Il portafoglio titoli è uno dei fattori che più differenzia le banche italiane dal resto del circuito creditizio europeo. Per le banche del nostro Paese ha una dimensione relativa decisamente maggiore, è composto in misura più ampia di titoli di Stato, e questi sono soprattutto domestici. Anche se non con l’urgenza sollecitata altrove in Europa, rientrare verso la media continentale è un passaggio auspicabile.
Il portafoglio titoli costituisce da tempo un terreno di evidente differenziazione tra i sistemi bancari europei. Nella media dell’eurozona, alla fine del 2018 questo voce dell’attivo rappresentava l’11,4% dell’attivo. A quella data il Belgio era al 15%, la Spagna al 16%. Il dato dell’Italia (17,3%) era una volta e mezzo il dato medio dell’area euro e sostanzialmente il doppio di quanto rilevabile per Francia, Paesi Bassi e Germania, tutti al di sotto della doppia cifra.
In tutti i paesi questa posta ha registrato una significativa contrazione. Assumendo come riferimento il massimo del periodo 2008-18 la sua incidenza nel totale dell’attivo è oggi nel caso dell’eurozona inferiore di circa 5 punti percentuali. In Germania e Francia la flessione è prossima a 7,5 p.p., in Olanda supera gli 8 punti percentuali. In Spagna la contrazione si ferma a 4 punti percentuali.
Rispetto al massimo toccato nell’agosto 2013 (23,7%) il valore più recente dell’Italia (17,3%) è inferiore di 6,4 p.p. Salvo qualche mese in cui prevale (di poco) il dato spagnolo, da gennaio 2012 il sistema bancario italiano è tra i principali paesi europei quello in cui l’investimento in titoli ha il peso maggiore nel totale dell’attivo.
Oltre che in relazione al totale dell’attivo, il portafoglio titoli ha subito un significativo ridimensionamento in termini assoluti. Assumendo come riferimento l’inizio del 2014, anno di avvio della ripresa economica, la contrazione a livello di intera eurozona ammonta a 1.235 mld di euro (-26%). Tra i paesi maggiori il fenomeno è relativamente più intenso in Italia (-32%), in Spagna e Olanda (-31%); viceversa è più contenuto in Francia (-20%).
Il dato sul portafoglio titoli comunicato dalla Bce può essere scomposto in tre componenti: titoli governativi, titoli emessi da istituzioni private non finanziarie (quasi esclusivamente imprese), titoli emessi da istituzioni finanziarie. Il contributo di ciascuna di queste sezioni alla composizione del portafoglio cambia sensibilmente da paese a paese.
Alla data più recente (dicembre 2018), i titoli pubblici avevano nel portafoglio dell’eurozona un peso del 41% ma in 7 dei 19 paesi dell’area non rappresentano la componente dominante. Rispetto al dato medio dell’area Francia (22%), Paesi Bassi (30%) e Germania (34%) sono su livello sensibilmente inferiore; al contrario, Spagna (57%) e soprattutto Italia (67%) sono su livelli decisamente più elevati.
Malgrado questo rilievo, la componente dei titoli governativi ha giocato nel processo di ridimensionamento del portafoglio titoli un ruolo importante ma non decisivo, conclusione già evidente a livello di intera eurozona dove nell’ultimo quinquennio la riduzione dell’ammontare dei titoli pubblici contribuisce solo per il 24% alla riduzione del portafoglio. Anche in Spagna la contrazione del portafoglio titoli non è principalmente riconducibile ai titoli pubblici. In Germania e Olanda i due fenomeni (riduzione dell’ammontare di titoli pubblici e riduzione del portafoglio titoli) si muovono con intensità poco diversa. In Belgio e Francia, invece, la riduzione dell’investimento in titoli pubblici attuata nel quinquennio (54% e 61%, rispettivamente) è fattore determinante della contrazione dell’intero portafoglio.
