Tra le numerose “sorprese” dell’ultima Legge sulla Concorrenza approvata in Parlamento figura una piccola regola di rilevanza epocale “nascosta” in un codicillo del testo (art. 1 commi da 136 – 140): si tratta della compiuta qualificazione civilistica del contratto di leasing.
E’ sufficiente sfogliare i propri libri universitari di diritto privato e civile, nelle sezioni dedicate ai contratti atipici, per ritrovare invariabilmente l’esempio del contratto di leasing, forse il parto più fecondo dell’esperienza dei cd. “nuovi contratti” e certamente uno degli esempi più classici tra gli schemi negoziali formalmente sconosciuti al Legislatore ma di larga applicazione sociale.
L’ultima Legge sulla Concorrenza, però, “sconfessa” quest’ultima certezza della didattica universitaria, approntando una disciplina tipica ed approfondita del contratto di locazione finanziaria (Legge 4/08/2017, n. 124, art. 1, commi da 136 – 140). Di seguito, quindi, si propongono alcune note relative a questa piccola rivoluzione del nostro ordinamento, per la verità passata un po’ sotto traccia nel mare magnum delle novità introdotte con la nuova Legge.
La definizione. In base alla nuova norma (comma 136), un contratto di locazione finanziaria è quello per cui “la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio, l’obbligo di restituirlo”.
La norma sembra identificare esclusivamente quella fattispecie nota, in dottrina ed in giurisprudenza, come “leasing finanziario”, mentre non sembrano riconducibili alla definizione i casi, pure noti alla prassi, di “leasing operativo” che, secondo un orientamento, consistono nella messa a disposizione di un bene da parte dello stesso produttore, secondo uno schema negoziale bilaterale e non trilatero (in tal senso, ad es., v. Cass. civ., sez. III, 28/10/1983, n. 6390, Trib. Milano 19/05/1980). Nonostante quanto precede, in prima analisi il leasing operativo sembrerebbe comunque ammissibile nel nostro ordinamento (come lo è stato sino ad oggi nella sua veste di contratto atipico, veicolato nel nostro ordinamento per il tramite dell’articolo 1322 c.c.).
Maggiori implicazioni potrebbero però evidenziarsi in relazione ad un’altra suddivisione affermatasi in giurisprudenza (e piuttosto discussa), cioè quella tra leasing c.d. “di godimento” e leasing c.d. “traslativo”, in particolare circa le regole applicabili in caso di risoluzione (ma al riguardo v. meglio infra).
Infine, niente si dice con riguardo alla fattispecie complessa nota come “sale and lease back”, in cui generalmente un bene di proprietà di un soggetto viene ceduto ad un acquirente e successivamente concesso in locazione finanziaria allo stesso cedente originario, e che pure entro certi limiti è ritenuta ammissibile nel nostro ordinamento.
Le parti. Il contratto di leasing è un contratto la cui stipula è riservata, da un lato, ad una categoria definita di operatori qualificati: il leasing c.d. finanziario, infatti, in linea con l’indicazione della giurisprudenza, ha funzione di finanziamento (cfr. ad es., Cass, civ., sez. III, 15/10/1988, n. 5623), ed il ruolo di concedente (lessor) è quindi riservato agli operatori professionali del credito (i.e., banche ed intermediari iscritti al registro 106 TUB). Il tema meriterebbe un approfondimento perché, in verità, la legge italiana già riservava l’attività di concessione di crediti mediante locazione finanziaria ad una platea di soggetti ristretta.
Infatti, in tal senso il D.M. 53/2015, tra le altre cose, ricomprende la concessione di leasing nella nozione di “attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, nell’accezione di cui all’articolo 106 TUB. Il leasing era quindi già ricompreso nella nozione di attività riservata, il cui esercizio integra la condotta dell’abusiva attività finanziaria di cui all’articolo 132 del TUB (art. 2 del citato DM).
In realtà, lo stesso DM specificava anche in quali ipotesi la concessione di crediti (e quindi, si deve dedurre, anche la concessione di leasing) non costituisse attività “esercitata nei confronti del pubblico” e quindi lecita, prevedendo alcune ipotesi espresse, tra cui la c.d. operatività “infragruppo” (art. 3 del DM).
Se quindi vogliamo attribuire un senso alle parole del Legislatore (e, peraltro, le nuove disposizioni hanno rango di legge, e quindi prevalgono senza dubbio sulla disciplina regolamentare del DM), allora dobbiamo concludere che la nuova definizione di leasing innova il quadro normativo precedente vietando senza dubbio a soggetti diversi da banche ed intermediari finanziari, in ogni caso, la sottoscrizione di tale tipo contrattuale dal lato del concedente.
Alla stessa conclusione deve arrivarsi anche con riguardo a quelle ipotesi (per la verità più discutibili e, probabilmente, di minore rilievo pratico) relative alla gamma di intermediari non bancari e non finanziari abilitati alla concessione di finanziamenti (tra cui compagnie assicurative, veicoli di cartolarizzazione, fondi di credito): in tutti questi casi, l’espressa abilitazione concessa dalla legge ad erogare “finanziamenti” dovrà ritenersi interpretabile in un senso più restrittivo (e certamente non ricomprendere l’attività di concessione di leasing).
