approfondimenti/politica economica
Il passo delle banche centrali, il ruolo della politica

È vero che il passo seguito da Fed e Bce nell'aumento dei tassi può impattare molto negativamente sul clima economico e sui paesi più indebitati. Aumenti meno incisivi sarebbero preferibili. Ma l’indipendenza delle banche centrali rimane un “bene pubblico” da preservare. Per preparare la strada alla ripartenza serve quindi che la politica offra alle banche centrali sponde per un coordinamento efficace con le altre politiche economiche

Giorgio Di Giorgio
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Le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale di Ottobre stimavano che nel 2023 circa un terzo delle economie mondiali sarebbe entrato “tecnicamente” in recessione, vale a dire sarebbe stato caratterizzato da due trimestri consecutivi di riduzione del proprio prodotto interno lordo. In alcune uscite pubbliche a fine anno, esponenti di rilievo del Fondo hanno fatto intendere che questo scenario è ancora soggetto ad una elevata probabilità di ulteriore peggioramento, qualora non si risolvano le 3 rilevanti fonti di incertezza che hanno caratterizzato l’anno appena concluso: a) una resilienza rilevante nei tassi di inflazione in molti paesi, nonostante le politiche monetarie abbiano optato per aumenti rapidi e particolarmente intensi (seppur tardivi) dei tassi di interesse; b) il proseguimento del conflitto in Ucraina e la conseguente volatilità nei costi dell’energia; c) il perdurare di una situazione preoccupante nella diffusione del Covid 19, in particolare nelle aree dove è stata minore la disponibilità di vaccini efficaci, tale da rendere non scontata la sua definizione da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (pandemica o endemica).

L’Area dell’Euro rimane particolarmente esposta ad una congiuntura economica sfavorevole, data la prossimità al conflitto in Ucraina e la dipendenza esterna nell’approvvigionamento energetico di alcune tra le sue principali economie. Se è vero che nell’aggregato si iniziano a vedere segnali di contenimento dell’inflazione, a livelli tuttavia ancora elevati, la dispersione dei tassi di inflazione tra i paesi è rilevante e presenta ancora molti numeri a doppia cifra. In questo contesto, le prossime scelte di politica monetaria che attendono la Banca centrale europea non sono facili.

Il mandato assegnatole nel Trattato è chiaro e trasparente e impone il perseguimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi. Questo è stato nel 2021 ridefinito come il conseguimento di un tasso di inflazione riferito all’indice armonizzato dei prezzi al consumo uguale al 2%, con l’impegno di contrastare con identica determinazione (atteggiamento simmetrico) deviazioni positive o negative dallo stesso. Nessun riferimento è stato fatto ad una flessibilità consentita alla Banca centrale di mantenere tale obiettivo solo “in media” in un certo periodo di tempo, come invece ora esplicitamente consentito alla Federal Reserve, dopo la revisione della strategia di politica monetaria effettuata nell’estate del 2020.

Negli USA, tale revisione ha anche riguardato l’inversione, nella definizione del cosiddetto “dual mandate” della banca centrale, dell’ordine con cui sono elencati gli obiettivi di politica monetaria (“maximum employment and price stability”), un segnale di non poco conto. La BCE conserva invece l’originario approccio, ereditato dalla Bundesbank, che fu necessario per acquisire la partecipazione all’Unione economica e monetaria della Germania, la quale mantiene il mantra della stabilità dei prezzi come unico e imprescindibile riferimento delle decisioni di politica monetaria.

L’aumento dei tassi di interesse continuerà quindi in modo deciso fin quando le proiezioni a medio termine della banca centrale non evidenzieranno il traguardo di un tasso di inflazione al 2%. Tuttavia, le modalità con cui raggiungere l’obiettivo, e il necessario adeguato livello dei tassi di policy (3,5-4%?) non sono indifferenti e possono condizionare le decisioni degli agenti economici e la risposta delle principali grandezze macroeconomiche. Ulteriori immediati aumenti “a scaloni” di 50 basis points piuttosto che una serie di “gradini” di 25 avrebbero effetti diversi sul costo del debito (pubblico e privato) e sulla capacità di istituzioni, imprese e cittadini di programmare le proprie scelte e gestire i propri conti.

Gli aumenti nei tassi fin qui deliberati dalla Federal Reserve sono iniziati con un ritardo di circa 8 mesi rispetto alla crescita dei tassi di inflazione. Esattamente lo stesso percorso, con un ritardo di 6 mesi, ha caratterizzato le decisioni della BCE. La politica monetaria ha dunque seguito e non anticipato la dinamica dei prezzi, trovandosi poi a dover adottare incrementi dei tassi di interesse di intensità del tutto inusuale (negli anni ’90 e nel nuovo millennio mai la Federal Reserve aveva adottato aumenti superiori ai 50 basis points, lo stesso dicasi per la BCE nel suo più breve periodo di vita).

Aumenti intensi e molto ravvicinati dei tassi possono indurre sconforto e pessimismo ed impattare molto negativamente su strutture economiche altamente indebitate. Se per un verso la contrazione della domanda aggregata contribuisce a ridurre le pressioni sui prezzi, esiste un concreto rischio che si inducano crisi finanziarie e catene di fallimenti le cui conseguenze economiche e sociali sono difficili da prevedere e da contrastare. Queste preoccupazioni vanno giustamente rilevate e segnalate e sono certamente al vaglio delle autorità di politica monetaria. Non dovrebbero tuttavia essere sottolineate in modo strumentale o eccessivamente polemico da esponenti politici dei singoli paesi, naturalmente preoccupati dalle possibili conseguenze negative sui conti e sulla salute di un paese membro.

L’indipendenza delle banche centrali rimane un “bene pubblico” da preservare, anche in contesti difficili come quello attuale. L’azione “politica” dovrebbe cercare invece, diplomaticamente, di offrire sponde alle banche centrali per un coordinamento efficace con le altre politiche economiche. Un mix adeguato di riforme strutturali, politiche di bilancio rigorose seppure non restrittive e aumenti nei tassi di interesse meno incisivi e repentini, potrebbe guidare le economie europee ad un soft landing da cui poter far ripartire, nel secondo semestre dell’anno, il percorso di ripresa interrotto la scorsa estate. Scelte difficili, coraggio e visione di lungo periodo sono quindi necessarie sia a Francoforte che nelle principali capitali europee.

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