Per MPS il tempo delle decisioni si sta avvicinando. Situazione complicata sotto ogni punto di vista, dalla debolezza patrimoniale alla scarsa redditività. Ecco tutti i fattori in campo e le soluzioni possibili
Il destino del Monte dei Paschi di Siena (MPS) è da tempo tema ricorrente nella stampa economica. Con l’avvicinarsi del 31 dicembre, termine ultimo stabilito dalla Commissione Europea per l’uscita dello Stato dal capitale della banca, questo rilievo è destinato ad aumentare.
Gli interventi lanciati finora sul tappeto provengono soprattutto da chi è più direttamente coinvolto nella vicenda (amministratori locali, dipendenti), titolari di interessi legittimi ma evidentemente non nella condizione di poter esprimere opinioni serene e condivisibili da altri titolari di interessi altrettanto legittimi (non ultima la platea dei contribuenti).
Parallelamente, l’opinione dei politici nazionali che hanno preso posizione sulla vicenda va considerata guardando alla polemica politica quotidiana. Molto frequente è una chiara nonchalance rispetto alle regole continentali e all’orientamento delle autorità europee, che si ritiene certamente e largamente rinegoziabili. L’unico punto acquisito da tutti è il definitivo accantonamento dell’ipotesi stand alone.
Negli ultimi 10 anni il MPS ha chiuso per 8 volte il suo bilancio in rosso, con una perdita complessiva di quasi 24 miliardi di euro. L’ultimo dividendo risulta pagato nel 2010. Nel 2017 è stata costruita un’operazione di rafforzamento patrimoniale di 9,7 miliardi, dei quali 4,3 miliardi a carico dei detentori di obbligazioni subordinate (convertite in azioni). I restanti 5,4 miliardi sono stati costituiti da una ricapitalizzazione precauzionale che ha portato lo Stato italiano a controllare il 64,2% del capitale del MPS. Da quest’ultimo intervento è derivata una fortissima diluizione degli azionisti esistenti la cui quota nel capitale è ora al 3%.
Ad appena 4 anni di distanza l’investimento pubblico risulta ampiamente evaporato. A fine settembre 2021 la capitalizzazione in Borsa del gruppo era pari a circa 1,1 miliardi. Il P/B (Price to Book Value, rapporto tra la quotazione di mercato e il dato contabile) si attesta a 0,19 a fronte di 0,38 per UniCredit, 0,42 per BPER, 0,68 per Intesa SanPaolo. Per memoria: nell’ottobre 2017 il MPS era a 0,48.
Il bilancio relativo alla prima metà del 2021 si è chiuso con un utile netto di 202 mln di euro, risultato modesto se rapportato alla dimensione del gruppo ma comunque diverso da quello del corrispondente semestre dell’anno precedente (-1.081 mln) e dell’intero 2020. È un risultato fragile, che non preannuncia alcuna svolta perché dovuto principalmente ad un andamento decisamente favorevole dell’attività di negoziazione (+87 mln), ad una forte riduzione dell’intervento a protezione del portafoglio prestiti (- 353 mln), con una contrazione del margine d’interesse ancora quasi a doppia cifra.
Della fragilità del risultato è ben consapevole la dirigenza del gruppo, che nel piano industriale 2021-2025 (presentato a gennaio) prospetta per l’anno in corso una perdita netta compresa tra 562 mln (scenario base) e 583 mln (scenario avverso). Appena più favorevole il consuntivo intravisto per il prossimo anno, ipotizzato in un intervallo che va da un utile di poche decine di milioni a una perdita di quasi 180 milioni.
L’esercizio di stress condotto dall’EBA nei mesi scorsi ha sancito ancora una volta la debolezza patrimoniale del MPS. Secondo la simulazione, nello scenario avverso il “Fully loaded Common Equity Tier 1 ratio”, calerebbe al 5,04% a fine 2021, al 2,47% a fine 2022 e addirittura a -0,10% a fine 2023.
L’esercizio, che non prevedeva alcuna soglia di riferimento, ha indicato chiaramente la necessità di una ricapitalizzazione per un minimo di 2,5 mld. Se si considera la carente copertura dei prestiti a rischio (soprattutto nel caso degli UTP, Unlikely To Pay) la ricapitalizzazione necessaria è ben superiore.
