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Il valzer dello ius poenitendi

La Corte di Cassazione ripensa il diritto di ripensamento. Confusione e incertezza tra risparmiatori e intermediari.

Paolo Luccarelli
Luccarelli

Con la sentenza n. 7776 del 3 aprile 2014 la terza sezione della Corte di Cassazione, dopo aver qualificato come prodotto strutturalmente unitario, il “piano finanziario” consistente nell’erogazione, da parte di una Banca, di un finanziamento finalizzato all’acquisto in proporzioni predeterminate di quote di fondi comuni di investimento e titoli obbligazionari costituiti in pegno a garanzia della restituzione del finanziamento medesimo, ha enunciato i seguenti principi di diritto:

  1. «il diritto di recesso previsto in favore del risparmiatore dall’art. 30, comma 7, d. lgs. 24.2.1998 n. 58 nel caso di contratti stipulati fuori sede si applica sia nel caso di vendita di strumenti finanziari per i quali l’intermediario ha assunto un obbligo di collocamento nei confronti dell’emittente, sia nel caso di mera negoziazione di titoli»;
  2. «l’art. 56 quater del d.l. 21.6.2013, n. 69, il quale – novellando l’art. 30, comma 6, d. lgs. 24.2.1998 n. 58 – ha previsto che il diritto di recesso del risparmiatore dai contratti di investimento stipulati fuori sede spetti anche nel caso di operazioni di negoziazione di titoli per conto proprio stipulate dopo il 1° settembre 2013 non è una norma di interpretazione autentica, e non ha avuto l’effetto di sanare l’eventuale nullità dei suddetti contratti, se privi dell’avviso al risparmiatore dell’esistenza del diritto di recesso e stipulati prima del 1° settembre 2013».

Con tale sentenza riesplode in pieno il problema venutosi a creare, nel settore della prestazione dei servizi di investimento, con la nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 3 giugno 2013, n. 13905, alla quale il legislatore aveva tentato di porre rimedio con l’art. 56-quater del decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013 convertito in legge in data 20 agosto 2013.

Come si ricorderà, le Sezioni Unite erano intervenute con un’interpretazione estensiva del c.d. “diritto di ripensamento” (jus poenitendi) previsto a favore dell’investitore al dettaglio nell’offerta fuori sede ex art. 30, commi 6, del d.lgs n. 58/98 (“Tuf”). In particolare, la Suprema Corte aveva argomentato che “il diritto di recesso accordato all’investitore dal sesto comma dell’art. 30 del d. lgs. n. 58 del 1998 e la previsione di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo settimo comma, trovano applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d’investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela”. Secondo il Supremo Collegio a tale interpretazione conduceva non già la lettera della norma (ritenuta imprecisa e tale quindi da non fornire di per sé elementi dirimenti), quanto piuttosto la sua vocazione “protettiva” in favore del cliente “sollecitato” ad investire dal- l’intermediario: sollecitazione che potrebbe cogliere il cliente impreparato e indurlo a scelte negoziali non sufficientemente meditate.

Vale osservare che, fino all’intervento delle Sezioni Unite, l’orientamento che si era consolidato in giurisprudenza, adducendo proprio il tenore letterale dell’art. 30 Tuf (si vedano per tutte Cass.

n. 2065 del 14 febbraio 2012 e Cass. 4564 del 22 marzo 2012), era nel senso di circoscrivere la disciplina dello jus poenitendi ai soli contratti di collocamento e di gestione di portafogli.

Tale interpretazione, del resto, era stata accolta anche dalla Consob (si veda, da ultimo, la comunicazione n. DIN/12030993 del 9 aprile 2012 in risposta ad un quesito di Assoreti, dove si conferma con chiarezza, argomentando sia “dal tenore letterale del comma 6 dell’art. 30 del T.U.F.”, sia “dalla stessa ratio della disposizione”, la “non applicabilità del diritto di ripensamento ai contratti di raccolta e di esecuzione di ordini e alle operazioni compiute in esecuzione degli stessi”).

In questo quadro, è intervenuto il governo con l’art. 56 quater del decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, convertito in legge in data 20 agosto 2013, stabilendo che, a far data dal 1° settembre 2013, il diritto di ripensamento trova applicazione anche alla negoziazione per conto proprio di cui all’art. 1, comma 5, lett. a), del Tuf. Il nuovo testo dell’art. 30 comma 6 prevede infatti un nuovo periodo volto a precisare che: “ferma restando l’applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettere c), c-bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1° settembre 2013 la  medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all’articolo 1, comma 5, lettera a). La medesima disciplina si applica alle proposte contrattuali effettuate fuori sede”.

Per effetto di tale modifica, viene ampliata anche la portata della previsione di cui al comma 7 dello stesso art. 30 Tuf, che prevede la nullità relativa (perché invocabile solo dal cliente) dei contratti con cui si realizzano i servizi di investimento di cui sopra in caso di mancata indicazione della predetta facoltà di recesso.

