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Investire il risparmio previdenziale nelle PMI?

Per imporre un vincolo di portafoglio ai fondi pensione e alle casse previdenziali per destinare risorse alle PMI occorre tenere conto di diversi fattori: qual è l'interesse del risparmiatore e come affrontare le diverse aliquote fiscali sugli investimenti finanziari. Morale: l'obiettivo di capitalizzare la media impresa italiana va centrato usando più di una leva

Andrea Battista
Battista

Canalizzare il risparmio degli italiani verso le piccole e medie imprese è tema all’attenzione pubblica da tempo. È infatti di significativa rilevanza, sia micro che macro economica. Il matrimonio tra risparmio e media impresa competitiva sembrerebbe davvero virtuoso, è difficile essere di diversa visione.

Da un lato si osserva che il tessuto industriale italiano, noto nel mondo per la sua articolazione e qualità, uscito dagli anni del Covid mostrando indubbia resilienza, è ancora scarsamente capitalizzato e troppo dipendente dal credito bancario: considerazioni valide in media e a grandi linee.

Dall’altro lato, c’è l’offerta di fondi, ossia il risparmio delle famiglie nelle sue varie forme, in cerca di rendimenti netti significativi, almeno in grado di proteggere nel lungo termine il valore reale del risparmio, ovvero di ottenere obiettivi di vita importanti, come una decorosa pensione.

Salvo qualche periodo e momento particolare, in genere di tensione finanziaria o inflattiva, il puro reddito fisso a rischio limitato – titoli di stato inclusi – non pare però in grado, in media, di generare per sua natura rendimenti davvero soddisfacenti in relazione agli obiettivi esemplificati.

Canalizzare il risparmio pensionistico verso le PMI, quindi, è una buona idea?

Come purtroppo capita per tutte le cose importanti della vita, il mondo non è così semplice. Le ragioni che rendono difficile questo matrimonio sono diverse e intrecciate, dal lato della domanda e dal lato dell’offerta.

Prima di tutto vorrei sottolineare un aspetto preliminare: il risparmio accumulato tramite il lavoro è tra le cose più care delle persone, perché molto intrecciato ai progetti e temi di vita. Ne consegue che è l’interesse del risparmiatore che va messo al centro, è questo l’obiettivo e non solo uno degli obiettivi possibili. È compatibile rispettare questo obiettivo e nello stesso tempo trattare l’investimento in medie imprese come vincolo tecnico?

Certo, se vi sono conseguenze / esternalità positive per altri soggetti o per la collettività, meglio per tutti e questo elemento può essere riconosciuto e valorizzato anche da un incentivo fiscale.

Ma non è possibile subordinare l’interesse del risparmiatore alla funzione di benessere sociale, comunque definita. Almeno in una società libera. Approccio alternativo è il modello paternalistico: investire in medie imprese fa bene e siccome il risparmiatore non lo sa lo impone la regolamentazione pubblica. A mio avviso, anche questo approccio è ugualmente poco accettabile, anche se la tentazione di scorciatoie a fin di bene e quindi virtuose è più che comprensibile.

È in questo contesto che, nei mesi scorsi, è stata avanzata la proposta di imporre una sorta di vincolo di portafoglio ai fondi pensione e alle casse previdenziali.

Non più il vincolo di un tempo a beneficio di investimenti in titoli pubblici, ma per finanziare piccole e medie imprese, l’architrave per l’appunto del nostro tessuto produttivo. In ogni caso, un passo in avanti.

In sostanza, una quota comunque minima di attivi dovrebbe essere investita in piccole e medie imprese italiane da parte di fondi pensione e casse previdenziali, soggetti che per loro natura hanno un approccio di lungo termine.

La tentazione di essere ideologici – niente obblighi, espressione di dirigismo – è giustificata anche dalla breve riflessione sulla natura del risparmio sopra riportata.

Provo comunque a resistere e ad argomentare più in dettaglio, per quanto in misura difficilmente esaustiva.

