La legge Treu del 1997 e quella Biagi del 2003 costituiscono i due passaggi più significativi della prima stagione di riforme del mercato del lavoro italiano, dopo lo Statuto dei lavoratori del 1970. Ne è emerso un mercato del lavoro “duale”, nel quale si rispondeva alla domanda di flessibilità delle imprese introducendola al margine: non venivano intaccati i diritti dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato (gli insiders-tipicamente identificati coi “vecchi”) e si scaricava la flessibilità sugli entranti (gli outsiders-i “giovani”). È la stagione dei “co-co-co” e delle altre forme contrattuali atipiche.
Questo approccio era probabilmente l’unico politicamente praticabile, data la più forte rappresentanza politica dei “vecchi”. Ha però portato ad una sperequazione crescente fra insider e outsider, con una montante insoddisfazione riguardo all’iniquità dei trattamenti delle diverse coorti di lavoratori. Il JOBS ACT ha rappresentato un tentativo di superare questo assetto. Lo “scambio” implicito offerto a imprese e lavoratori era un’attenuazione della rigidità dei contratti a tempo indeterminato, attraverso l’abolizione dell’articolo 18 e l’introduzione del contratto a tutele crescenti, in cambio di un sistema di politiche passive e attive più universalistiche rispetto al sistema precedente.
Nel dibattito che ha seguito la sua promulgazione, il JOBS ACT è stato giudicato dalla sua capacità o meno di creare lavoro. Questo dibattito si è incentrato sulla domanda sbagliata. L’obiettivo era di costruire un sistema adeguato a un mondo del lavoro con carriere lavorative inevitabilmente meno stabili che in passato e più bisognose di un continuo aggiornamento delle competenze. Ed è sul raggiungimento di questo obiettivo che i contributi di questo numero si focalizzano.
La riforma incompiuta
Non tutto è andato come pianificato. A fronte di un riordino complessivo delle forme contrattuali (contratto a tutele crescenti) e di una estensione notevole delle politiche passive (assicurazione contro la disoccupazione), già riviste dalla legge Fornero, la riforma delle politiche attive e della contrattazione è rimasta incompiuta. Il disegno del sistema di politiche attive pensate dai promulgatori del JOBS ACT presupponeva anche la revisione dei rapporti Stato-Regioni prevista dalla riforma costituzionale. Questa parte del progetto è quindi stata messa in crisi dalla sconfitta referendaria. Anche il sistema di contrattazione rimane un cantiere aperto, con la contrattazione integrativa mai veramente decollata nel sistema italiano di relazioni industriali. A questi aspetti incompiuti si sono aggiunti di recente il “decreto dignità” e soprattutto la sentenza della Corte Costituzionale.
La Consulta ha infatti bocciato un pilastro fondamentale del Contratto a tutele crescenti, cioè la certezza sull’entità dell’indennizzo per i licenziamenti illegittimi. Questi passaggi hanno scosso alle fondamenta la visione di mercato del lavoro sottostante il JOBS ACT. Allo stesso tempo, non è emersa una visione alternativa organica. I contributi contenuti in questo numero di “Economia Italiana” rappresentano il punto di vista di alcuni dei maggiori esperti del mercato del lavoro italiano e di protagonisti di primo piano del dibattito sul mercato del lavoro sfociato nel JOBS ACT.
Gli obiettivi
Sestito e Viviano offrono una valutazione complessiva degli effetti del JOBS ACT rispetto all’obiettivo dichiarato di ridurre il grado di dualità del mercato del lavoro. Documentano un effetto positivo, quantunque modesto, del contratto a tutele crescenti sulla creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato. Sestito e Viviano lo considerano un risultato notevole: esperienze simili di altri paesi avevano portato nel breve periodo ad un saldo negativo in termini di creazione netta di lavoro.
Il JOBS ACT ha anche completato la riforma delle politiche passive del lavoro, iniziate dalla legge Fornero. Il sistema italiano di sussidi ai disoccupati presentava, prima di queste riforme, un alto grado di eterogeneità delle coperture, con vaste platee di lavoratori praticamente esclusi da qualunque tutela. Inoltre, schemi come la cassa integrazione tendevano a mantenere i lavoratori “appesi” a posti di lavoro in molti casi non più economicamente sostenibili. Infine, il sistema si preoccupava molto poco di non dare adito a “moral hazard”, cioè di ridurre l’incentivo per un disoccupato assistito da uno schema di aiuto economico a cercare un’occupazione. Il JOBS ACT ha affrontato tutti questi problemi.
Dal sussidio al posto di lavoro al sussidio al disoccupato
La platea dei beneficiari, come anche ricordato da Leonardi e Nannicini nel loro saggio in questo volume, è stata fortemente estesa e il sussidio al posto di lavoro della cassa integrazione si è trasformato in un sussidio al disoccupato. La valutazione di Sestito e Viviano è duplice. Da un punto di vista della copertura, la NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego ovvero la nuova indennità mensile di disoccupazione per lavoratori licenziati dal 1° Maggio 2015) ha contribuito ad allargare la platea degli aventi diritto, anche se in misura contenuta rispetto all’ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego) introdotta dalla legge Fornero, che si era già mossa con decisione in questa direzione.
