In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

Il nuovo mondo del credito

Le banche hanno sviluppato un ruolo di doppia intermediazione: negano prestiti diretti alle imprese, e li deviano verso intermediari che trasformano le disponibilità acquisite in partecipazioni al capitale delle imprese. Si crea così una distorsione che penalizza le imprese il cui controllo deve accettare le regole di governance della finanza d’impresa

Giuseppe G. Santorsola
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L’attività economica ristagna in Italia dai primi mesi del 2018, per motivazioni interne, per l’andamento delle economie comunitarie e globali e per motivazioni congiunturali e strutturali. Il quadro non è peraltro lineare e chiaro, combinandosi motivazioni per la crescita e altrettante per il rallentamento.

Sotto il profilo della disponibilità del credito bancario, la liquidità potenzialmente disponibile è elevata, ma non si indirizza verso il finanziamento delle imprese, giudicato rischioso in sé e non preferibile rispetto ad alternative verso i mercati finanziari corporate all’ingrosso, che preferiscono le aziende maggiori, i settori con alte prospettive di sviluppo, oppure azioni puramente finanziarie, sostanzialmente circolari. 

Gli stessi mercati dei capitali (quelli azionari) offrono da tempo ritorni giudicati interessanti nella loro combinazione rischio-rendimento, mentre i mercati obbligazionari restano condizionati dai bassi tassi d’interesse e dalla riconosciuta rischiosità del segmento corporate high yield.

Fonti alternative di finanziamento

Già da tempo, lo stesso Governatore della Banca d’Italia ha invitato esplicitamente gli imprenditori a ricercare fonti alternative di finanziamento, quale complemento nella composizione della loro struttura finanziaria. Il loro ottenimento costituisce, invero, un giudizio positivo sull’affidabilità complessiva rispetto all’intero mercato. E solleva le banche commerciali dall’onere di essere l’unica fonte di riferimento per la valutazione e per il finanziamento.

Il segmento delle PMI, componente quantitativamente dominante nel contesto italiano (non solo) restano spesso escluse nella distribuzione dei flussi, rendendo difficile la tradizionale e preferibile composizione della struttura finanziaria di queste imprese. Le migliori si indirizzano da tempo (con qualche ritrosia in termini di modifica della loro corporate governance) verso l’attività di private equity, la quale tuttavia a sua volta deve reperire fondi nel mercato del credito.

Quest’ultimo, attraverso detta soluzione, sviluppa un ruolo di doppia intermediazione negando flussi diretti alle imprese, deviandoli verso intermediari che trasformano le disponibilità acquisite in partecipazioni al capitale delle imprese. A questo livello si crea una distorsione che penalizza le imprese il cui controllo, familiare o comunque ristretto, deve accettare le regole di governance della finanza d’impresa, ancora spesso respinte o contrastate dall’azionariato tradizionale.

Gli effetti del nuovo scenario

Chi accetta il nuovo scenario, acquisisce risorse utili a finanziare il proprio sviluppo, governa per quanto possibile il conflitto con le proprie attese tradizionali, resta dominato dalle scelte in materia di utilizzo degli EBITDA realizzati. Subisce anche il disagio delle antiche componenti di partecipazione non esecutiva che ha dominato il mondo delle PMI familiari nel passato mediante la silenziosa presenza di soggetti interessati esclusivamente a dividendi o a cedole abbondanti garantite dai prestiti obbligazionari o dei finanziamenti sottoscritti dai soci.

Un mercato, certamente illiquido, che veniva accettato in cambio del rendimento e dei legami familiari consolidati in molte aziende, anche efficienti in termini di risultati. 

La silenziosità e la pazienza finanziaria di questi soggetti non è condivisa dai fondi di private equity e da altri investitori istituzionali. Alcune soluzioni strategiche ed organizzative dei mercati hanno cercato, spesso con buoni risultati, di governare questo cambiamento: 

  • i segmenti STAR e AIM di Borsa Italiana, 
  • l’azione del programma ELITE per la formazione e il tutoring di imprese che intraprendono un percorso di sviluppo organizzativo e manageriale per accedere al mercato dei capitali,
  • i minibond, in misura invero minore, negoziabili (non sempre in modo efficiente, ma con un’importante crescita nel 2019) nel segmento EXTRAMOT-PRO, 
  • meno efficace nel complesso, salvo l’iniziale riscontro del primo anno, è il campo coperto dai PIR, per i quali si deve scontare il triplice cambiamento della normativa in quattro anni.

