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In Italia paghiamo troppe tasse? Punti di vista

Falso per Cipolletta. Pressione fiscale simile agli altri paesi europei. Ma il carico fiscale resta mal distribuito. E il debito pubblico? E la spesa pubblica? A spasso tra i quesiti di una teoria fuori dal coro.

Pietro Reichlin
Reichlin

“In Italia paghiamo troppe tasse”. Falso! E’ quanto sostiene Innocenzo Cipolletta nel suo ultimo libro. L’autore solleva questioni di indubbia rilevanza e si contrappone coraggiosamente ad una certa “vulgata” prevalente nei dibattiti pubblici e nei talk show televisivi.

Le tesi centrali del suo lavoro riguardano:

  1. la pressione fiscale, simile a quella dei nostri simili (ovvero: non paghiamo troppe tasse);
  2. il carico fiscale mal distribuito;
  3. il livello della spesa pubblica alto perché paghiamo troppo per interessi (eredità del passato) ma la spesa al netto degli interessi è circa pari a quella dei paesi a noi simili;
  4. il debito pubblico alto a causa degli elevati tassi d’interesse negli anni ’80 e della scarsa imposizione fiscale degli anni ’70;
  5. la riduzione della spesa pubblica che significa redistribuire risorse dai poveri ai ricchi perché i primi non possono permettersi di pagare di tasca propria i servizi offerti gratuitamente dallo stato.
  6. i servizi offerti dallo stato (scuola, sanità) sono di buona qualità e poco costosi;
  7. esiste una maggioranza dell’opinione pubblica italiana contro la spesa e contro le tasse. Condivido le considerazioni che riguardano la distribuzione del carico fiscale e, per questo motivo, non mi soffermerò su tale aspetto. Mi concentrerò, invece, sul problema della dimensione della pressione fiscale e della spesa pubblica e sull’opportunità di una parziale ritirata dello Stato da alcune funzioni.

Per prima cosa, i livelli di spesa pubblica e pressione fiscale in Europa occidentale sono piuttosto eterogenei e ciò non è spiegato da altrettanta eterogeneità dei servizi e delle prestazioni offerte dal settore pubblico. L’Italia ha una pressione fiscale e una spesa pubblica troppo alte in rapporto al modello sociale e alle finalità dichiarate del settore pubblico. In particolare, possiamo ridurre la spesa pubblica significativamente senza ridurre i servizi e penalizzare i poveri. Il nostro modello di stato sociale non favorisce chi ha più bisogno di aiuto, ma, piuttosto, chi è più rappresentato ai tavoli della concertazione. Quindi è inevitabile e anche giusto che salga la protesta per l’eccesso di pressione fiscale, se ciò può aiutare a cambiare le cose. Inoltre, al contrario di Cipolletta, credo che il nostro debito pubblico non sia cresciuto solo per effetto degli alti tassi d’interesse degli anni ’80 e della scarsa pressione fiscale operata nel passato, ma sia, piuttosto, la conseguenza delle politiche irresponsabili dei passati governi. Infine, io credo che occorra rivedere il modello sociale europeo nel senso di una maggiore compartecipazione dei cittadini ai costi ed una concentrazione dell’azione pubblica nel campo della protezione contro i rischi di esclusione e povertà.

Queste mie affermazioni non vanno interpretate come un radicale dissenso nei confronti dell’ispirazione di fondo del libro di Cipolletta. Anch’io penso che la spesa pubblica sia necessaria, che le tasse possano essere una bella cosa e anch’io non desidero trapiantare in Italia un welfare state “all’americana”. Tuttavia: non possiamo ignorare che le economie europee hanno tutte, in misura più o meno rilevante, problemi di sostenibilità del modello tradizionale di welfare, a causa delle tendenze demografiche, del cambiamento della struttura produttiva e della globalizzazione. Penso che oggi sia molto difficile riformare la spesa pubblica ed eliminare le spese non necessarie, perché ciò va contro gli interessi di forti gruppi d’interesse. Vedo anch’io una retorica superficiale contro la spesa e le tasse, ma, al contrario di Cipolletta, credo che questa sia una retorica inefficace. Ben maggiore è l’efficacia di chi, in silenzio, distrugge ogni tentativo di riforma e di riduzione della spesa non necessaria.

