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approfondimenti/politica economica
Il tempo dell’incertezza e le scelte delle banche centrali

All'incertezza delle relazioni commerciali e di quelle geopolitiche si aggiungono i timori sulla crescita economica che rendono più complicate le scelte delle banche centrali sulle due sponde dell'Atlantico. Mai come oggi prive di una forward guidance e improntate a una gestione fortemente discrezionale della politica monetaria

Giorgio Di Giorgio
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Il 2025 inizia all’insegna di una crescente incertezza globale, alimentata dall’irrompere della nuova amministrazione Trump negli USA e dalle esternazioni, spesso volute e a volte perdute, del neo Presidente e dei suoi più stretti collaboratori.

L’incertezza scuote le relazioni commerciali tra paesi, già in forte declino nei quindici anni che hanno seguito la grande crisi finanziaria e, ancor di più, nel post Covid e a causa  del riacutizzarsi delle tensioni geopolitiche, con l’invasione dell’Ucraina e i conflitti in Medio Oriente.

Esportazioni ed importazioni attendono la definizione precisa delle misure restrittive annunciate a raffica da Trump, in termini di dazi e quote, e il mondo sta ancora interrogandosi se, alla fine, prevarrà la visione pragmatica del nuovo segretario al Tesoro, Scott Bessent, che sembrerebbe privilegiarne un uso “strategico” e negoziale come “minaccia” per ottenere benefici commerciali e condizioni di vantaggio utili a sostenere lo sviluppo economico degli USA; piuttosto che quella più ideologica e dura del precedente responsabile del commercio estero nella prima amministrazione Trump (Bob Lighthizer), che invece mira a perseguire un più marcato isolamento dell’economia USA rifondandone la capacità manifatturiera, in buona parte ceduta e delocalizzata a partire dalla fine degli anni ’80.

Ma l’incertezza pervade anche le relazioni geopolitiche, inasprite dall’approccio imperialista di Trump, che rischia di legittimare non solo pretese eccessive da parte della Russia per porre fine al conflitto con Kiev, ma anche le mai sopite ambizioni egemoniche cinesi su Taiwan e l’ulteriore estensione della sua sfera di influenza nell’area asiatica. In questo contesto l’Europa è chiamata a reagire rapidamente (già una sfida!) anche alla annunciata riduzione della protezione militare offerta sin qui dall’alleato americano per non rischiare di diventare preda, in particolare in alcuni Stati di confine, di mire e aggressioni da parte dei nostri vicini più grandi, la Russia appunto, ma anche la Turchia.

Necessariamente, con l’incertezza commerciale e politica, monta una crescente incertezza fiscale, in relazione agli spazi effettivamente disponibili per sostenere sistemi economici che, seppur sembri al momento più lontano il fantasma di una nuova recessione globale, nel mondo industrializzato mostrano un andamento lento e solo di pochi decimali in terreno positivo, in particolare nella UE, dove da quest’anno tornano a mordere i vincoli del nuovo Patto di Stabilità e Crescita.

I bilanci pubblici hanno visto crescere il peso del servizio del debito, con gli aumenti nei tassi di interesse che hanno caratterizzato gli ultimi 3 anni. E la dinamica dei rapporti Debiti – PIL evidenzia con chiarezza che ogni singola decisione di stimolo (maggiori spese o riduzioni di entrate) debba essere valutata con estrema attenzione per non generare rischi di sfiducia nei mercati finanziari in grado di annullarne i benefici attraverso la richiesta di maggiori premi e oneri finanziari per il servizio del debito.

Il combinato disposto di questa notevole incertezza rende ovviamente più difficile il compito delle banche centrali, FED e BCE in primo luogo, che nel 2024 avevano iniziato ad allentare le condizioni monetarie restrittive adottate con una rapidità ed intensità senza precedenti nel 2022 per frenare il ritorno dell’inflazione dopo oltre 3 decadi di quiete, in parte addirittura connotati da non irrilevanti rischi deflazionistici.

