LE TASSE SULLE IMPRESE
Italia paese record

L'Ocse ha fotografato, nel nuovissimo "Corporate Tax Statistics", i sistemi di tassazione delle aziende in oltre 100 paesi. A sorpresa, l'Italia conquista alcuni record assolutamente inaspettati, e si scopre che non è affatto matrigna con la categoria degli imprenditori. Si spera anzi che, nel momento in cui si ricomincia a parlare di una grande riforma fiscale, questo lavoro possa servire come operazione verità per eliminare le storture attuali e riequilibrare il peso del fisco.

Paola Pilati

Il fisco italiano è un incubo per i lavoratori dipendenti, ma è un paradiso per le imprese. Lo certifica il rapporto Ocse intitolato “Corporate Tax statistics”, appena pubblicato (https://www.oecd.org/tax/tax-policy/corporate-tax-statistics-second-edition.pdf). Mettendo a confronto i sistemi fiscali con cui vengono tassate le attività imprenditoriali, l’Italia conquista alcuni record assolutamente inaspettati. Primo: le tasse che derivano dal mondo delle aziende sono meno del 5 per cento del totale del prelievo raccolto dall’erario su tutta l’attività economica del paese. E in questo siamo in compagnia di Bahamas, Estonia, Slovenia, Tokelau (un atollo del Pacifico). 

Secondo: se nella media dell’area Ocse gli incassi della corporate tax rispetto al Pil raggiungono il 3 per cento, noi siamo nella fascia inferiore alla media, poco sopra il 2 per cento (ma questo dipende anche dal livello del Pil), insieme con Ungheria e Germania (sopra il 5 per cento ci sono paesi come il Lussemburgo, Cuba, l’Australia).

Terzo record, che può mettere fine ad alcune false percezioni sul fisco avverso per il mondo imprese, il sistema Italia ha sia un’aliquota fiscale media che un’aliquota marginale reali ed effettive assai vantaggiose. Anzi, nel caso dell’aliquota marginale reale, che è quella a cui gli imprenditori guardano per decidere della convenienza fiscale a investire in un nuovo progetto, l’Italia è il paese che fa più sconti in assoluto tra tutti gli oltre cento presi in considerazione, perché offre un’aliquota abbattuta della metà.

L’obiettivo dichiarato del Rapporto è di indagare e mettere a confronto i diversi sistemi di corporate tax per capire come funziona l’erosione della base imponibile, anche grazie all’azione della concorrenza tra sistemi, che fanno emigrare i profitti da un regime fiscale ad un altro. Ma la fotografia dell’Ocse offre anche un time lapse di come sono cambiati i sistemi nel ventennio che va dal 2000 al 2020, con alcunifotogrammiintermedi.

In termini di aliquota nominale, le tasse sulle imprese in questi ultimi vent’anni sono diminuite. L’aliquota media era il 28 per cento nel 2000, è arrivata al 20,6 oggi. Un trend che ha interessato la maggior parte dei paesi. In 88 sistemi il fisco è diventato più leggero per le aziende: hanno deciso variazioni al ribasso regimi già vantaggiosi come Aruba, Barbados, Guernsey, Jersey, l’Isola di Man (cioè molti ex paradisi fiscali), ma anche la Bosnia, la Bulgaria e la Germania. Più recentemente, hanno abbassato il tax rate anche il Belgio, il Canada e gli Usa di Donald Trump.

In 15 paesi i regimi fiscali sono rimasti allo stesso livello, mentre in alcuni casi le tasse sono invece salite: è un record quello dell’India, al 48,3 per cento, ma un ritocco l’hanno fatto anche Hong Kong e Oman, mentre Andorra, Cile, Maldive sono cresciute sì, ma partivano da livelli bassissimi se non addirittura da zero tasse.

Oltre a un abbassamento generale, la foto del ventennio trascorso dimostra che la tendenza dominante è stata quella di concentrare le aliquote intorno a un livello medio tra il 20 e il 30 per cento (in questa fascia si trovano 48 paesi, quindi circa la metà del campione). In termini di aree geografiche, quella in cui l’aliquota nominale media sulle imprese resta più alta è l’Africa, con il 27,5 per cento.

Naturalmente l’aliquota nominale non racconta tutta la realtà. Per capire bene come agisce davvero sul corpo e sui conti delle imprese il sistema tributario, servono altri dettagli: alcuni settori di attività vengono per esempio avvantaggiati fiscalmente rispetto ad altri; ci possono essere aliquote diverse per imprese domestiche e straniere; un diverso prelievo sui profitti che restano in azienda e sui profitti che vengono distribuiti agli azionisti. Insomma, incentivi e disincentivi che condizionano il comportamento opportunistico delle imprese a scegliere di mettere la propria sede fiscale qui o lì.