I risultati sono invece deludenti dal punto di vista del moral hazard, un aspetto dolente del nostro sistema di sussidio alla disoccupazione rispetto a quello degli altri paesi avanzati. È questo un monito importante per il disegno di misure di inclusione economica su cui verte attualmente il dibattito politico.
Più contratti a tempo indeterminato
Boeri e Garibaldi si concentrano sull’effetto del contratto a tutele crescenti. Utilizzano tecniche di stima “diff-in-diff”, gli autori valutano se la sua introduzione e la riduzione dell’incertezza dei costi associati a licenziamenti illegittimi abbia dato i risultati attesi: un aumento della mobilità nelle imprese con più di 15 addetti, a cui si applicava la legislazione restrittiva dell’articolo 18, e un maggior utilizzo di contatti a tempo indeterminato. Coerentemente con i risultati di Sestito e Viviano, Boeri e Garibaldi concludono che la riforma ha raggiunto questi obiettivi.
La bocciatura costituzionale
Su un punto tutti i contributi concordano: siamo ancora molto indietro rispetto agli altri paesi sviluppati in termini di politiche attive per il lavoro. La bocciatura del referendum costituzionale ha abbattuto l’architrave su cui si poggiava questa parte del progetto, cioè un accentramento di queste politiche rispetto all’assetto attuale, che ne attribuisce la maggior responsabilità alle regioni.
Anastasia e Santoro analizzano questi temi. A differenza di altri aspetti della riforma, le politiche attive hanno una preponderanza dell’aspetto implementativo rispetto a quello puramente legislativo. Un sistema di ri-accompagnamento di un disoccupato verso l’occupazione, possibilmente dopo avergli fornito nuove competenze, è una sfida decisamente più complicata della semplice erogazione di un sussidio monetario. Per dirla con gli autori, “richiede chiarezza di mission e di governance, investimenti, tempo, accumulazione di reputazione, governo realistico delle aspettative degli utenti.” Tutti elementi che, allo stato attuale, sono ancora in gran parte mancanti.
Il sistema della contrattazione si è dimostrato inadeguato
Il sistema italiano di relazioni industriali è stato caratterizzato storicamente da una bassa penetrazione di contratti aziendali, lasciando poco spazio alla possibilità di accomodare shock idiosincratici d’impresa. Questa è stata indicata come una debolezza, in quanto ostacola un’efficiente allocazione dei fattori produttivi. Ne è seguita un’erosione lenta ma costante della rappresentatività dei contratti collettivi nazionali, come documentano Lucifora e Natticchioni nel loro contributo.
Oltre al caso di alcune grandi imprese che hanno lasciato Confindustria, gli anni recenti hanno assistito ad una crescita sostenuta dei “contratti pirata”, firmati da associazioni di imprenditori e sindacali di dubbia rappresentanza, con l’obiettivo di ridurre le tutele per i lavoratori. Oltre alla riduzione del numero di imprese coperte dai principali contratti collettivi, si è assistito ad una riduzione dell’effettiva applicazione delle condizioni stabilite dai contratti anche da parte di quelle imprese che li hanno adottati, particolarmente in termini di minimo salariale.
L’inadeguatezza del nostro sistema di contrattazione è suggerita inoltre dai confronti internazionali, che indicano che i sistemi a due fasi come il nostro (collettiva e d’impresa) abbiano prodotto risposte alla crisi meno soddisfacenti in termini di disoccupazione rispetto ai sistemi maggiormente centralizzati, senza garantire i guadagni di produttività dei sistemi completamente decentralizzati: meglio una delle due sponde del fiume che rimanere in mezzo al guado. Infine, un sistema centralizzato caratterizzato da forti disparità di produttività e popolazione poco mobile porta al paradossale risultato di salari reali più alti nelle aree meno produttive e, di conseguenza, a tassi di occupazione inferiori: una descrizione che ben calza le differenze del mercato del lavoro Nord-Sud.
Simbolo di una stagione politica
Leonardi e Nannicini, fra i principali protagonisti dell’elaborazione del JOBS ACT, illustrano le motivazioni sottostanti la riforma, offrono una valutazione di cosa ha funzionato e cosa no, di cosa rimane ancora da fare, valutano i recenti sviluppi legislativi alla luce della filosofia generale del JOBS ACT. Un rimpianto emerge chiaramente: non aver saputo costruire un consenso diffuso attorno al progetto, che, diventato uno dei simboli principali di una stagione politica, rischia di essere travolto dal tramonto di quest’ultima.
Pur con limiti e incompiutezze, il JOBS ACT rappresenta un esempio raro di traduzione in un corpus legislativo e regolamentare di una visione del mercato del lavoro emersa da due decenni di un acceso dibattito teorico ed empirico. Si può non condividere questa visione, ma è impossibile negare l’iniquità del mercato del lavoro duale ereditato dalle precedenti riforme, a cui il JOBS ACT risponde. Le riflessioni e i risultati dei lavori di questo numero di “Economia Italiana” sono quindi particolarmente attuali, data la fase di ripensamento dell’intero progetto di riforma del mercato del lavoro italiano. L’auspicio è che il dibattito si svolga sulla base di evidenze teoriche ed empiriche solide, e non solo di principi ideologici.
* Luiss e EIEF