Nonostante gli interventi del legislatore, resta accesa la querelle tra giurisprudenza e dottrina alla ricerca di una logica del diritto dei mercati finanziari. Ma l’esercizio potrebbe risultare inutile e dannoso. Proprio come sostiene Irti
La recente sentenza della Corte di Cassazione, 3 aprile 2014, n. 7776 ha formato oggetto delle osservazioni critiche di Paolo Luccarelli e di Marco Tofanelli, i quali hanno evidenziato la “confusione” e la “incertezza” che la pronuncia in esame è destinata a creare, nei rapporti fra intermediari e investitori, nonché i “costi” per gli intermediari.
In realtà, la sentenza della n. 7776/2014 non è, di per sé, per nulla innovativa e “sorprendente”, limitandosi a ribadire – pur se con qualche importante puntualizzazione – quanto già affermato dalle Sezioni Unite, nella sentenza 3 giugno 2013, n. 13905, con la quale è stato composto il contrasto, sorto nella giurisprudenza di merito e di legittimità, in merito all’ambito di applicazione del diritto di recesso (“ius poenitendi”) nell’offerta fuori sede, di cui all’art. 30, commi 6 e 7 Tuf, con particolare riferimento alla fattispecie di acquisto di strumenti finanziari, nel contesto della prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio (art. 1, co. 5, lett. a, Tuf).
La situazione di incertezza, dunque, era venuta meno, a seguito del pronunciamento, a Sezioni Unite, dell’ “organo supremo di giustizia”, che assicura, tra l’altro, “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” e “l’unità del diritto oggettivo nazionale” (artt. 65 l. ord. giud. e 374 c.p.c.).
Come ovvio, la decisione delle Sezioni Unite – a lungo attesa, per la complessità e la delicatezza della questione di diritto che aveva dato origine al contrasto giurisprudenziale – ha suscitato consensi e dissensi, fra gli interpreti e gli operatori del mercato, anche per le intuibili ripercussioni delle statuizioni in essa contenute, rispetto al copioso contenzioso pendente dinanzi ai giudici di merito e a quello che potrebbe profilarsi in futuro, soprattutto in relazione a contratti già conclusi.
Particolare (e comprensibile) allarme è sorto fra gli intermediari finanziari, i quali avevano finora tendenzialmente dato per scontata – in conformità con l’orientamento maggioritario, ma, certo, non univoco, in dottrina e in giurisprudenza – l’insussistenza del diritto di ripensamento, al di fuori dei (contratti conclusi nell’ambito dei) servizi di collocamento e di gestione di portafogli di investimento, confidando su un’interpretazione letterale e restrittiva del dettato normativo. Nella prassi, dunque, era tutt’altro che infrequente l’assenza, nei documenti contrattuali, dell’avvertimento circa la sussistenza del ius poenitendi, prescritto dall’art. 30, co. 7, Tuf, a pena di nullità, deducibile o eccepibile soltanto dal cliente.
In questo contesto (si ripete: di certezza del diritto applicabile), il Governo ha ritenuto opportuno intervenire in via d’urgenza, proponendo, in sede di conversione in legge del c.d. “Decreto del Fare” (d.l. 21 giugno 2013 n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98), un emendamento, contenuto nell’art. 56-quater, ai sensi del quale “all’articolo 30, comma 6, del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, dopo il secondo periodo è inserito il seguente: “Ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1° settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettera a)”.
A ben vedere, è proprio l’intervento del Governo a (dover) destare “sorpresa” (e seri dubbi di legittimità) e a riportare il diritto in una situazione di “confusione e incertezza”.
In questo contesto deve essere collocata la sentenza di Cass., n. 7776/2014, che affronta nuovamente il problema dell’ambito di applicazione del ius poenitendi, anche alla luce della disposizione normativa sopra riportata.
La prima parte della motivazione ricostruisce con chiarezza esemplare gli argomenti che hanno indotto il Giudice di legittimità ad avallare l’interpretazione estensiva dell’art. 30, co. 6, Tuf, statuendo che il ius poenitendi debba trovare applicazione in qualsiasi ipotesi di “vendita di strumenti finanziari”, conclusa nell’ambito di uno dei servizi di investimento, di cui all’art. 1, co. 5, Tuf e, dunque, anche – come nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte – nel caso di contratti conclusi in occasione della prestazione del servizio di negoziazione.
A supporto di questa conclusione, la Corte adduce, fondamentalmente, l’argomento incentrato sullo scopo della norma, consistente nell’evitare che il cliente non professionale, “sorpreso” al di fuori di un contesto istituzionalmente preposto alla conclusione di operazioni di investimento, “possa trovarsi vincolato da contratti sui quali non abbia potuto adeguatamente riflettere”. Rispetto a questa esigenza di tutela, nessuna rilevanza può assumere la tipologia di servizio, nel cui contesto il cliente si trova a destinare il risparmio a finalità di investimento.
L’opzione per un’interpretazione incentrata sulla considerazione dello scopo della norma, piuttosto che sul mero tenore letterale delle disposizioni di legge, si rivela preferibile, d’altronde, proprio in ragione dell’ambiguità del dettato normativo, già riscontrata dalle Sezioni Unite. In effetti, l’interpretazione restrittiva finisce per rendere, di fatto, inapplicabile la disciplina di tutela dell’investitore, per la semplice, ma decisiva, ragione che il “contratto di collocamento”, in senso “tecnico”, è stipulato fra intermediario ed emittente (ovvero: offerente) gli strumenti finanziari e, dunque, di norma fra soggetti professionali, ai quali la disciplina in esame sarebbe, comunque, inapplicabile. Il successivo “contatto”, fra intermediario e investitore al dettaglio non differisce sensibilmente da quello che ha luogo nel caso di negoziazione o esecuzione di ordini, come testimonia la prassi applicativa, che registra frequenti “sovrapposizioni” fra fattispecie apparentemente distinte (basti qui evocare il “caso Cirio” e le “sistematiche rivendite” di obbligazioni, nel contesto di apparenti negoziazioni individuali).
