Il sistema bancario europeo è ancora in convalescenza

Il sistema bancario europeo sta recuperando vigore ma non tutti i problemi sono risolti. La redditività prevalente resta ancora inadeguata e il consolidamento strutturale procede più lentamente di quanto necessario. In particolare, il risanamento del circuito bancario in Germania appare decisamente lontano dalla meta.

Silvano Carletti

Il sistema bancario europeo sta procedendo sulla strada del suo rilancio, un traguardoche tuttavia non appare ancora vicino. Il risultato del 2017 è più del doppio di quello dell’anno precedente ma due terzi di questo progresso sono riferibili a componenti straordinarie. Nella media del continente, il RoE (Return on Equity) al netto di queste componenti si posiziona poco al di sotto del 7%, 1,7 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente.

La dinamica dei proventi operativi è risultata complessivamente debole per il contenuto apporto fornito dall’attività di intermediazione creditizia e dal portafoglio titoli. Per quanto riguarda il rendimento ricavato dalle attività fruttifere le rilevazioni dell’EBA (European Banking Authority) mettono in evidenza che se da un lato la fase di discesa sembra esaurita, dall’altro lato ci si posiziona sui livelli minimi del triennio. L’andamento delle commissioni e il consuntivo dell’attività di trading hanno offerto una contenuta compensazione ma tendenzialmente solo alle banche di dimensioni maggiori e in prevalenza appartenenti ai tre principali paesi Ue (Francia, Regno Unito e Germania). Le 11 maggiori banche italiane considerate dall’EBA si distinguono nel panorama europeo per il significativo apporto dei redditi da commissione (35% circa del margine d’intermediazione a fronte di una media europea del 28%) e, viceversa, per il trascurabile contributo dei ricavi da trading (4% circa rispetto ad una media europea di 8,5% e ad un dato francese superiore al 15%).

La qualità del portafoglio prestiti ha registrato nel contempo un apprezzabile miglioramento, prevalentemente attribuibile alla dinamica del numeratore (ammontare dei finanziamenti irregolari). Secondo i dati EBA, infatti, una crescita del portafoglio prestiti europeo di circa il 3% si è combinata con una riduzione dei prestiti irregolari del 18%. Alla flessione di questo secondo aggregato partecipano tutti i paesi Ue ma decisivi sono i contributi di Italia (quasi 40% della contrazione totale) e Spagna (16%).

Il rafforzamento patrimoniale sollecitato dalla crisi del 2008-09 può considerarsi in gran parte completato. Nelle statistiche EBA, il CET1 ratio nella versione fully loaded risulta a fine 2017 pari in media al 14,6%. Al miglioramento del rapporto (all’11,5% a fine 2014) hanno contribuito in misura importante sia la crescita del numeratore (Core Equity Tier 1 capital) sia la riduzione del denominatore (esposizione a rischio). Il dato medio, già complessivamente positivo, si qualifica in modo ulteriormente favorevole per tre particolarità: nessuna banca è al di sotto dell’11%; il 25% delle banche che si trova nella condizione meno favorevole propone un valore del rapporto (in media) superiore al 13%; gli istituti collocati nella parte alta della distribuzione si posizionano (in media) al 20%. Tra i sette paesi al di sotto del valore medio figura anche l’Italia che però presenta una leva finanziaria (leverage ratio, rapporto tra totale attivo e patrimonio) più prudente di quanto in media riscontrabile nel resto della Ue (13,9 volte rispetto ad una media europea di 15, con la Germania al di sopra di quota 18).

La dinamica della crisi del 2008-09 ha in più casi sottolineato che la stabilità degli intermediari creditizi dipende in misura rilevante anche dal rapporto tra quanto erogatoa famiglie e imprese e quanto parallelamente raccolto da questo stesso tipo di clientela. L’acquisizione di un più prudente equilibrio tra i due aggregati è ancora incompleto. Il dato medio raggiunto comincia ad essere accettabile (117% a fine 2017) ma è espressione di un campo di variazione decisamente troppo ampio: il quarto degli istituti nella condizione più delicata, infatti, evidenzia (in media) un rapporto del 175% (192% a fine 2014).

All’indomani della crisi del 2008-09 è apparso evidente che il circuito bancario europeo avrebbe dovuto affrontare un impegnativo processo di ristrutturazione, processo che secondo molti osservatori che inevitabilmente avrebbe sollecitato una intensificazione delle operazioni di fusione e acquisizione. Si immaginava, cioè, una replica di quanto avvenuto tra la metà degli anni novanta e l’inizio di questo secolo.

