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Il rapporto Debito-Pil non è solo un problema italiano. Ma per noi è più complicato

La Sospensione dello Stability and Growth Pact è stata importantissima durante la Pandemia, ma ora andranno adottate nuove regole fiscali, con implicazioni stringenti sulle capacità dei singoli paesi membri di adottare politiche macroeconomiche di stabilizzazione. Sui paesi ad elevato debito ci sarà sicuramente un'attenzione forte. Sarà necessaria una piena responsabilità nella gestione delle finanze pubbliche, senza tentare di scaricare “sui vicini di casa" oneri impropri

Giorgio Di Giorgio
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Il bel volume di Economia Italiana curato da Lorenzo Codogno e Pietro Reichlin (Rethinking Debt Sustainability, Editrice Minerva Bancaria, 2022) offre una splendida occasione per rivisitare un tema di grande importanza, non solo per il nostro paese.

Tutti sappiamo quanto il rapporto Debito–Pil sia uno dei maggiori fattori di freno dell’economia italiana, uno dei più elevati al mondo e con una dinamica che purtroppo è stata fortemente determinata da 30 anni di performances di crescita insoddisfacenti del paese, più che da eccessiva “leggerezza nella gestione dei conti pubblici” (almeno appunto nelle ultime tre decadi).

A partire dal 1993, e con la sola eccezione del 2021 e del 2022 (finalmente… si potrebbe dire, ma dopo aver lasciato sul terreno circa un 10% del PIL nel 2020), l’economia italiana è cresciuta meno della media dell’Eurozona.

Le previsioni a lungo termine per il nostro paese, nonostante il contributo positivo del PNRR, non consentono di essere troppo ottimisti, si collocano tra lo 0,5% e l’1% nel 2023 e nel 2024.

Restiamo un paese rigido, seppure caratterizzato da un eccellente tessuto imprenditoriale per la parte fatta dalle medie imprese esportatrici di successo, ma ancora caratterizzato da un numero eccessivo di imprese troppo piccole, con difficoltà ad affermarsi e a crescere, che scontano problemi culturali e di qualità sia nella governance che nel management, con mercati dei capitali ancora sottodimensionati nonostante i progressi compiuti negli ultimi 10 anni, sia sul mercato obbligazionario privato che sul mercato alternativo (ex AIM ora Euronext Growth).

Il mercato del lavoro è caratterizzato da scarsa partecipazione femminile e dei giovani, e da elevata disoccupazione al Sud, nonostante le recenti notizie positive in termini di tenuta dell’occupazione e di un tasso di disoccupazione sotto l’8%, che per l’Italia non è male (ma solo perché storicamente siamo abituati a numeri ancora peggiori, si consideri che in media nell’Eurozona il tasso di disoccupazione è al 6,5%).

La burocrazia è ancora un ostacolo all’attività di impresa e il sistema fiscale rimane caratterizzato da tasse alte (per chi le paga), da iniquità diffuse e una moltitudine di eccezioni. Pesa ancora un forte ritardo infrastrutturale, su cui speriamo il PNRR riesca ad intervenire. Tutti questi fattori hanno indotto una produttività stagnante, che non ha tenuto il passo con quella dei principali paesi europei.

Ma soprattutto, abbiamo di fronte una dinamica demografica molto sfavorevole, di questo si occuperà il volume 3 della medesima rivista, che sarà presentato nelle prossime settimane.  

Il tasso di natalità è infatti tra i più bassi tra i paesi industrializzati (1,25) a fronte di quel 2,1 che garantirebbe un saldo neutro nella dinamica naturale demografica, abbiamo una popolazione in rapido invecchiamento, con una età media che supererà i 50 anni e un rapporto tra popolazione anziana (over 65) e giovane (under 14) che sarà pari a 3 a 1 entro il 2050.

Le stime Istat arrivano a prevedere cali consistenti della popolazione in Italia, assumendo flussi migratori coerenti con il passato. La popolazione rimane un forte driver di lungo periodo nella crescita economica. Una sua riduzione non giova affatto ad un paese molto indebitato. Il peso su ogni individuo del debito pubblico diventerebbe abnorme.

Occorre proseguire quindi con forza sul piano delle riforme strutturali e modificando la composizione della spesa sociale, cercando di inserire incentivi alla natalità, oltre che pianificando la creazione di nuovi posti di lavoro per attrarre flussi migratori adeguati e di qualità, necessari per sostenere la nostra economia e i nostri patti intergenerazionali.

Altrimenti, le dinamiche della spesa assistenziale e previdenziale costringeranno ad aggiustamenti fiscali rilevanti sia per rispettare eventuali obiettivi di medio – lungo periodo concordati con l’UE, che anche solo per stabilizzare il rapporto Debito–Pil, peraltro ad un livello probabilmente eccessivamente elevato e che comunque manterrebbe il paese pericolosamente in balia di shocks e crisi che l’esperienza recente ci ha insegnato essere fenomeni tutt’altro che sporadici. Ad esempio, Lilia Cavallari e Flavio Padrini dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, con i loro coautori, in uno dei contributi che saranno pubblicati sul nuovo volume della rivista Economia Italiana (il 3/2022, in uscita), stimano in un avanzo di bilancio primario pari al 4,5% lo sforzo da compiere per portare il rapporto debito – Pil al 100% in venti anni o al 60% in 40 anni!