Lo scopo della “novella” era duplice: da un lato, venire incontro alle istanze sollevate dalle Sezioni Unite, estendendo l’ambito applicativo del diritto di ripensamento anche alle operazioni effettuate fuori sede dal cliente in contropartita diretta con l’intermediario (ossia a quelle fattispecie nelle quali l’intermediario ha un interesse – diverso e autonomo rispetto a quello del cliente – a liquidare o alleggerire la propria posizione); dall’altro, offrire – seppure in modo implicito e non in forma di interpretazione autentica – ragionevoli spunti per riferire lo jus poenitendi fino al 31 agosto 2013 ai soli servizi di collocamento e di gestione di portafogli.

Chiarito il contesto, arriviamo alla pronuncia della Corte di Cassazione in commento, che “condivide e ribadisce” la lettura delle Sezioni Unite anche sulla base di “ulteriori ragioni”.

Afferma il Collegio che “se, infatti, si interpretasse l’art. 30, comma 6, d. lgs. 58/98 nel restrittivo senso fatto proprio dalla Corte d’appello, esso sarebbe di fatto inapplicabile. La norma, infatti, accorda al risparmiatore il diritto di recesso dai “contratti di collocamento”. Ma contratti di collocamento in senso tecnico sono soltanto gli accordi tra intermediario ed emittente, e nei rapporti tra investitori professionali il diritto di recesso è espressamente escluso dal secondo comma dell’art. 30 d. lgs. 58/98. Da ciò discendono due conseguenze sul piano della logica formale. La prima è che l’adesione alla lettura restrittiva dell’art. 30, comma 6, d. lgs. 58/98 renderebbe la norma inutile, perché non potrebbe darsi alcun caso in cui un “contratto di collocamento” sia stipulato tra l’emittente ed un risparmiatore (..) La seconda conseguenza è che l’interpretazione qui contestata pretende di interpretare la medesima norma con diverso rigore sintattico a seconda del fine cui è preordinata l’interpretazione. Quando si tratta di escludere che il diritto di recesso si applichi ai contratti di negoziazione di titoli, si assume che il legislatore abbia usato un lessico rigoroso e tecnico, e che pertanto il recesso non spetti nel caso di negoziazione perché quest’ultima è contratto ben diverso da quello di collocamento. Quando, invece, si tratta di replicare all’obiezione secondo cui il contratto di “collocamento di strumenti finanziari” è quello stipulato tra emittente e intermediario (sicché la norma non potrebbe essere interpretata in senso stretto a pena di inapplicabilità), l’orientamento qui in contestazione ammette che l’espressione “collocamento di strumenti finanziari” sia stata usata nell’art. 30, comma 6, d. lgs. 58/98 in senso atecnico”.

Al riguardo è, tuttavia, utile ricordare – in via preliminare – che, tralatiziamente, vengono considerati contratti di intermediazione mobiliare unicamente i contratti fra intermediario  e cliente in cui si esplica l’attività “riservata” (si veda l’art. 6, comma 1, lett. c) dell’abrogata legge

n. 1/1991, l’art. 9 della delibera Consob n. 5387/1991 e l’art. 7 della delibera Consob n. 8850/1994); non appartengono, per contro, a questa categoria – tant’è che ad essi non sia applica il corpus normativo previsto dalla disciplina di settore – i contratti che si pongono “a monte” del rapporto contrattuale fra l’intermediario e cliente (si veda F. CARBONETTI, I contratti di intermediazione mobiliare, Milano, 1992, pag. 26): fra questi ultimi, tradizionalmente, si annoverano ad es. il contratto fra una società emittente strumenti finanziari e un intermediario che si impegna a collocarli o fra una società di gestione di fondi comuni e un intermediario che ne distribuisca le quote.

Quanto sopra è chiarito dalla previsione dell’art. 23, comma 1, Tuf dove si afferma che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento, escluso il servizio di cui all’articolo 1, comma 5, lettera f) (…) sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti (…) Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo».

Vero è che il previgente regolamento Consob n. 11522/98, all’art. 30, commi 1 e 3 esentava dal formalismo negoziale i contratti di collocamento. Tale esonero (ancorché superato dal vigente quadro normativo) non poteva, peraltro, condurre, di per sé solo, a negare in radice l’instaurazione – fra intermediario collocatore e cliente – di un “rapporto contrattuale”soggetto alle regole di comportamento prescritte per la prestazione dei servizi; semmai esso valeva a riconoscere libertà di forma riguardo alle modalità di espressione del consenso perfezionativo del contratto quadro (di collocamento), sul presupposto che una contrattualizzazione formale avrebbe comunque caratterizzato le operazioni di investimento “a valle” di esso.