Non paghiamo troppe tasse? Cipolletta dice che non paghiamo troppe tasse rispetto ai paesi a noi più simili. Ma quali sono questi paesi? Il Belgio, la Svezia, la Francia? O la Germania, l’Olanda, la Spagna? I primi condividono con noi una pressione fiscale particolarmente elevata. Non possiamo dire, tuttavia, che il secondo gruppo di paesi, dove la pressione fiscale è inferiore di circa 6-7 punti percentuali rispetto al PIL, siano meno simili a noi. Se facessimo come questi ultimi potremmo risparmiare 90-100 miliardi l’anno. E senza sacrificare l’obiettivo dell’equità sociale. Infatti, questi non sono paesi dove lo Stato offre meno servizi rispetto all’Italia. Secondo la classifica dell’OCSE siamo sesti su 34 paesi nell’ordinamento della pressione fiscale in ordine decrescente. E la classifica non cambia molto se escludiamo i contributi sociali. In ogni caso, non è evidente che i contributi sociali siano semplicemente salario differito, perché il sistema ha una notevole componente redistributiva. In Italia, ad esempio, solo il 51% delle pensioni pagate dall’INPS sono pensioni di vecchiaia.

Esaminiamo Germania, Francia e Spagna. Si tratta di paesi con un sistema di welfare e un mercato del lavoro simile al nostro. Tuttavia, la Francia e la Germania sono più ricche di noi e hanno politiche sociali più estese e generose dell’Italia, se si fa eccezione per il sistema previdenziale. La Spagna ci assomiglia di più sia per livello di ricchezza sia per varie caratteristiche socio-economiche.

E’ noto che l’estensione dell’intervento dello stato dipende principalmente dalla ricchezza dei paesi. Nella relazione tra la pressione fiscale ed il PIL pro capite e la spesa pubblica ed il PIL pro capite nei 15 paesi più rappresentativi dell’UE (con l’esclusione del Lussemburgo), per il 2012, l’Italia registra – per quanto riguarda la pressione fiscale – 6 punti percentuali di PIL superiore al livello che sarebbe giustificato dalla sua posizione nella classifica del PIL pro capite. Per ciò che riguarda il livello della spesa pubblica, invece, si segnala una scarsa dipendenza dal reddito.

Avendo esaminato i livelli delle entrate e della spesa, passiamo alla domanda successiva. I soldi che diamo allo Stato sono spesi bene? Per avere un’idea approssimata del livello di efficienza della nostra spesa consideriamo il rapporto tra livello della spesa sociale più istruzione e il livello della pressione fiscale per i 4 paesi più rappresentativi: cioè quanti euro per scopi sociali e per istruzione si ottengono con un euro di imposte.

L’Italia, la Francia e la Spagna sono paesi dove la spesa pubblica è poco redistributiva, si da un po’ a tutti, e la spesa sociale avvantaggia più i ricchi che i poveri.

Sulla base di un’analisi dei trasferimenti pubblici, l’OCSE afferma che:

“..several countries that face particularly strong fiscal pressures in fact appear to spend more on transfers to well-off families (the “top 30%”) than to low-income ones” (OECD, Society at a glance, 2014).

Dunque, abbiamo numerosi indizi a favore della tesi secondo cui il livello di pressione fiscale italiana è elevata in rapporto ai benefici “promessi” dallo stato. E’ evidente che, come dice Cipolletta, i soldi spesi dallo stato vanno sempre a vantaggio di qualcuno. Ma questo non dovrebbe essere un motivo per essere soddisfatti

Perché abbiamo un debito pubblico così elevato? Secondo Cipolletta il debito pubblico elevato non si spiega con l’eccesso di spesa ma con il difetto di entrate. La spesa pubblica in Italia ha cominciato ad aumentare a ritmi elevati a partire dal 1960, quando era al 30% del PIL. Ma il vero balzo è avvenuto dal 1975 al 1990, quando siamo passati dal 40 al 54%. In effetti, le entrate tributarie in questo periodo sono state sistematicamente inferiori alla spesa generando ampi disavanzi e, quindi, un debito pubblico crescente che poi è stato ulteriormente alimentato dagli alti tassi d’interesse degli anni ‘80-’90. Ma questo significa, allora, che il debito è colpa della bassa tassazione e non delle troppe spese? In realtà, la crescita della pressione fiscale in Italia dal 1975 in poi è stata più elevata di quasi ogni altro paese dell’OCSE: quasi il 9% tra ’75 e ’85 (secondi nell’OCSE), oltre il 6% tra ’85 e ’95 (primi nell’OCSE). Tra il 1975 ed il 1989 l’Italia aumenta la pressione fiscale di ben 12 punti raggiungendo la Germania. Non sembra, dunque, che le tasse siano state troppo basse nel periodo degli alti tassi d’interesse.