Nell’aprile scorso si è formalmente perfezionata l’acquisizione di UBI Banca da parte di Intesa, acquisizione realizzata prevalentemente nella forma “carta contro carta”, con un saldo in contanti solo residuale. UBI è un gruppo di dimensioni appena inferiori a quelle di MPS (totale attivo di 131 mld rispetto a 146 mld) e con attività similmente concentrata in pochi regioni italiane. Negli ultimi anni ha registrato un andamento complessivamente non brillante e qualche (contenuto) problema nel portafoglio prestiti.
Ben diversa la situazione del MPS fortemente prostrato da un pregresso di problemi di rilevantissima dimensione, che vanno dalla modesta qualità del portafoglio prestiti a un insieme di contenziosi legali che assommano a molti miliardi di euro. Non si tratta di problemi addebitabili alla sfortuna ma l’inevitabile conseguenza della modesta qualità del management e di un inadeguato funzionamento della struttura direzionale (forte di oltre 5mila dipendenti). Ugualmente deprimente l’operatività ordinaria: avendo come riferimento il consuntivo del primo semestre 2021, i ricavi per dipendente del MPS sono quasi la metà di quelli di Intesa e inferiori di circa un terzo rispetto a Bpm e Credem.
A fine luglio UniCredit ha chiesto di accedere alla data room per valutare una possibile acquisizione. La presa in carico di MPS da parte di un altro operatore bancario può ragionevolmente avvenire solo riconoscendo una cospicua dote a chi vorrà provare a sanare le carenze del gruppo toscano. Da parte sua l’azionista pubblico è certamente disposto a pagare un premio per liberarsi del problema, non solo per rispettare un impegno con l’autorità europea ma anche per salvaguardare la stabilità complessiva del sistema finanziario nazionale. Difficile stabilire qual’è il quantum che può mettere d’accordo compratore e venditore, decisione che ovviamente dipende anche dalle modalità della transazione (acquisizione totale o acquisizione delle sole parti “buone” del gruppo).
Sono numerosi coloro che ritengono che le indiscutibili debolezze del MPS sono in misura importante controbilanciate dalla possibilità di acquisire significative quote del mercato nazionale: 7,1% per gli impieghi a famiglie produttrici, 4,6% per i depositi a vista, 4,5% per i fondi comuni, 4,4% per i prodotti di bancassurance, etc. La drammatica carenza di compratori (UniCredit è finora l’unico) mostra la debolezza di questa tesi.
Due le possibili spiegazioni, che tra loro si integrano e rafforzano. La prima è che l’esperienza di questi ultimi venti anni, in Italia e nel resto del continente, dimostra che le acquisizioni sono operazioni faticose, con tempi di realizzazione lunghi e soprattutto dall’esito molto incerto. Quindi devono avere alla base motivazioni molto forti e coinvolgere operatori in buona salute, circostanza quest’ultima solo debolmente verificata per UniCredit, la cui capitalizzazione è attualmente metà circa di quella di Intesa.
La seconda spiegazione, altrettanto solida, è che la capacità di ricavo del sistema bancario appare da tempo indebolita e in numerosi segmenti d’attività in fase di regressione. Da qui anche per gli operatori più forti una scarsa propensione a comprare capacità produttiva addizionale. Una attitudine che solo una ricca dote finanziaria può mutare.
Di fatto, nel comparto bancario le operazioni di M&A sono da tempo decisamente poco frequenti (nell’ultimo triennio meno della metà di quelle completate dieci anni prima); in altri comparti finanziari (ad esempio, quello dell’asset management o della gestione dei circuiti di pagamento) dove le prospettive sono diverse il flusso delle M&A si mantiene vivace.
Per contrastare questa situazione sono scesi in campo autorità nazionali e istituzioni continentali. Nel caso di acquisizioni il governo italiano consente la trasformazione delle attività per imposte anticipate (deferred tax assets, DTA), ordinariamente compensabili a fronte di redditi imponibili futuri, in un credito d’imposta immediatamente utilizzabile in compensazione di altri tributi, cedibile a terzi o rimborsabile. Per molti operatori bancari italiani le DTAs sono una posta di importo rilevante (3 mld nel caso di MPS). Da parte sua, la Bce è intervenuta sul terreno normativo in modo che i progetti di integrazione non siano penalizzati sotto il profilo dei requisiti di capitale, consentendo, ad esempio, il computo della cosiddetta badwill ai fini patrimoniali.