L’evoluzione dell’investimento in titoli pubblici delle banche italiane differisce nettamente da quanto rilevato negli altri principali paesi. Nell’arco del quinquennio 2014-18 la consistenza di questa sezione del portafoglio titoli è prima aumentata, ha raggiunto il massimo a metà 2016 per poi ridiscendere successivamente quasi con la stessa intensità, con il dato a fine 2018 appena superiore a quello registrato all’inizio del 2014. Combinando le informazioni fin qui fornite, ne deriva che se da un lato le banche italiane hanno operato nel quinquennio 2014-18 una riduzione del portafoglio titoli anche superiore a quella media dell’eurozona (32% vs 26%), dall’altro lato i titoli pubblici, che pure costituiscono i due terzi del loro portafoglio, non hanno contribuito in alcuna misura a questa evoluzione. Di conseguenza, nel quinquennio indicato si è determinato un aumento del peso relativo dei titoli pubblici nel portafoglio, fenomeno assente negli altri principali paesi dell’area euro con la sola eccezione della Spagna dove però la tendenza è molto più contenuta.
I dati messi a disposizione dalla Bce consentono di effettuare confronti credibili tra i diversi paesi dell’area euro. Differiscono però sensibilmente da quelli delle autorità monetarie nazionali. In particolare la consistenza dei titoli posseduti dalle banche viene indicata nelle statistiche europee facendo riferimento ai valori di mercato mentre le statistiche elaborate dalle banche centrali considerano il valore con cui questi titoli sono iscritti in bilancio. Tale valore può essere quello del costo ammortizzato, del prezzo di mercato o del fair value, a seconda del portafoglio in cui i titoli sono inseriti.
Nel suo intervento del 2 febbraio scorso il governatore Visco si è soffermato sulla dinamica del portafoglio in titoli di stato delle banche italiane. Dopo aver raggiunto il massimo tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016 l’investimento in titoli di stato ha cominciato a ridursi, un processo durato fino alla fine del 2017 quando l’ammontare di questi titoli iscritto in bilancio si è posizionato a ridosso dei 280 miliardi. Da allora questa esposizione è tornata a crescere arrivando a superare i 330 miliardi.
Se il portafoglio dei titoli di stato fosse totalmente (o quasi) riportato in bilancio al costo ammortizzato i riflessi derivanti dal mutare del rischio sovrano (e più in generale dal variare dei prezzi di mercato) sarebbero complessivamente contenuti. Nel corso del suo intervento Visco ha segnalato che la quota di questo portafoglio iscritta al costo ammortizzato è passata dal 18% rilevato alla fine del 2017 al 49% del novembre scorso, con le banche più importanti al di sotto di questo dato medio e le banche meno significative invece al 61% (in termini di attivo queste ultime rappresentano un quarto circa dell’intero sistema). La duration media del portafoglio è relativamente contenuta (di poco superiore ai 3 anni).
Ad attirare l’interesse sull’investimento in titoli di stato delle banche è anche l’ampia preferenza accordata ai titoli domestici (home bias), un fenomeno che nel corso del tempo ha mostrato intensità fortemente variabile: in significativo ridimensionamento negli anni successivi alla nascita dell’euro, in forte aumento dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008-09, di nuovo in tendenziale ridimensionamento negli anni più recenti. Per l’investimento in titoli di stato le disposizioni della regolamentazione patrimoniale stabiliscono da un lato un rischio nullo (coefficiente di ponderazione pari a zero), dall’altro lato l’assenza di qualsiasi limite di concentrazione (nessun tetto al loro possesso).