Il ragionamento di Cipolletta parte dalla premessa implicita che il 50% sia il numero “magico” a cui un paese civile deve convergere indipendentemente dalla sua capacità di generare gettito fiscale. A me pare, invece, che i governi italiani degli anni ’80 abbiano agito in modo irresponsabile scaricando sulle generazioni future i costi di una politica irrealistica. L’Italia degli anni ’70-’80 non poteva permettersi un livello di spesa pari a quello della Germania e della Francia perché il livello di sviluppo delle istituzioni e dell’economia (preponderanza di micro imprese, divario Nord-Sud, carenza nell’enforcement legale, ecc.) non era ancora maturo. Per inciso, la componente della spesa che ha letteralmente portato fuori controllo i conti dello stato è stata quella previdenziale, cioè le promesse irrealistiche del sistema retributivo e le pensioni di anzianità. E che dire dei trasferimenti a fondo perduto alle aziende pubbliche in dissesto?

Non ci “conviene ridurre la spesa”? Le questioni poste nel libro di Cipolletta vanno oltre il problema dell’analisi comparata dei livelli di tassazione e di spesa pubblica tra paesi che hanno sistemi pubblici analoghi. La domanda posta nel libro è la seguente. Converrebbe ridurre la spesa pubblica con la conseguenza di pagarci di tasca propria i servizi oggi offerti dallo stato?

L’argomento secondo cui è meglio pagare tasse elevate in cambio dei servizi dello Stato piuttosto che essere costretti a pagare personalmente per tali servizi è complesso. Perché è meglio? Se lo Stato e i privati fossero ugualmente efficienti, il costo dei servizi sarebbe lo stesso. Ma, se fosse così, sarei indotto a pensare che sia meglio lasciare fare ai privati ed evitare di pagare le tasse. Per due motivi principali: perché le tasse hanno effetti distorsivi (scoraggiano l’offerta di lavoro, l’innovazione e l’investimento, generano comportamenti elusivi ed evasione) e perché uno Stato liberale dovrebbe preferire la libertà di scelta alle scelte forzose.

Bisogna trovare altri argomenti per invocare il ruolo del pubblico. E non ce ne sono pochi. Uno è quello della redistribuzione del reddito. Le tasse consentono di dare ai poveri e togliere ai ricchi. Ma questo non è un argomento utile a motivare i livelli di spesa pubblica dei paesi europei. Una funzione redistributiva efficace potrebbe essere svolta dallo stato con risorse relativamente modeste. Se limitassimo il ruolo dell’imposizione fiscale al sostegno del reddito dei più poveri la pressione fiscale sarebbe molto più scarsa.

Come si motiva allora un livello di spesa pubblica, tutta utile e necessaria, pari al 50% del PIL? Io ho molti dubbi che esistano motivazioni convincenti. Fatemi chiarire da subito che io sono favorevole al sistema sanitario nazionale (assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti),  alla scuola pubblica (istruzione primaria e secondaria gratuita per tutti) e all’assicurazione pubblica contro i rischi d’impiego. Ma non per ragioni di equità o di convenienza per chi non si può permettere sanità e scuola privata. In linea di principio si può realizzare l’equità con un sistema interamente privato. Basta che lo stato ceda gratuitamente dei “buoni-spesa” ai cittadini poveri. La ragione decisiva per cedere allo stato funzioni aggiuntive rispetto a quelle della redistribuzione è il fallimento del mercato in alcuni settori importanti dell’economia, come la sanità e l’istruzione.

Ad esempio, è utile avere un sistema di previdenza obbligatorio perché gli individui non hanno una buona percezione dei rischi legati all’anzianità. E’ utile avere una sanità pubblica perché esistono forti asimmetrie informative che possono svantaggiare gli utenti in un mercato concorrenziale, ecc. Ma se riflettiamo sui fallimenti del mercato scopriamo anche i fallimenti del pubblico. Per evitare questi fallimenti credo che sia utile la compartecipazione dei cittadini ai costi dei servizi pubblici: anche nella sanità, nell’istruzione e nell’assicurazione contro i rischi di impiego, pur salvaguardando i più poveri. Credo, ad esempio, che sia una buona cosa aumentare le tasse di iscrizione all’università pubblica e, al contempo, impiegare i risparmi per dare borse di studio agli incapienti e migliorare la qualità dell’istruzione e della ricerca. La compartecipazione aumenta la responsabilità e riduce la dipendenza. Se consentisse anche di ridurre la pressione fiscale sarebbe l’uovo di Colombo.

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