Negli ultimi anni, le risposte di politica monetaria alle varie crisi che hanno colpito l’economia mondiale, l’assenza di inflazione e i tassi di interesse a zero o negativi avevano occultato agli occhi del grande pubblico e un po’ anche a quello dei policymakers, ossessionati da congiunture emergenziali, il tema del rapporto Debito–Pil.

Solo per fare una brevissima sintesi della storia recente, occorre menzionare gli enormi acquisti di titoli da parete delle banche centrali, non limitati a titoli governativi, tassi di interesse a zero o addirittura negativi per una grande parte della curva dei rendimenti, addirittura fino a 10 anni per il Bund tedesco e fino a 3-4 anni per i nostri Btp.

Anche durante la Pandemia, quando le politiche fiscali sono intervenute pesantemente per contrastare il doppio simultaneo shock di domanda e offerta ed evitare una contrazione ancora più severa di quelle osservate, generando disavanzi monstre e forti aumenti nei public debt-gdp ratios, i tassi di interesse si sono mantenuti bassi grazie alle politiche ultra accomodanti delle banche centrali che hanno inondato di liquidità i mercati.

È nel secondo semestre del 2021 che il mondo ha iniziato ad invertire la rotta, colpito dalla crisi energetica e dal ritorno dell’inflazione, sottostimato dalle banche centrali, e pochi mesi più tardi dalla forte incertezza prodotta dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, con rilevanti conseguenze in tema di rapporti geopolitici e creazione di ansie sopite da tempo.

Le banche centrali hanno reagito intensamente (ma con grave ritardo) al ritorno dell’inflazione e l’aumento dei tassi di interesse, ancora in progress, è stato molto rapido, alcuni sostengono anche eccessivamente rapido, visto il rischio di generare una recessione profonda e una nuova situazione di instabilità finanziaria.

Ovviamente, con l’aumento dei tassi di interesse e i rischi di recessione (che il Fondo Monetario Internazionale stimava a Ottobre 2022 riguardare quasi un terzo delle economie mondiali), il problema della sostenibilità del debito è tornato fortemente al centro del dibattito.

Ho iniziato a discutere di quanto il tema sia rilevante per l’Italia, ma occorre dire chiaramente che non è solo un problema italiano. 

Alcuni dati sui  rapporti debito – Pil nei paesi industrializzati sono utili a capire la dimensione del problema. Con la sola eccezione della Germania, questi numeri sono spesso raddoppiati negli ultimi 15 anni.

Negli USA il rapporto è salito dal 65% nel 2007 al 132% nel 2021; nel Regno Unito dal  41% al 95%, in Canada dal 67% al 112%, in Francia dal 64% al 112%, in Italia dal 104% al 151% e in Giappone  dal 172% al 263%.

Come noto, la dinamica del debito dipende dal differenziale tra il tasso di crescita dell’economia e il tasso di interesse medio a cui il debito viene servito, oltre che dalla capacità reale (ma anche percepita) di un governo di poter conseguire rilevanti avanzi di bilancio quando tale differenziale non è favorevole (“r” maggiore di “g”, indicando con la prima lettera il tasso di interesse reale medio e con la seconda il tasso di crescita del PIL).

I numeri per il Giappone sono davvero spaventosi, ma come negli Usa e in UK, a differenza di quanto accade invece nell’Eurozona, se si guarda al settore pubblico consolidato, la situazione è migliore, visto che oltre il 50% del debito è detenuto dalla banca centrale nazionale.

Nell’Eurozona, invece, una banca centrale interagisce con 20 autorità fiscali e la mutualizzazione del debito è ancora molto limitata. Per fare un esempio, circa il 25% del debito italiano è detenuto da Banca d’Italia, ma solo poco più del 3% dalla BCE. Nonostante I progressi compiuti verso la realizzazione di un nuovo spazio fiscale nella UE, con i programmi SURE e Next Generation EU, il bilancio pubblico comune è limitato e difficile da espandere in modo considerevole senza decisioni fortemente condivise in termini di ulteriore centralizzazione di poteri a Bruxelles, cosa che non sembra essere nei piani di molti governi nazionali.

La Sospensione dello Stability and Growth Pact è stata importantissima durante la Pandemia, ma non potrà essere mantenuta a lungo e nuove regole fiscali andranno adottate in Europa, con implicazioni stringenti sulle capacità dei singoli paesi membri di adottare politiche macroeconomiche di stabilizzazione.

Le nuove regole assegnano un ruolo determinante alla Commissione Europea, con cui i vari paesi devono concordare i piani a 4-7 anni di aggiustamento fiscale e di evoluzione del rapporto Debito–PIL.

Se, da un lato, il passaggio da rigide regole numeriche come quelle previste nel Patto di Stabilità a una maggiore flessibilità è da salutare con piacere, dall’altro non può non rilevarsi che, per i paesi ad elevato debito, ci sarà sicuramente un’attenzione forte e potranno generarsi delle asimmetrie relazionali all’interno della UE, che potrebbero rallentare il processo di integrazione fiscale appena avviato e quello politico, al momento non tanto di moda, in un contesto di crescente “ri-chiusura” e ri-frammentazione del globo. Si tratta di un rischio da evitare.

Senza una Europa forte, anche la Germania è destinata a contare di meno su una scena internazionale caratterizzata dal peso sempre crescente delle grandi economie emergenti. Di contro, una integrazione virtuosa e una forte coesione necessitano di una piena responsabilità nella gestione delle finanze pubbliche e di non tentare di scaricare “sui vicini di casa” oneri impropri.