Tutto questo, a ben vedere, sembra essere comunque un falso problema, giacché – oggi come allora – apparirebbe riduttiva una lettura dell’art. 30, comma 6 Tuf volta a circoscrivere l’ambito applicativo del diritto di ripensamento al solo accordo quadro iniziale e non anche ai contratti di investimento aventi ad oggetto la sottoscrizione o l’acquisto di strumenti finanziari che il cliente sollecitato pone in essere in attuazione del suddetto accordo. A tanto conduce una riflessione sulla circostanza che il contratto-quadro di collocamento (analogamente a quello di negoziazione in conto proprio, ma diversamente dal contratto di gestione di portafogli) in sé non determina l’effettuazione investimenti (in tal senso, condivisibilmente, le Sezioni Unite del 3 giugno 2013, n. 13905; in dottrina cfr. F. PARRELLA, Commento sub art. 30, in Il Testo Unico della Finanza, a cura di M. Fratini e G. Gasparri, Torino, I; 2012, pag. 496).

Fermo quanto sopra, resta tuttavia che il dato letterale non sembra superabile. Di qui consegue che il riferimento al collocamento (da intendersi nel senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore»: cfr. art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), nel quale è insita un’attività di sollecitazione, deve comunque indurre ad escludere la possibilità di applicare lo jus poenitendi ad operazioni di acquisto o sottoscrizione effettuate dal cliente nell’ambito di altri servizi (i.e. esecuzione di ordini per conto di clienti, ricezione e trasmissione ordini) con la sola eccezione, a partire dal 1° settembre 2013, delle operazioni di investimento poste in essere nell’ambito del servizio di negoziazione per conto proprio.

D’altro canto, l’assunto secondo il quale l’espressione “collocamento” sarebbe stata adoperata dal legislatore in modo ampio e generico, sembra smentito dal puntuale riferimento al contratto di gestione di portafogli individuale, il cui richiamo depone per la volontà del legislatore di circoscrivere l’ambito applicativo del diritto di ripensamento a soltanto due tipologie di servizi (divenute tre con la novella del 2013). E’ ragionevole immaginare che se il legislatore avesse voluto esprimere un generico riferimento alla “vendita” di strumenti finanziari, avrebbe potuto, più facilmente, prevedere l’applicazione del diritto di ripensamento a tutti i contratti stipulati fuori dalla sede dell’emittente e/o dell’intermediario anziché limitarla ai soli “contratti di collocamento” e di “gestione di portafogli” (con l’aggiunta, dal 1° settembre 2013, delle operazioni di investimento poste in essere nell’ambito del servizio di negoziazione per conto proprio).

Tale limitazione del resto (anche storicamente) risponde ad una precisa logica. Per quanto attiene alla gestione di portafogli, lo jus ponitendi viene offerto al cliente per soppesare meglio i rischi sottesi all’affidamento ad un soggetto terzo di somme e valori che questi dovrà gestire attraverso operazioni svincolate – in principio – da successive autonome determinazioni di volontà dell’investitore; per il collocamento – e adesso per la negoziazione in conto proprio – lo jus poenitendi è invece funzionale ad attribuire al cliente una “pausa di riflessione” che neutralizzi l’interesse dell’intermediario a “disfarsi” di titoli rispetto ai quali esso abbia, a monte, “obblighi distributivi” o un rischio di posizione da presidiare.

Ulteriore conferma in favore dell’interpretazione restrittiva deriva dal comma 8 dell’art. 30 TUF, il quale esclude espressamente l’applicabilità del diritto di ripensamento “alle offerte pubbliche di vendita o di sottoscrizione di azioni con diritto di voto o di altri strumenti finanziari che permettono di acquisire o sottoscrivere tali azioni, purché le azioni o gli strumenti finanziari siano negoziati in mercati regolamentati italiani o di Paesi dell’Unione europea”. Tale norma pone l’accento su due elementi rilevanti ai fini esegetici che sono: a) il riferimento alle sole “offerte pubbliche di vendita o di sottoscrizione”, che conferma, una volta di più, come il «terreno di coltura» per l’emersione dello jus poenitendi siano le attività sollecitatorie – l’offerta in vendita o in sottoscrizione – nel cui alveo rientra il servizio di collocamento; b) la non applicazione del diritto di ripensamento quando le suddette attività sollecitatorie abbiano ad oggetto strumenti quotati, rispetto ai quali l’istituto in parola si potrebbe maggiormente prestare ad usi distorti di tipo speculativo.

Entrambi gli elementi – ci pare – depongono in favore di un lettura restrittiva dell’at. 30, comma 6 TUF.

