Osservatorio Banche
Il sussidio nascosto

Al posto dell'inconcludente battaglia contro gli extra-profitti, sarebbe il caso di occuparsi della rendita che, con i tassi in rialzo, le banche stanno lucrando sul deposito delle disponibilità liquide presso la Bce. Per di più con l'effetto singolare che il nostro Paese sta contribuendo alla remunerazione di banche di altri paesi dell’area euro

Silvano Carletti
Carletti

I consuntivi a settembre 2023 hanno confermato le dinamiche già ampiamente intraviste nelle precedenti rendicontazioni: margine d’interesse in grande crescita (+56% a/a per i 5 gruppi maggiori nazionali), con conseguente crescita dei ricavi operativi (+22%); andamento spesso poco brillante dei proventi non direttamente riconducibili all’intermediazione creditizia (-7%); quasi stabilità dei costi, altro consolidato punto di forza; ridotto flusso di accantonamenti a presidio della qualità del portafoglio prestiti. Nel complesso un incremento degli utili netti che a fine anno supereranno largamente quelli del 2022.

La congiuntura economica europea ed italiana è assai meno brillante di quanto ipotizzato nei mesi scorsi. Se i rischi per l’inflazione sono bilanciati, quelli per la crescita sono nettamente orientati al ribasso. Assumendo come riferimento lo scenario previsivo macro proposto nel Bollettino Economico dello scorso ottobre, la Banca d’Italia stima che nel prossimo biennio la redditività complessiva del sistema bancario possa registrare una flessione, pur mantenendosi ampiamente positiva. Ci si aspetta sia un indebolimento del traino del margine d’interesse per effetto di un graduale rialzo del costo della raccolta, sia un incremento del tasso di deterioramento dei prestiti.

L’esperienza insegna che il deterioramento della qualità del portafoglio prestiti segue in ritardo il deterioramento congiunturale. In effetti, nell’ambito delle imprese, per ora si registra solo un aumento molto limitato dei fallimenti e dei ritardi nei pagamenti, oltre a più numerose liquidazioni in bonis. I prestiti allo stadio 2, quelli per i quali si percepisce un aumento del rischio, seppure marginalmente sono addirittura diminuiti.

Preoccupante l’impoverimento qualitativo del portafoglio determinato dalla riduzione dei prestiti alle imprese medie e grandi a basso rischio, conseguenza non solo dell’indebolimento della congiuntura, ma anche della minore convenienza a rinnovare i debiti in scadenza. Nell’insieme, la Banca d’Italia ipotizza che il tasso deterioramento (rapporto tra nuovi prestiti deteriorati e prestiti regolari all’inizio del periodo) possa salire al 3,2% nel 2025 dall’attuale 1,1%, a causa soprattutto dell’aumento dell’onere del debito.

La questione dell’imposta sui cosiddetti extra-profitti è arrivata alle battute finali. Come prevedibile, le banche hanno scelto di sfruttare la possibilità di destinare a riserva non distribuibile un importo pari a due volte e mezza l’imposta dovuta. Una legge mal concepita e comunque scritta in modo inadeguato ha per ora prodotto un gettito fiscale praticamente nullo e parallelamente un danno reputazionale (imposta di fatto retroattiva).

La nuova riserva di patrimonio netto non può essere usata per distribuire dividendi ma può assorbire le perdite e di conseguenza può essere inclusa nel capitale CET1. Anche il rafforzamento patrimoniale attribuibile al provvedimento si prospetta però trascurabile, perché l’accrescimento della riserva sarà presumibilmente sostitutivo e non aggiuntivo rispetto a quanto già programmato dalle singole banche. In questa fase un rafforzamento patrimoniale non sembra neppure necessario, considerato che i ratio sono già adeguati (a fine giugno, il CET1 era a mediamente pari al 15,6%). Peraltro, le banche italiane hanno superato brillantemente l’ultima sessione di stress test (luglio 2023) condotti dalla Bce e dall’Eba (European Banking Authority).

Sia a livello nazionale sia a livello europeo non si intravede una seria ambizione a governare un sistema che nell’arco di 15 mesi ha visto i tassi di riferimento salire da 0 a 4,5 punti percentuali. Eppure qualche messa a punto sarebbe invece necessaria.

Un problema che stenta a trovare soluzione è quello della rilevante liquidità immessa negli scorsi anni dalle banche centrali nel circuito bancario con l’intento di facilitare il finanziamento delle attività economiche. Offerta a costo sostanzialmente nullo, questa liquidità in parte ha adempiuto alla sua funzione, in parte è rimasta nella disponibilità delle banche.

Negli anni della politica monetaria accomodante detenere liquidità in eccesso è stata per le banche causa di un onere non trascurabile perché il suo deposito presso la Bce era possibile solo accettando un tasso di remunerazione negativo. La svolta monetaria restrittiva e il ripristino di tassi positivi ha reso fruttifere queste giacenze, il cui ammontare nell’intera eurozona, dopo aver sfiorato i 4.750 miliardi (novembre 2022), risulta ora (fine ottobre 2023) sceso a circa 3.600 miliardi per effetto del rimborso di linee di credito agevolate non più riproposte.

Questa enorme disponibilità monetaria è distribuita tra tutte le banche dell’eurozona e la sua remunerazione contribuisce non poco al loro consuntivo, rappresentando quindi indirettamente un sussidio. Ai tassi ufficiali attuali la sua remunerazione annua ammonta a 140-150 mld l’anno, costo che è a carico della Bce e quindi pro-quota delle banche centrali che la supportano. Mentre la quota dell’Italia nel capitale della Banca centrale europea è appena inferiore al 14%, la titolarità italiana di questa massa di liquidità si ferma a circa il 6%. Quindi in questa fase il nostro Paese sta contribuendo alla remunerazione della liquidità in possesso di banche di altri paesi dell’area euro.

Si può aggiungere che nulla impedisce ad una qualunque banca di posizionare nel conto per le operazioni di deposito presso la Bce parte della raccolta che essa effettua presso la sua clientela, lucrando la non piccola differenza oggi rilevabile tra i due tassi di remunerazione.

Sono queste le rendite che sarebbe opportuno eliminare o almeno ridimensionare, anche perché causa di non trascurabili effetti sfavorevoli. Nelle attuali condizioni, mantenere risorse depositate presso la banca centrale è attività remunerata e priva di rischio. Ne deriva un disincentivo evidente sia all’offerta di credito sia alla sottoscrizione di titoli del debito pubblico. Per assicurare convenienza a queste due forme di impiego i tassi d’interesse per esse richiesti devono muoversi verso l’alto, effetto evidentemente indesiderato.

È una situazione che in assenza di interventi può durare a lungo. Disattivarla è problema non semplice, considerato che, da un lato questa volta le maggiori beneficiarie del fenomeno sono soprattutto le banche dei paesi del Nord Europa, dall’altro lato che la soluzione più spesso suggerita (aumento della riserva obbligatoria) potrebbe mettere in difficoltà non poche banche (la riserva obbligatoria è attualmente pari all’1% dell’ammontare dei depositi della clientela e dei titoli di debito con scadenza fino a due anni; dal settembre scorso la sua remunerazione è pari allo 0%).

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