Esistono fallimenti di mercato o casi di esternalità in cui l’obbligo può essere giustificato. Certo queste eccezioni dovrebbero essere ben motivate e argomentate e rimanere comunque eccezioni e non regole.

L’obiettivo di aumentare il risparmio investito nella media impresa italiana è condivisibile. I livelli di impiego sono talmente bassi che è probabile che il sistema si trovi in un equilibrio subottimale.

Ma l’approccio “vincolista” affronta i sintomi e ha evidenti controindicazioni.

In primis, limitare il vincolo alle sole azioni italiane e non europee presenta un’asimmetria poco accettabile, in epoca di auspicata Capital market union.

È poi difficile obbligare a investire alcunché in azioni chi esprimesse preferenze per profili molto prudenti, magari anche per motivi di equilibrio con le passività previdenziali, che è la golden rule per le casse previdenziali e in forma diversa anche per i fondi pensione.

Le imprese, inoltre, il capitale devono meritarselo, remunerandolo adeguatamente.

Perché, per esempio, investire nelle medie aziende – e non sono poche – che non adottano standard di governance adeguati?

Un’ondata di liquidità improvvisa, infine, se non ben gestita potrebbe anche creare bolle valutative di cui non si sente affatto il bisogno.

Il vincolo dovrebbe poi presumibilmente essere temporalmente limitato, ponendosi così il problema di cosa succederebbe alla sua rimozione.

Come sanare con altri mezzi questo sotto investimento? Lo spiazzamento creato da altri strumenti, fiscalmente avvantaggiati, è tra i fattori da rimuovere. Certo, vi sono anche i PIR, ma il meccanismo dei PIR pecca di massa critica e finisce per incentivare ogni investimento incluso nel PIR, compresa la componente relativa ai grandi emittenti. L’impatto macro è stato, e presumibilmente rimarrà, ridotto.

Se si desidera incentivare gli investimenti produttivi nelle medie imprese, che senso ha tassare in capo alle persone fisiche al 12% i rendimenti dei titoli pubblici, al 16% – un po’ di più in realtà – la rivalutazione dell’azionario non quotato e al 26% i dividendi e i ritorni azionari delle piccole imprese quotate su EGM? Non si stanno creando e cumulando distorsioni che poi vogliamo risolvere con degli obblighi top down?

Adottare una sola aliquota fiscale – in qualche forma sostenibile dalla finanza pubblica, ovviamente, ecco perché la riforma fiscale dovrebbe muovere dalla riduzione della spesa pubblica ma questa è un’altra storia – oppure allineare i proventi delle azioni EGM a quelli dei bond pubblici al 12%, potrebbero essere una delle vie da percorrere.

Ovviamente la leva fiscale non basta, perché deve anche aumentare “la cultura equity” nel medio e lungo periodo del risparmiatore.

Su questo, la moral suasion dei supervisori può avere influenza nel corso del tempo ma l’educazione finanziaria lo ha anche di più. Anche la riduzione dello “spiazzamento” generato dal reddito fisso pubblico è fondamentale.

Non a caso, il governatore Fabio Panetta, nelle sue prime considerazioni finali dello scorso mese di maggio, ha rimarcato il basso grado di investimenti in venture capital di fondi pensione e compagnie di assicurazione, che come accennato avrebbero l’orizzonte temporale “giusto” per attendere il ritorno potenziale.

In definitiva, siamo dunque di fronte al caso di quasi impossibilità della c.d. killer application o della pallottola d’argento (silver bullet) come preferiscono dire altri, ossia l’impossibilità che una sola leva ben identificata ottenga un obiettivo economicamente rilevante e socialmente significativo.

Le soluzioni di equilibrio e sostenibili nel lungo periodo passano invece di norma per un mix ben calibrato di meccanismi hard e fattori soft.

Sembra dunque questa l’unica strada da esplorare nelle sue articolazioni – per quanto affatto semplice e ovvia – al fine di incrementare nel tempo l’allocazione di capitale di rischio alla media impresa italiana.