Se, da un lato, la violenta stretta monetaria, già a partire dall’estate del 2023 aveva iniziato a mostrare confortanti segnali positivi in termini di una decisa riduzione dei tassi di inflazione, senza per questo indurre contrazioni nell’attività economica e, soprattutto, sull’occupazione, dall’altro questo percorso, nella seconda parte del 2024 iniziava a evidenziare sacche di resilienza che ostacolavano il pieno raggiungimento dei target delle banche centrali, stabiliti in tassi di inflazione vicini o pari al 2%.

Concorrevano a determinare questa resilienza le dinamiche di costi sostenuti nelle catene internazionali del valore e nella logistica dei trasporti di materie prime e beni intermedi, gli aumenti salariali che solo con ritardo miravano a recuperare il potere di acquisto perduto nel biennio 2022-23, i prezzi elevati nel settore dell’energia e, generalmente, nei servizi. In questo scenario, gli annunci della nuova amministrazione Trump hanno introdotto nuovi elementi di cautela, che le banche centrali stanno correttamente analizzando, dai due lati dell’Atlantico.

Negli Stati Uniti, dove l’economia ha continuato a performare in modo sorprendentemente positivo nel 2024 (con una crescita del Pil pari a circa il 2,7%), la FED ha sospeso il processo di riduzione dei tassi di interesse in attesa di comprendere gli effetti dell’introduzione delle misure commerciali aggressive annunciate dal Presidente e del mix di interventi fiscali di stimolo. Il livello attuale dei tassi di policy al 4,5% sembra coerente con l’esigenza di non mettere di nuovo a rischio la stabilità dei prezzi, pur evidenziando un trade off in termini di stabilità finanziaria dato il mantenimento di condizioni onerose per l’indebitamento di famiglie e imprese.

La dinamica macroeconomica più moderata attesa nei prossimi mesi potrebbe favorire un ulteriore, seppur limitato, allentamento delle condizioni monetarie negli Usa, ma solo in assenza di forti pressioni salariali indotte dalle politiche di contrasto all’immigrazione e di “pass through” del maggior costo delle importazioni che dovrebbe seguire l’imposizione di dazi e restrizioni al commercio internazionale di beni. Giustamente la FED ritiene doveroso attendere i dati dei prossimi mesi per “tarare” eventuali ulteriori riduzioni dei tassi, con una inflazione attualmente solidamente sopra il 3%.

Nell’Eurozona, le rilevanti difficoltà congiunturali riscontrate nei maggiori paesi, Germania, Francia e Italia, caratterizzate da crescita stagnante o asfittica, suggerirebbero di proseguire con decisione nella riduzione dei tassi di policy, oggi al 2,75%. Tuttavia, non possiamo dimenticare che, al contrario che negli USA, il “faro” della BCE è solo ed esclusivamente la Stabilità dei Prezzi, ancora non pienamente conseguita nella sua “rigida” definizione di un tasso di inflazione esattamente pari al 2%. Anzi, le dinamiche energetiche e salariali e il percepito “obbligo” morale di rispondere all’introduzione di dazi da parte degli USA introducono nuovi dubbi su un percorso di riduzione graduale dei tassi che solo fino a due mesi fa nessuno metteva in discussione.

La sensazione è che il Consiglio Direttivo arriverà alla prossima riunione prevista per il 6 marzo a Francoforte con più di una voce che chiederà l’avvio di una riflessione strutturata sul timing e l’entità di eventuali nuove riduzioni dei tassi, nonostante queste, dati alla mano, risultino ancora non solo opportune, ma necessarie.

In ogni caso, occorre sottolineare il prevalere di un approccio fortemente discrezionale nella gestione della politica monetaria da entrambe le sponde dell’Oceano Atlantico, come si è andato con forza affermando a partire dal ritorno dell’inflazione sulla scena mondiale nel 2022, dopo un decennio caratterizzato dall’adozione di regole di comportamento annunciate e seguite con precisione quasi maniacale e forte investimento nella forward guidance del mercato. Una guidance che oggi manca del tutto.

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