Essi rappresentano modelli con ragionevole successo per imprese indirizzate verso la crescita ed il passaggio verso dimensioni medie. Non altrettanto, salvo eccezioni, si sono rivelate efficaci soluzioni per le imprese minori, obbligate dal proprio business o dalla volontà dei proprietari di mantenerne il controllo a rinunciare alla crescita e allo sviluppo di nuovi mercati

Il comportamento del risparmio gestito

I segnali provenienti dagli indicatori congiunturali più recenti sono contrastanti. I tassi free-risk negativi, la ricerca necessaria di rendimento, l’esigenza politico-economica di supportare la sopravvivenza di molte imprese e lo sviluppo di infrastrutture al passo coi tempi, suggeriscono al risparmio gestito di indirizzarsi verso soluzioni non tradizionali, non facili da far accettare ai risparmiatori fornitori della materia prima essenziale.

In primo luogo, sotto il profilo della product governance, si rende necessario superare il modello del fondo di investimento aperto ‘puro’, accessibile in ogni momento in entrata e uscita, che ha avuto il merito in trentacinque anni di avvicinare le famiglie italiane ad un investimento diversificato su azioni e mercati globali.

Il fondo compliant alla Ucits non è più idoneo per tutte le esigenze, va affiancato a fondi che richiedono pazienza e programmazione, sia nella fase di investimento che in quella di disinvestimento.

Servono fondi “ibridi”

Il perimetro del risparmio gestito non è più “binomiale” puro: fondi aperti per le famiglie, fondi chiusi per gli operatori istituzionali. Le stesse direttive comunitarie consentono scelte “miste”. È possibile, forse necessaria ed utile, la nascita di prodotti ibridi, con un diverso equilibrio tra liquidabilità del fondo e dell’investimento sottostante. Questo richiede una notevole professionalità dei gestori, una metrica raffinata dei modelli e portafogli ibridi nella loro composizione.

Altrettanto deve essere ricercato nell’area della distribuzione con un’importante sfida, forse la più difficile, per l’ancora molto composita categoria dei consulenti.

Costoro debbono affrontare la radicata abitudine dei risparmiatori a sottoscrivere e riscattare con continuità e libertà. Oltretutto, questa opzione viene esercitata senza oneri e, soprattutto senza condizioni di vincolo normativo. 

Almeno inizialmente sarà quindi difficile armonizzare l’asincronia fra gli holding period degli attivi e dei passivi degli intermediari del risparmio. Di fronte alle difficoltà si può prevedere che i risparmiatori si rifugino nei campi tradizionali dei fondi Ucits e della liquidità bancaria, mentre le imprese ricorreranno, appena possibile, al credito bancario. Scelte che rallenteranno il passaggio verso il nuovo scenario, soprattutto se l’ambiente economico restasse critico.

Verso scadenze più lunghe

Il vincolo del tempo, negli investimenti, non può essere imposto da vincoli indirizzati dalla Banca Centrale, tantomeno da scelte normative fuori dal tempo e non condivise da altri Paesi.

L’Italia paga in tal senso la storica assenza di intermediari indipendenti nel segmento del medio-lungo termine, la difficoltà nel raccogliere risparmio per questa scadenza (troppo dominata dai titoli di Stato) e la preferenza generalizzata delle banche nel finanziare le imprese maggiori e quelle più mature. Tre ostacoli difficili da superare senza lo sviluppo autonomo di intermediari dedicati al private equity e al private debt.

Sotto un profilo teorico, sembrerebbe più agevole lo sviluppo del secondo, il quale è peraltro ancora marginale, poco promosso e privo di soggetti intermediari di dimensione adeguata.

Se dobbiamo essere razionali, è necessario ricordare che per quarant’anni i risparmiatori hanno largamente preferito i titoli di Stato; dobbiamo chiederci quanto tempo sarà necessario per spostare la preferenza per scadenze più lunghe (apprezzate invero negli anni ’50-’74), dedicate ad infrastrutture ed edilizia (anch’esse ben finanziate negli anni citati) oppure, in modo innovativo, a micro-imprese, settori ad alta innovazione e tecnologia e, augurabilmente in misura non condizionante, a crediti deteriorati ed altri oggetti di cartolarizzazione.

Peraltro, mantenere la funzione tradizionale di finanziamento del capitale circolante e restare carenti nella copertura del capitale fisso è una scelta di puro mantenimento che non offre prospettive per il futuro. In Paesi concorrenti i due canali saranno invece in grado di garantire la copertura dei fabbisogni per le imprese con le quali si compete.

Ad oggi una valutazione pessimistica prevale ed incide sulla crescita futura del nostro sistema economico. Lo stimolo di buoni sviluppi “private” (equity and debt) può essere utile per spingere le banche verso nuovi approcci più idonei ai tempi.

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