É di fatto avvenuto il contrario. Dopo il 2008 è decisamente diminuito in Europa sia il numero sia il valore delle operazioni di M&A. Dalla lettura dei dati emerge che a mancare sono tanto le operazioni di aggregazione domestica quanto (in misura più ampia) quelle cross-border. L’ultima acquisizione transfrontaliera di un certo rilievo realizzata in Europa è stata quella completata (2015) dal gruppo spagnolo Banco de Sabadell (esborso di £1,7 mld) nei confronti dell’inglese TSB (totale attivo di £ 28 mld); se si restringe l’analisi alla sola area euro per trovare acquisizioni cross-border di importo pari ad almeno €500 mln bisogna risalire al 2011.

La moneta unica, la creazione di un passaporto finanziario europeo e più recentemente i progressi dell’Unione bancaria non si sono rivelati sufficienti per uno sviluppo di queste operazioni. A questi progressi si è contrapposta una crescente incertezza sotto il profilo strategico ed il permanere nel contesto europeo di una elevata eterogeneità sotto molti profili, a cominciare da quelli fiscale e legale.

La rarefazione delle operazioni di aggregazione sia domestiche che transfrontaliere può essere anche ricondotta alla percezione in molti paesi di un significativo eccesso di offerta del settore bancario (overbanking) che non troverebbe la sua fisiologica soluzione nell’uscita dal mercato delle banche in condizioni precarie. Ripetutamente le autorità europee hanno sottolineato che il permanere di questa situazione rende più difficile il raggiungimento di un adeguato livello di redditività per gli operatori bancari in sana condizione. La messa a punto del Single Resolution Mechanism sembra favorire questo processo di ordinata razionalizzazione. In effetti, lo scorso anno sono state completate alcune importanti operazioni di aggregazione in Spagna (Banco Popular) e Italia (Banche venete) miranti alla sistemazione di situazioni di crisi non più reversibile.

Pur essendo il migliore dell’ultima decade, il consuntivo reddituale delle banche europee si conferma anche nel 2017 ancora inferiore al costo stimato del capitale. Tra le banche oggetto delle rilevazioni EBA sono solo poco più di un decimo quelle che riescono ad ottenere un RoE a due cifre e che quindi sfuggono questo problema.

L’Italia è ancora lontana da questa condizione. Nel 2017 gli istituti di credito del nostro Paese hanno conseguito in media un RoE del 7%, sostenuto anche da componenti straordinarie. Al netto di questo contributo, il RoE sarebbe stato sensibilmente inferiore (4,1%), comunque ben superiore a quello dell’anno precedente (-5,7%). Pur in miglioramento, la situazione rimane ancora fragile come evidenziato da alcuni parametri: il valore mediano della distribuzione è pari al 2,5% e per un quarto degli intermediari il RoE è inferiore all’1%.

Il progresso conseguito nel 2017 si deve in misura significativa alla migliorata congiuntura economica che, tra le altre cose, ha favorito una significativa diminuzione del costo del rischio. La “pulizia” del portafoglio realizzata in media dalle banche italiane è decisamente significativa ma ancora insufficiente ad allineare il nostro Paese alla realtà europea.

Nello scenario europeo, oltre ai noti casi di Grecia, Cipro e Portogallo, tra le situazioni decisamente meno brillanti spicca ancora il caso tedesco: se si escludesse la Germania il RoE medio calcolato dall’EBA per le banche europee aumenterebbe in misura non trascurabile (da 6,2% a 6,9%).

Il circuito bancario tedesco presenta evidenti fragilità soprattutto tra gli operatori posti al suo vertice. A fronte di un attivo aggregato prossimo a €2.700 mld i 6 gruppi maggiori hanno conseguito nel 2017 un utile netto di poche centinaia di milioni di euro (€ 908 mln), correggendo solo in misura limitata il negativo risultato dell’anno precedente (-€2.100 mln). Questo modesto risultato è stato peraltro conseguito in un contesto economico nazionale complessivamente favorevole, circostanza che da tempo limita la formazione dei prestiti irregolari (in termini di stock al di sotto del 2% del portafoglio totale a fine 2017).

In questi anni il sistema bancario tedesco ha vissuto un intenso processo di ridimensionamento a cominciare ovviamente dai suoi operatori maggiori (rispetto al 2008 il totale delle loro attività ponderate per il rischio risulta ridotto di circa un terzo). Il risanamento richiesto dalla crisi del 2008-09 è avvenuto sempre per linee interne. Nel contesto tedesco di questa ultima decade l’unica fuoriuscita dal perimetro pubblico è quella di HSH Nordbank, un gruppo di medie dimensioni (attivo di circa €70 mld), recentemente acquisito da un pool di fondi d’investimento statunitensi dopo essere stato liberato dalle esposizioni deteriorate in essere verso il settore navale.