Il tema dell’ home bias è decisamente complesso. Prima di tutto non esiste accordo su come debba essere misurata. Generalmente si fa riferimento ad un indicatore “grezzo” definito dal rapporto tra l’esposizione verso i titoli di stato domestici e il totale dell’esposizione in titoli sovrani. Applicando questa metrica ai dati disponibili (fine 2014) tra i 19 paesi dell’area euro sono pochi quelli che sfuggono al problema (home bias al di sotto del 50%). Si è fatto però rilevare che questa definizione penalizza le banche dei paesi maggiori perché in linea di massima i titoli di stato di questi paesi si caratterizzano per disponibilità e liquidità decisamente superiore a quella degli analoghi titoli emessi da un paese di dimensioni contenute. Altri osservatori hanno fatto poi notare che la home bias andrebbe misurata come “distanza” rispetto al peso che i titoli di stato di un certo paese dovrebbero avere nel portafoglio “neutrale” di un investitore ovunque collocato. Se si adottano questi approcci “più evoluti” la misura dell’home bias risulta decisamente ridimensionata: per l’insieme dell’area euro, è pari al 74% se misurata con l’indicatore grezzo, scende al 58% con il secondo criterio e al 46% con il terzo. Il ridimensionamento risulta in genere più accentuato per i paesi maggiori. Tutti e tre i criteri pongono comunque Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sui livelli più elevati, Francia e Germania in posizione intermedia.
La presenza dell’home bias viene valutata con conclusioni di segno diverso. Secondo una parte degli osservatori si tratta di una caratteristica non favorevole perché durante le fasi di instabilità finanziaria può determinare un’interazione perversa (doom loop) tra rischio sovrano e rischio bancario con ricadute sulla stabilità finanziaria del paese coinvolto. Tra gli obiettivi assegnati al progetto di Unione Bancaria Europea c’è appunto quello di attenuare sensibilmente questo legame.
Sull’esistenza di questo legame ci sono poche obiezioni. Le tensioni sul mercato dei titoli di Stato determinano per il circuito del credito (quindi per l’intera economia) conseguenze apprezzabili: incremento dei costi della raccolta, riduzione del valore delle garanzie stanziabili presso l’Eurosistema a fronte di operazioni di rifinanziamento, impatto sui coefficienti patrimoniali per effetto delle variazioni di prezzo dei titoli di Stato valutati al fair value. Con riferimento a quest’ultimo effetto, una recente elaborazione della Banca d’Italia ha messo in evidenza che la riduzione dei corsi dei titoli di Stato verificatasi tra il dicembre 2017 e il settembre 2018 è responsabile di oltre la metà della riduzione del CET1 ratio osservata nello stesso periodo per l’insieme delle banche italiane significative.
La valutazione dell’home bias, tuttavia, presenta anche importanti sfumature positive. L’esperienza ha più volte dimostrato che una significativa presenza delle banche nella platea dei detentori di titoli di stato svolge un ruolo stabilizzante, contrastando le dinamiche speculative di breve termine e riducendo il rischio di episodi di panic selling. In secondo luogo, si fa notare che in molti casi (ad esempio, nei convulsi mesi del 2008) l’accentuarsi dell’home bias è stata conseguenza di situazione di instabilità dei mercati, e non viceversa. Anche la tesi che l’home bias incentiverebbe politiche fiscali più basate sull’indebitamento risulta spesso smentita dalle dinamiche reali: in più occasioni l’home bias delle banche è cresciuta più per effetto del disimpegno di altre categorie di investitori piuttosto che come riflesso di mutamenti nelle modalità di finanziamento della spesa pubblica. Infine, la disponibilità di titoli privi di rischio è ingrediente non secondario per il funzionamento di un circuito finanziario, per le banche e (forse in misura anche più rilevante) per le assicurazioni.
Tra i rappresentanti delle autorità monetarie europee, una parte ritiene opportuno ridimensionare questa tendenza. A questo scopo in modo informale sono state avanzate numerose ipotesi tra le quali quella di introdurre nella regolamentazione una soglia massima al rapporto tra esposizione in titoli di stato domestici e capitale regolamentare. Nella versione hard questa soglia non dovrebbe essere superata; in una versione più soft il superamento sarebbe sanzionato con la perdita della ponderazione zero per la parte dei titoli che eccede la soglia. Ancora più hard l’ipotesi di legare il coefficiente di ponderazione dei titoli di stato al rating attribuito al Paese, ipotesi che darebbe alle società di rating un evidente potere nel plasmare i flussi finanziari mondiali.
