Nel determinare il livello di dazio per ciascun paese, il Dipartimento del commercio americano usa il concetto di elasticità al prezzo. Ma al prezzo di cosa? Di un bene, di un servizio. Non di un paese. Libera critica, formule alla mano, di un sistema che vuole riequilibrare così la sua bilancia commerciale
Sulla logica dei dazi dell’amministrazione Trump, veri o solo minacciati, tutto è stato detto, anche da economisti di meritata fama mondiale.
Una volta tanto, anche tra i più grandi premi Nobel che si sono cimentati sulla questione ha prevalso una sconfortata umiltà. Della serie: non c’è una spiegazione razionale, possiamo congetturare, ma neppure troppo seriamente.
Nulla da aggiungere da parte mia, ovviamente. Se non che, mi pare, non sia stata trattata una questione, marginale rispetto alle riflessioni sui massimi sistemi, ma meritevole di qualche approfondimento.
Il giorno del liberation day – non il nostro 25 ma il loro 2 aprile – il Dipartimento americano del commercio ha colto l’occasione di fornire una spiegazione “metodologica”[1], con tanto di indicazione delle fonti, sull’intensità delle barriere tariffarie che venivano elevate in misura specifica e differenziata per le diverse aree e i diversi paesi del mondo.
Compare, nelle due paginette tecniche dal titolo eloquente “Calcolo delle tariffe reciproche” le seguenti formule:
Partiamo dalla prima, la (1). Secondo l’ineffabile Dipartimento del commercio degli USA questa formula, i cui simboli spiegherò tra un attimo, consentirebbe di determinare il livello di dazio nei confronti di un paese, che consentirebbe di azzerare il deficit USA nei confronti di quel Paese.
Prima di proseguire, una parentesi divertente. Se assegniamo alle due lettere greche – che ancora non sappiamo cosa vogliono dire – i valori di 4 e 0,25, la formula si riduce al saldo esportazioni meno importazioni sul totale delle importazioni (perché 4×0,25=1). Di fatto, il livello dei dazi è stato fissato (al di là della circostanza che siamo ancora in piena fase tira e molla) sulla base di questa semplificazione. Cioè, se importo 100 dall’Europa e ho importazioni superiori alle esportazioni (verso l’Europa) pari a 20, metto, come amministrazione USA, un dazio pari al 20% (del valore) contro le importazioni USA dall’Europa.
Ma torniamo al significato della formula. Perché significato ne ha.
L’elasticità di una quantità al suo prezzo[2] è la formula (2):
Si tratta cioè di un rapporto tra variazioni proporzionali: di quanto varia in percentuale la quantità se il suo prezzo varia, per esempio, dell’1%. Se l’elasticità è -2 (l’assumiamo negativa senza discussione) al crescere del 10% del suo prezzo la quantità crollerà del 20 per cento.
Bene. Siccome la formula americana dice che vuole condurre a un dazio che azzeri il deficit, sostituisco nella formula (2) a Δq × – m (trascuro per carità cristiana l’indice i), e a q posso, quindi, sostituire m. La formula dell’elasticità della domanda al prezzo assume quindi la forma della formula (3):
La storia è semplice. Voglio ottenere quella variazione del prezzo che, data l’elasticità della domanda al suddetto prezzo, riequilibri la bilancia commerciale, cioè produca un risultato di riduzione a zero del valore assoluto di x-m.
A questo punto è ora di guardare alla (1bis), identica alla (1) scambiando di posto l’elasticità con la variazione del dazio. Essa è pure uguale alla (3). Infatti, il prodotto Δτφ dice esattamente quanto una variazione percentuale del dazio si riflette (via la sua capacità di trasmissione φ) sul prezzo finale: tale prodotto è semplicemente la variazione percentuale del prezzo (finale). Nulla di misterioso.
L’amministrazione non può agire direttamente sui prezzi al consumo dei beni venduti, per esempio, nei supermercati americani, beni che provengono da importazioni. Pertanto, deve esplicitare lo strumento tariffario ipotizzando un coefficiente di trasmissione del dazio al prezzo finale (il parametro φ fissato fantasiosamente[3] a 0,25). Riepilogo. Voglio ridurre le importazioni di qualcosa: metto i dazi, questi si trasferiscono al prezzo finale (via φ) e il consumatore grazie alla sua elasticità al prezzo (ε) riduce la quantità e il gioco è fatto[4].
Ma in tutto questo ragionamento c’è un deficit colossale che non mi pare sia stato dovutamente evidenziato nella pubblicistica degli ultimi due mesi.
Si tratta di un clamoroso scambio di indici. Facciamo un passo indietro. In tutta la precedente discussione, fedelmente basata sulle due pagine “metodologiche” del Dipartimento del commercio, la questione centrale teorica e operativa verte sul concetto di elasticità al prezzo. Ma al prezzo di cosa? Di un bene, di un servizio. Non di un paese. Perché non esiste l’elasticità al prezzo della domanda di beni e servizi complessivamente prodotti da un paese. Cioè il ragionamento funzionerebbe, almeno in astratto, se i dazi fossero stati imposti su un bene, tipo il caffè, proveniente da qualsiasi paese. Ma non ha senso, proprio sulla base della metodologia proposta, mettere un dazio su aree o paesi, scambiando, appunto, l’indice dei beni con l’indice dei paesi.
Per fare un esempio: gli Stati Uniti mettono dazi all’x% sulle importazioni provenienti dall’Europa. Senza la formula e senza la nota metodologica lo potrei accettare: vogliono combattere il nostro protezionismo non tariffario e quindi entrano in guerra con i dazi. Ma se utilizzano una formula che contiene un’elasticità al prezzo questa cosa è inaccettabile sotto il profilo logico. Una famiglia di New Orleans potrà avere un’elasticità al prezzo del nostro Franciacorta. Ma tale parametro sarà manifestamente indipendente dall’elasticità al prezzo delle scarpe italiane di un consumatore di Seattle. Che senso ha imporre dazi all’Italia, all’Europa o al Messico? I dazi vanno imposti sui beni singoli e su specifici servizi. Se poi si vuole colpire in particolare la provenienza di un bene specifico, oltre al dazio sul bene in generale si imporrà una sovra-tariffa, sempre su quel bene, se proveniente da uno specifico territorio.
Si capisce che le conseguenze di questo approccio sono semplicemente imprevedibili perché non calcolabili. Potrebbe succedere di tutto e anche il suo contrario.
Speriamo bene.
[1] https://ustr.gov/sites/default/files/files/Issue_Areas/Presidential%20Tariff%20Action/Reciprocal%20Tariff%20Calculations.pdf
[2] Lasciamo perdere la microeconomia, per una volta. Faccio ragionamenti ultra-semplificati perché il mio punto è un altro.
[3] Trascuro le polemiche un po’ pretestuose tra il dipartimento del commercio e gli autori degli articoli citati nella stessa nota “metodologica”. Sarebbe interessante, ma porterebbe parecchio lontano.
[4] Non è mio interesse decidere chi paga il dazio nelle diverse ipotesi.