacchi speculativi su uno o più paesi dell’Eurozona. Questa prima linea di difesa sarebbe tuttavia facilmente superabile in un contesto caratterizzato da due ulteriori forti aumenti dei tassi di interesse (tali da portare al 3% entro dicembre il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale). 

Per contrastare la speculazione, la BCE potrebbe utilizzare la nuova “arma” dello strumento di protezione della trasmissione della politica monetaria (TPI). Tale strumento consente di regolare la liquidità nel sistema finanziario europeo attraverso acquisti (o vendite) discrezionali di titoli sul mercato secondario (operazioni di mercato aperto) senza vincolarsi ex ante a farlo solo in modo temporaneo (attraverso quelle operazioni che in gergo si chiamano repos o reverse repos). 

Grazie al TPI, ribattezzato “scudo anti spread”, la BCE ha libertà di acquistare, in teoria senza limiti ma impegnandosi a non modificare la base monetaria complessiva nell’Eurozona, titoli, prevalentemente governativi, di maturità compresa tra uno e dieci anni. La giustificazione di tali interventi sarebbe da rinvenire nella constatazione di movimenti di prezzo sui mercati obbligazionari ritenuti essenzialmente riconducibili all’attività di agenti “speculatori”, in quanto non motivati da situazioni macroeconomiche in forte squilibrio per un paese membro, dall’adozione da parte dello stesso di politiche non coerenti con il quadro e le raccomandazioni della UE, da una sua mancata compliance al fiscal framework o da una palese insostenibilità del debito pubblico. 

La BCE si è quindi dotata di maggiore discrezionalità per proteggere l’ordinato meccanismo di trasmissione alla finanza e all’economia reale delle sue decisioni di politica monetaria, con l’auspicio di tornare finalmente a raggiungere il proprio obiettivo di stabilità dei prezzi. Con un approccio meno rigido e vincolante rispetto a quello collegato alle Outright Monetary Transactions (OMT), annunciate nel 2012. Queste ultime consentono acquisti illimitati sul mercato secondario di titoli governativi di un paese dell’Eurozona fiscalmente fragile a patto che tali acquisti siano interamente “sterilizzati” (come è anche previsto nel caso del TPI) in termini di base monetaria complessiva ma anche, e soprattutto, “condizionati” alla sostanziale rinuncia da parte del paese stesso alla propria sovranità fiscale.

Le OMT non sono mai state utilizzate, si tratta di un tipico esempio in cui l’annuncio di una “politica” è sufficiente a generare i risultati voluti, senza neanche il bisogno di implementarla. È evidente come, nell’affiancare a tale strumento rigido e “dormiente” un TPI non regolato ex ante da alcuna condizione, di natura totalmente discrezionale, che addirittura non esclude neanche la possibilità per la BCE di orientare gli acquisiti a titoli non governativi (in caso di necessità), la nostra banca centrale abbia deciso di passare ad un approccio molto pragmatico.  

Lo stesso pragmatismo richiede oggi di considerare con attenzione i dati sugli indicatori dell’inflazione futura (più che la sua recente dinamica passata) per evitare che aumenti eccessivi nei tassi di interesse abbiano un effetto traumatico su una economia già in sofferenza e riportino la BCE a fine 2023 a dover preoccuparsi di nuovo di rischi deflattivi. Un troppo rapido aumento dell’intera struttura dei tassi di interesse impatterebbe infatti diffusamente, oltre che sulle finanze pubbliche, su famiglie e imprese indebitate e verrebbe a coincidere temporalmente con il recente venir meno di molti dei programmi di moratoria e estensione di garanzie predisposti durante la pandemia. Il passo che conduce da un forte rallentamento dell’attività economica alla recessione conclamata è breve, richiederebbe una rapida marcia indietro da parte della BCE e peggiorerebbe ulteriormente la percezione sulla sua capacità di anticipare correttamente le dinamiche economiche. 

Una più graduale politica di aumenti di entità limitata nei tassi consentirebbe invece un fine tuning più adeguato rispetto al quadro macroeconomico attuale e di “fermarsi in tempo”, prima che la “normalizzazione” si trasformi in una inopportuna e pericolosa “restrizione” monetaria.