Detto questo, non vi è dubbio che la prassi operativa e il diritto possano anche rispecchiare “punti di vista” diversi. Peccherebbe, tuttavia, di apriorismo un’analisi giuridica che non mirasse a ricercare con il terreno prasseologico consolidato (non solo operativo, ma anche normativo, istituzionale e di pregressa interpretazione magistratuale) un denominatore comune. In questo senso non sembra potersi condividere l’affermazione della Cassazione secondo la quale “è la prassi commerciale a doversi adeguare alla legge per come interpretata dall’organo giurisdizionale di vertice, e non il contrario”: questo potrebbe valere per “prassi operative” che si collocano al di fuori del raggio di azione del legislatore, delle autorità di vigilanza e del controllo giudiziario, ma non certo per il caso in esame che ha visto maturare e consolidarsi per decenni, con l’avallo di autorevoli istituzioni e della stessa magistratura, un quadro di riferimento orientato in senso contrario a quanto affermato dalla Cassazione a far data dal 2013.

Non è così, insomma, che si re-indirizza una prassi giacché, in questo modo, si finisce solo per aumentare numero e livello dei problemi. Basti pensare in chiave retrospettiva, ai rischi di esercizio strumentale dell’azione di nullità su operazioni di investimento concluse fuori sede nella prestazione dei servizi di raccolta e di esecuzione di ordini, per la sola ragione che i moduli e i formulari,  a  tal  fine  utilizzati,  non  recavano  alcun  riferimento  al  diritto  di  ripensamento dell’investitore1; pro futuro, si pensi al rischio di interruzione delle attività fuori sede aventi ad oggetto servizi di investimento diversi dal collocamento e dalla negoziazione in conto proprio, per le incertezze legate alla mancanza di un’adeguata modulistica contrattuale ovvero a talune difficoltà operative in sede di esecuzione dell’operazione (si pensi in primis alle esigenze di market timing del cliente, frustrate dallo ius poenitendi) connesse alla sospensione dell’efficacia degli ordini impartiti e all’obbligo di attendere la scadenza del settimo giorno prima di poter legittimamente eseguire l’operazione.

Un ultimo profilo merita di essere considerato. La Cassazione nega recisamente che la novella dell’art. 56-quater abbia il valore di norma di interpretazione autentica e che, pertanto, la stessa abbia “avuto l’effetto di sanare l’eventuale nullità dei suddetti contratti, se privi dell’avviso al risparmiatore dell’esistenza del diritto di recesso e stipulati prima del 1° settembre 2013”. Ciò in quanto “se il legislatore avesse davvero inteso escludere il diritto di recesso per i contratti stipulati prima di settembre 2013, non avrebbe dovuto stabilire che il diritto “A” si applica ai contratti stipulati dopo: avrebbe dovuto sancire che il diritto “A” non si applica ai contratti stipulati prima”.

Del resto, soggiunge la Corte, “dell’interpretazione autentica mancava il primo e principale presupposto, ovvero la possibilità di letture contrastanti. Possibilità venuta meno proprio in seguito all’intervento delle Sezioni Unite più volte ricordato, alla luce del combinato disposto degli artt. 65 ord. giud. e 374 c.p.c”. Diversamente argomentando, chiosa il Collegio, dovrebbe presumersi che “il Governo, con l’emendamento introduttivo dell’art. 56 quater d.l. 69/2013, abbia avuto il poco commendevole intento di porre in non cale una sentenza delle Sezioni Unite, e scardinare in tal modo il principio di separazione tra i poteri dello Stato”.

Il monito sembra chiaro. Si è prima ricordato come lo scopo della “novella” fosse duplice: da un lato, venire incontro alle istanze sollevate dalle Sezioni Unite, estendendo l’ambito applicativo del diritto di ripensamento anche alle operazioni effettuate fuori sede dal cliente in contropartita diretta con l’intermediario; dall’altro, offrire – seppure in modo implicito e non in forma di interpretazione autentica – ragionevoli spunti per riferire lo jus poenitendi fino al 31 agosto 2013 ai soli servizi di collocamento e di gestione di portafogli. Tale approccio era finalizzato ad evitare un eventuale conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato ex art. 134 Cost.. Ebbene il sincretismo del legislatore non sembra aver incontrato il gradimento dei giudici di legittimità che evocano lo spettro del conflitto di attribuzioni, laddove il potere legislativo dovesse tornare sul tema imponendo, questa volta in modo più esplicito, il proprio punto di vista.

Così facendo, a parere di chi scrive, si è però spostato l’asse della questione, ponendo l’attenzione più su una pretesa interferenza del potere legislativo nella sfera di quello giudiziario, che non sui profili giuridici ed economici dell’intera vicenda.

Il risultato è che, more italico, ci ritroviamo al cospetto di una situazione di grande confusione ed incertezza, che è resa maggiormente complessa dagli opposti e contrastanti interessi in gioco: da una parte, quelli dei risparmiatori, che reclamano tutele crescenti in quanto contraenti deboli; dall’altra, quelli degli intermediari i quali paventano ingenti perdite.