Il PD ovvero la sconfitta annunciata
Leonardo Morlino
MORLINO

Che il PD avrebbe perduto lo si sapeva. Ai dati pubblicati dai sondaggi si aggiungevano i commenti unanimi di quelli che si incontravano negli ambienti più diversi. Dopo il 4 marzo, del 40,8% delle ultime elezioni europee (2014) resta solo il ricordo e le illusioni coltivate. Ma alla fine perché il PD ha perduto in modo così netto? Con il senno del poi non è difficile richiamare subito quattro ragioni, connesse, ma ciascuna da sola sufficiente a spiegare la sconfitta e, quindi, se viste insieme in grado di spiegarne la gravità, oltre a darci qualche prospettiva sguardo sul possibile futuro che ci aspetta.

Innanzitutto, con la protratta Grande Recessione (2008-14) e dopo, in questi anni vi è stata una forte radicalizzazione politica, che si è espressa come protesta attiva, e assai poco come protesta passiva e alienazione. Infatti, da una parte, il voto moderato è sceso complessivamente al 35%, quando si considerano i risultati di Forza Italia, PD e +Europa (Bonino); dall’altra, l’astensione, sintomo di protesta passiva e alienazione, è cresciuta molto poco (2,3%). In un simile contesto di radicalizzazione un partito moderato, che non è neanche riuscito a monopolizzare quel voto – anzi si è trovato a subire l’attacco di Berlusconi – non ha scampo.

Secondo, si può ricordare che con tutti i propri limiti il PD era l’ultimo partito con elementi di organizzazione rimasto in Italia. L’evaporazione delle organizzazioni partitiche è un fenomeno europeo in corso da anni, sulla base di trasformazioni ideologiche, economiche, sociali e soprattutto tecnologiche con la rivoluzione dei media. Ma all’organizzazione che rimaneva nei territori il segretario ha ritenuto di dare un’ulteriore spinta ‘modernizzatrice’ per trasformare il PD in un attore collettivo direttamente collegato alla propria leadership e al proprio progetto politico. A parte rare eccezioni (ad esempio, De Luca in Campania) Renzi non sembra avere concluso altri accordi con esponenti del suo partito a livello locale. Anzi, la scissione del gruppo che poi si è ritrovato in Liberi e Uguali ha portato via anche altri pezzi di quello che rimaneva dell’organizzazione. Il successo delle ultime primarie nell’aprile dello scorso anno con il 70% dei voti ha confermato il cambiamento organizzativo e tolto motivazioni e spazio politico ai diversi leader locali.

Terzo, il partito si è però trasformato anche in termini di politiche e rapporto con il mondo del lavoro, a cominciare dai sindacati. A fronte della secolarizzazione ideologica e delle trasformazioni sociali iniziate già negli anni Settanta la sinistra europea aveva avuto una sua trasformazione, portando al successo ad esempio Tony Blair e il partito laburista al governo per un decennio (1997-2007). Ma anche l’Ulivo di Prodi si era incamminato in quella direzione in termini di politiche. In questo quadro, Renzi fa il passo ulteriore considerando i sindacati dei gruppi organizzati che al massimo possono essere consultati. Siamo in contesto di politiche neo-liberali in cui i sindacati non contano più nulla, anche se grazie a loro era stato possibile compiere il miracolo della stabilizzazione economica degli anni Novanta del secolo scorso assorbendo il terremoto partitico e poi entrando nell’euro. A oltre un decennio di distanza la Grande Recessione spinge ancora di più le élite di governo ad evitare la concertazione come un appesantimento politico inutile. Renzi primo ministro si fa l’interprete principale di questo andazzo mentre cerca di fare i conti con una situazione economicamente molto difficile.

In una ricostruzione, pur sintetica, non si può dimenticare un quarto aspetto. Quando si analizza in che cosa consista la leadership, si danno diverse definizioni, ma un elemento torna costantemente in tutte: un leader è chi riesce a unificare dietro di sé opinioni e posizioni anche molto diverse, che sono però accomunate dalla convinzione che quella persona sarà in grado di realizzarle tutte, per quanto possibile. Se ci chiediamo se Renzi sia stato un leader che rientra in questa definizione di leadership, non possiamo avere dubbi sulla risposta negativa. È stato un leader accorto, capace di capire bene come muoversi anche rispetto al Parlamento e al rafforzamento o solo mantenimento delle proprie posizioni, ma non certo un leader unificante. Anzi, l’essere divisivo è una sua caratteristica di fondo. E al momento non è chiaro se sia superabile nel nuovo contesto post-elettorale.

Quando ci si sposta dall’analisi politica alla politica, la chiarezza si dissolve. Certamente, quello che si è perso sul piano organizzativo non si ricostruisce più. Ma altri aspetti possono essere rivisti, però questo probabilmente comporta un PD oltre Renzi, che affronti una strada inclusiva in termini di politiche e di persone. Non ci resta che il classico: chi vivrà, vedrà.