La tesi favorevole a un’interpretazione (apparentemente) “rigorosa” dell’art. 30, co. 6, osserva la Corte, presta il fianco alla medesima censura di scarsa aderenza alla lettera della legge, là dove “pretende di interpretare la medesima norma con diverso rigore sintattico a seconda del fine cui è preordinata l’interpretazione”.
Il rilievo appare condivisibile. A tacer d’altro, sembra evidente l’uso promiscuo e “atecnico” del termine “collocamento”, nei commi primo e sesto dell’art. 30 Tuf, e la difficoltà di coordinamento con l’art. 1, co. 5. Ne risulta confermata la natura soltanto apparente della maggiore “fedeltà” alla lettera della legge dei fautori dell’interpretazione restrittiva, i quali sono costretti – al fine di evitare l’impasse bene evidenziata dalla Corte di Cassazione – a “correggere” il testo dell’art. 30, co. 6, leggendo la locuzione “contratti di collocamento” come espressione brachilogica, da intendere nel senso di “contratti conclusi nella prestazione del servizio di collocamento”.
La Cassazione, dunque, accoglie una delle possibili interpretazioni (tutte sostenibili con pari dignità logica) di un testo normativo sicuramente non preclaro, esplicitando le ragioni di politica del diritto sottese alla disciplina.
La seconda parte della motivazione è dedicata a una “rimeditazione” delle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite, alla luce del successivo intervento del legislatore, che avrebbe fornito
– secondo la tesi patrocinata dall’intermediario – un’interpretazione autentica dell’art. 30, co. 6, incompatibile con le statuizioni del Supremo Collegio, chiarendo che, nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione, il ius poenitendi sussiste soltanto per i contratti conclusi successivamente al 31 agosto 2013. La natura interpretativa della legge ne giustificherebbe l’applicazione retroattiva e, dunque, anche alla vicenda sub iudice.
La Corte contesta questa conclusione, sottoponendo la disposizione normativa sopra riportata a un’accurata interpretazione logica, finalistica e costituzionalmente orientata, al fine di individuare e comprendere il “pensiero legislativo”.
Sotto il primo profilo, la Suprema Corte osserva che il precetto contenuto nell’art. 56 quater d.l. n. 69/2013 si limita ad affermare che il diritto di recesso si applica ai contratti conclusi (nell’ambito del servizio di negoziazione) dopo una certa data, senza con ciò negare che il diritto sussista anche per i contratti conclusi prima di quella data.
Il rilievo – per vero, di per sé, piuttosto fragile – risulterebbe supportato dalla considerazione della possibile finalità dell’intervento del legislatore.
La Corte sottopone, quindi, ad attento scrutinio l’iter che ha condotto alla proposta e all’approvazione – nel pieno della calura agostana – del ricordato emendamento, onde comprenderne il senso e l’intento. La conclusione di questa indagine ricorda quella cui perviene M. Canivet, all’esito dell’autopsia sul cadavere del povero Charles Bovary: “Il l’ouvrit et ne trouva rien”. Ripercorrendo i lavori parlamentari, nei giorni a ridosso dell’approvazione dell’emendamento, la Corte non riesce a trovare niente: “né il governo, né alcun Senatore ha illustrato senso, scopi e ragione della nuova norma”.
In assenza di elementi concreti ai quali attingere, la Corte esclude che finalità del legislatore sia stata quella di porre rimedio, con una norma di interpretazione autentica, a una (non più esistente) situazione di incertezza. Del pari inaccettabile sarebbe un’interpretazione che ravvisasse la finalità del legislatore storico nel “poco commendevole intento di porre in non cale una sentenza delle Sezioni Unite”. Né miglior sorte potrebbe sortire, infine, la proposta di interpretazione – pure suggerita dal tenore letterale delle disposizioni sopra riportate –, secondo cui il legislatore avrebbe inteso “discriminare” i contratti conclusi successivamente al 31 agosto 2013 da quelli già conclusi a tale data, poiché anche una simile interpretazione desterebbe non pochi e fondati dubbi di legittimità costituzionale.
All’esito di questo raffinato esercizio esegetico, la Suprema Corte perviene a una conclusione a dir poco desolante: l’unica interpretazione giuridicamente accettabile è ritenere che la norma non abbia un senso.
In realtà, l’esame dei lavori preparatori parrebbe confermare che il legislatore agostano abbia avuto presente proprio la fattispecie sottoposta all’esame delle Sezioni Unite e abbia tentato di “attenuare” le conseguenze della sentenza. Quanto meno dubbia appare, peraltro, la legittimità costituzionale di una disposizione, contenuta in un decreto legge, volta a incidere sulle fisiologiche conseguenze di una sentenza delle Sezioni Unite.
La soluzione patrocinata dalla Corte di Cassazione ha il pregio di ricondurre l’intervento del legislatore nell’alveo della legalità costituzionale, pur se accogliendo un’interpretazione (forse inevitabilmente) “nichilista” (d’uopo il riferimento alle lucide e disincantate osservazioni di Natalino Irti, circa “l’inutile e dannoso esercizio” di applicare i criteri logici nell’interpretazione del diritto del mercato finanziario, “che è diritto artificiale e precario, sostenuto soltanto dalla volontà che un tal diritto esista così come esiste”).