Le prospettive dei due operatori maggiori si presentano complessivamente incerte. Per il terzo anno consecutivo Deutsche Bank ha chiuso il bilancio in rosso (-€735 mln) portando così la perdita del triennio a sfiorare i €9 mld. Questo negativo risultato accompagna un processo di ristrutturazione in atto da tempo che ha determinato negli ultimi sei anni una riduzione dell’attivo totale di quasi €700 mld. Pur costituendo sotto il profilo dimensionale (€1.475 mld a fine 2017) il secondo gruppo europeo, nella valutazione di mercato Deutsche Bank rientra a fatica nelle prime 20 posizioni: la sua capitalizzazione attuale, infatti, è intorno ai €20 mld, dopo aver completato appena un anno fa un aumento di capitale di €8 mld, il quarto degli ultimi sette anni (per un totale di €30 mld). Ad appesantire la situazione del gruppo hanno contribuito non poco i numerosi rilievi ricevuti dalle autorità di controllo (in particolare statunitensi) che si sono tradotti in sanzioni per quasi $17 mld (quelli ancora da definire ammonterebbero a $2,5 mld). Il riposizionamento strategico che si intravede dopo il recente cambio al vertice sembra prevedere da un lato un tendenziale ridimensionamento dell’investment banking (settore di attività nel quale i gruppi europei non sembrano ben posizionati) con la conseguente riconsiderazione delle attività svolte negli Stati Uniti, dall’altro lato un parallelo rilancio dell’impegno in Europa. I recenti rilievi delle autorità statunitensi rendono più urgente questa svolta .

Commerzbank, da parte sua, ha vissuto un processo di ridimensionamento anche più intenso (dagli €844 mld del 2009 si è passati ai €452 mld dello scorso anno). I suoi risultati reddituali (€1,8 mld nell’ultimo quinquennio, con appena €156 mln nel 2017) appaiono meno negativi di quelli di Deutsche Bank, ma sono comunque modesti essendo espressi da un gruppo con un patrimonio di €30 mld. Nell’ultimo decennio ilgruppo non ha pagato dividendi (con la modesta eccezione del 2015) e la sua capitalizzazione attuale è appena al di sopra di €11 mld. Oggi Commerzbank si presenta in una discreta condizione patrimoniale, ha fortemente ridimensionato le sue esposizioni deteriorate verso il settore immobiliare e navale, sta reindirizzando la sua attività verso il comparto retail domestico. Nel 2008 il gruppo ha beneficiato di una ricapitalizzazione pubblica (bail out) che ha fatto dello stato tedesco il suo principale azionista (15%). Il governo vorrebbe rinunciare a questo ruolo ma l’operazione non si prospetta semplice: malgrado le ricorrenti ipotesi, in questi anni l’unica significativa novità nel suo azionariato è stato l’ingresso di un fondo statunitense che dall’ottobre scorso detiene una quota del 5%.

Al di sotto di questi due big player si posizionano le Landesbank, una categoria di operatori duramente colpita dalla crisi finanziaria del 2008-09 e successivamente oggetto di una intensa ristrutturazione. Di quelle rimaste solo poche hanno completato la restituzione dei fondi pubblici eventualmente ricevuti ed ancora meno mostrano una adeguata capacità reddituale (forse solo una).

In un suo recente rapporto, la Banca centrale tedesca segnala il determinarsi di una condizione di rischio legata al mutamento che si prefigura sul terreno dei tassi d’interesse. Per limitare le ripercussioni reddituali determinate dal prevalere di rendimenti finanziari modesti o anche negativi, nel recente passato molte banche hanno fortemente incrementato gli impieghi a tasso fisso a fronte di una raccolta nel cui ambito, al contrario, è fortemente cresciuto il contributo delle passività a più breve termine. Questa tendenza è riscontrabile in molti paesi ma in Germania assume toni decisamente intensi: secondo il documento predisposto dalla Bundesbank, infatti, gli impieghi con durata oltre i 5 anni superano l’80% del totale degli impieghi nel caso delle casse di risparmio e delle banche cooperative mentre si fermano al 47% quando si considerano le banche commerciali; parallelamente, per le prime (istituti generalmente di ridotta dimensione) le passività a vista oggi rappresentano il 60% circa della raccolta totale (36% nel 2007). Le casse di risparmio e le banche cooperative sono circa 1.450 istituti cui è attribuibile orientativamente un quarto dell’attivo totale del sistema bancario tedesco; il margine d’interesse contribuisce per quasi l’80% al totale dei loro ricavi. Consolidata caratteristica di queste banche è la grande capacità di raccolta resa possibile dalla capillarità della rete distributiva (più di 2 sportelli su 3 sono da loro controllati), un punto di forza che la generosa politica monetaria della Bce e l’inarrestabile diffusione della tecnologia digitale stanno appannando sensibilmente.