È vero che molti di questi sistemi sono stati nel tempo aboliti o corretti, ammette il Rapporto, ma le offerte civetta non mancano anche oggi. Prendiamo Malta, che offre il rimborso dei sei settimi delle tasse pagate alle imprese che investono nel paese. O l’Estonia e la Lettonia, che hanno scelto di tassare solo gli utili che vengono distribuiti (al 20 per cento). E poi la concorrenza fiscale non è fatta solo di aliquote, ma di sistemi: la qualità della forza lavoro, il sistema legale, le infrastrutture. Questo vuol dire che per arrivare dal semplice tax rate, l’aliquota nominale, all’aliquota effettiva, cioè alle tasse pagate davvero, occorre fare un’operazione di disboscamento di molti altri elementi.

Il Rapporto si addentra appunto in questa selva e ragiona chiedendosi: rispetto a un futuro progetto d’investimento, qual è il paese migliore? Esegue quindi un esercizio in cui entrano in gioco alcuni fattori di policy del paese rispetto all’obiettivo di essere concorrenziali e premiare gli investimenti, ma senza fare dumping fiscale.

L’obiettivo dell’esercizio è arrivare a un confronto tra paesi in base a due indici, l’aliquota reale media e l’aliquota marginale media. In entrambi i casi, il nostro paese la fa da protagonista.

Prendiamo l’aliquota reale media, quella che un’azienda paga sul profitto di un suo investimento. È questa che un manager tiene in mente quando deve decidere tra un progetto di investimento e un altro. Questa aliquota può essere molto diversa dalla corporate tax nominale del paese: se il sistema fiscale concede ammortamenti accelerati, o sconti fiscali generosi, sarà molto più bassa, viceversa può diventare anche più alta. Noi ci collochiamo nel primo gruppo, quelli che fanno lo sconto.

Anzi, l’Italia (insieme al Belgio, Malta, il Portogallo e la Polonia) è citata come una delle giurisdizioni fiscali in cui l’effetto sconto è tra i più vistosi. Questo sia grazie alle norme che regolano la svalutazione ai fini fiscali del capitale utilizzato per l’attività, sia grazie al sistema di ammortamenti fiscali accelerati, cioè più veloci della naturale svalutazione economica dei beni usati. Vantaggio, quest’ultimo, che ci apparenta al Kenya e a Papua Nuova Guinea. Ma soprattutto ci rende un regime fiscale più seducente di quelli unanimemente considerati al top, cioè il Lussemburgo e l’Olanda.

C’è poi l’aliquota marginale reale. Quella a cui gli imprenditori guardano quando devono decidere se avviare un nuovo progetto, perché stabilisce quanto peseranno le tasse sul raggiungimento del break even. Naturalmente il risultato sarà diverso a seconda che quell’imprenditore usi capitale proprio o a debito. Ci sono sistemi fiscali che premiano quest’ultima scelta, concedendo una deducibilità degli interessi che di fatto trasforma l’aliquota marginale in negativa.

C’è invece chi premia chi usa capitale proprio, come fa l’Italia. Anzi, noi siamo tra i nove paesi citati per gli effetti più significativi su questo fronte, cioè insieme a Belgio, Brasile, Cipro, Liechtenstein, Malta, Polonia, Portogallo e Turchia. Non solo: tra questi siamo quello più vantaggioso in assoluto, con un abbattimento dell’aliquota marginale reale di oltre il 50 per cento proprio grazie alla condizione di vantaggio che viene riservata dal nostro fisco all’uso di capitale proprio.

Insomma, con gli imprenditori l’Italia non è affatto matrigna come spesso la categoria vuole far pensare. Ma d’altra parte, se le nostre condizioni fiscali sono così appetibili per le imprese, perché è così difficile attirarle dall’estero? La risposta, purtroppo, obbliga a guardare in altre zone del sistema paese, come è noto da tutte le classifiche sulla competitività. Ma obbliga anche a riflettere sul fatto che continuare a fare sconti sulle tasse non porta grandi risultati.

La speranza è che questo Rapporto possa contribuire non solo a fare un’operazione verità sui risvolti meno trasparenti (anche se non illegittimi) del nostro fisco, affollato di bonus, sconti, esenzioni, detrazioni che aumentano disparità e zone di vantaggio, ma anche sul peso assolutamente squilibrato e ingiusto del prelievo sulla categoria dei lavoratori dipendenti. Che serva insomma, nel momento in cui si ricomincia a parlare di una grande riforma fiscale, per eliminare le storture e fare un po’ di giustizia.