Essendo l’home bias fenomeno fortemente differenziato tra i diversi paesi, l’applicazione di questi criteri restrittivi produrrebbe effetti altrettanto differenziati con ricadute sfavorevoli non marginali per la stabilità finanziaria di numerosi paesi e in definitiva per l’intera eurozona. Secondo alcune analisi, si rischia di produrre effetti indesiderati superiori agli ipotetici benefici, una differenza che l’adozione di ampi periodi di transizione può mitigare ma non è detto riesca ad eliminare. Senza tacere che la soluzione non potrebbe essere circoscritta all’ambito europeo ma dovrebbe avere un respiro internazionale, per non distorcere uno dei comparti finanziari più competitivi e globalizzati.
Al lato di queste ipotesi di riscrittura della normativa, l’home bias può essere limitata dallo sviluppo di alcuni progetti di respiro europeo. E’ inseribile in questo capitolo, ad esempio, la proposta di emettere safe bond, cioè titoli aventi come sottostante i titoli pubblici di un’ampia platea di paesi. Si tratta di proposte che prevedono una certa mutualizzazione del debito pubblico dei diversi paesi europei. Fatta propria nel 2017 anche dalla Commissione Ue nell’ambito di un programma di rafforzamento dell’Unione, la proposta europea delle safe assets sollecita implicitamente la condivisione della sovranità fiscale, la costituzione di un ministero del Tesoro Europeo, la riscrittura dei trattati europei e la modifica della carta costituzionale di numerosi paesi. Tutti passaggi che presuppongono una vitalità del progetto europeo ben diversa dall’attuale.
Nel frattempo l’home bias nazionale sta subendo uno stemperamento verso una home bias europea. La normativa europea riserva un “trattamento preferenziale” non solo all’esposizione sovrana domestica ma anche a qualsiasi altra esposizione sovrana denominata in euro e quindi anche ai titoli di stato emessi da altri paesi europei. Una evidenza del processo di diversificazione del portafoglio indotto da questa norma lo fornisce periodicamente l’Eba (European Banking Authorithy) attraverso lo ”EU-wide transparency exercise”, una base dati ove è anche contenuta una dettagliata descrizione della composizione del portafoglio dei titoli sovrani delle 130 maggiori realtà bancarie europee.
Per approfondire il tema in esame si sono considerati 9 gruppi bancari europei di grande rilievo (2 francesi, 2 tedeschi, 2 spagnoli, 2 italiani, uno olandese). Ne emergono indicazioni sicuramente interessanti. A fine 2017 questi gruppi risultavano congiuntamente titolari di titoli sovrani per un totale di circa € 820 mld. Il 55% dei titoli in questo portafoglio risulta emesso da paesi dell’eurozona, percentuale che sale al 65% se si considera l’insieme dei paesi della Ue. Escludendo la tipica home bias (paese emittente e paese della banca capogruppo coincidenti) e quindi considerando quella che può essere definita una sorta di home bias europea le due quote si attestano su valori significativi, rispettivamente al 38,5% e al 52%. L’intensità della tipica home bias varia fortemente: è molto alta per le banche italiane (46-47%) e per quelle spagnole (36-37%) mentre è contenuta per le banche francesi e olandesi (al 14-16%) e ancor più per quelle tedesche (10-11%). Su queste rilevanti differenze pesa certamente il profilo dell’attuale congiuntura finanziaria che ha posizionato in territorio negativo i rendimenti finanziari di gran parte dei titoli pubblici degli ultimi tre paesi.
Sulla composizione del portafoglio dei titoli sovrani pesa in modo evidente anche l’articolazione geografica dei diversi gruppi: ad esempio, nel caso dei due gruppi francesi e di Deutsche Bank la componente statunitense è di assoluto rilievo (oltre un quarto dell’intero portafoglio di titoli sovrani); per i due gruppi spagnoli sono i paesi dell’America Latina e dei Caraibi ad avere un rilievo particolare (24-30%), titoli presumibilmente inseriti nei portafogli delle controllate operanti nella regione.