Finanziarietà del contratto ed allocazione del rischio. Il nuovo leasing viene rappresentato come un contratto avente natura finanziaria e, conseguentemente, gravano sul locatore tutti i rischi derivanti dall’esecuzione, (e.g., l’evizione, il rischio di perimento del bene, i danni arrecati a terzi in costanza di esecuzione del contratto) in linea peraltro con l’indicazione caratteristica della prassi e di quanto contenuto nella generalità dei formulari correntemente utilizzati.
La definizione del leasing prevede poi, invariabilmente, l’esistenza di un’opzione in capo all’utilizzatore, opzione che per la verità caratterizzava la fattispecie anche nella sua precedente vita di contratto innominato. Al termine della vita del contratto, quindi, l’utilizzatore ha la facoltà di riscattare il bene ad un prezzo determinato ovvero restituirlo.
Risoluzione per inadempimento. Molto interessante è la previsione introdotta dal Legislatore di “inadempimento qualificato” che determina la risoluzione del contratto (con conseguente restituzione del bene secondo le modalità descritte dalla Legge – comma 137).
La soluzione normativa sembra ricalcare alcune precedenti esperienze nel settore finanziario (da ultimo, la risoluzione qualificata nel contratto di mutuo fondiario – art. 40 TUB – e l’inadempimento qualificato in materia di patto marciano nei contratti di credito immobiliare ai consumatori – art. 120 quinquiesdecies TUB) e qualifica come “grave”:
Al verificarsi dell’inadempimento qualificato, il concedente può chiedere la risoluzione del contratto (sembra plausibile che l’inadempimento individuato dalla legge possa costituirne clausola risolutiva espressa), ha diritto alla restituzione del bene ma al contempo, secondo una disciplina che in parte ricalca le norme fallimentari, deve procedere alla vendita del bene oggetto di leasing.
Il concedente può infatti vendere il bene originariamente concesso in leasing ma deve anche restituire all’utilizzatore un valore pari al ricavato di tale operazione, dedotti:
Ove il valore della vendita sia inferiore alla somma dovuta ai sensi di quanto precede, il concedente mantiene il diritto di credito verso l’utilizzatore per l’eccedenza (comma 138).
Data la natura dei beni generalmente oggetto di leasing (e.g., immobili, autovetture, etc.) il Legislatore prevede espressamente che il concedente venda il bene sulla base di valori di mercato, ottenuti sulla base di soggetti specializzati (e.g., le rilevazioni dei valori delle autovetture usate da parte di riviste di settore) (comma 139). Il dossier di accompagnamento redatto dagli Uffici Studi delle Camere chiarisce che la vendita debba avvenire sulla base “di criteri di celerità, trasparenza e pubblicità” (che, per la verità, non si rinvengono nella lettera della Legge).
Ove non sia possibile individuare immediatamente un valore “di mercato”, il Legislatore prevede una procedura di stima operata da un perito “indipendente” scelto di comune accordo tra le parti (comma 139).
In assenza di accordo, si dispone una regola “di salvaguardia” che impone la scelta, da parte del concedente, sulla base di una rosa di tre nominativi comunicati in precedenza all’utilizzatore (che ha a disposizione 10 giorni di tempo per esprimere una preferenza).
Osservazioni in tema di risoluzione.La nuova disciplina della risoluzione costituisce un’innovazione molto importante nel settore del leasing, che fino ad oggi aveva vissuto un dualismo, di invenzione giurisprudenziale e pure contestato in dottrina, tra leasing “di godimento” e leasing “traslativo”.
In estrema sintesi, secondo un’impostazione più volte confermata dalla Suprema Corte, nel leasing c.d. “di godimento” il canone dovuto rappresentava un corrispettivo del finanziamento a scopo di godimento del bene per una durata prestabilita, mentre nel leasing c.d. “traslativo”, il canone aveva natura di corrispettivo del futuro trasferimento ed aveva quindi la funzione di scontare una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto; di conseguenza, alla scadenza del periodo fissato, il bene avrebbe conservato un valore residuo particolarmente apprezzabile, notevolmente superiore al prezzo di opzione (in questi termini v. Cass. civ., sez. III, 30/09/2015, n.19532).
La differenza sopra esposta assumeva un rilevo cruciale poiché solo al leasing traslativo si riteneva applicabile l’articolo 1526 c.c. in materia di vendita con riservato dominio, il quale prevede la restituzione dei canoni riscossi, salvo il diritto per il concedente ad ottenere “un equo compenso” per l’utilizzo del bene oltre al risarcimento del danno. Il leasing di godimento si riteneva invece regolato dalla previsione generale di cui all’articolo 1458, comma 1, c.c. (dunque con irripetibilità dei canoni sino a quel momento versati).
Una volta operata questa distinzione, restava poi da determinare l’ammontare dell’ “equo compenso” e del risarcimento del danno, in misura tale da bilanciare le reciproche posizioni delle parti. In tal senso, si poteva sino ad oggi sostenere che tale importo fosse pari, complessivamente, a quanto il concedente avrebbe ricavato in caso di esatta esecuzione delle intese originarie (così, ad es., Cass. civ. sez. III, 17/01/2014, n. 888; Trib. Milano, 26/01/2016).
La riforma, oltre a chiarire il presupposto della “gravità” dell’inadempimento, supera alcune delle questioni sopra richiamate determinando un percorso certo ed ordinato per la definitiva composizione dei rapporti tra le parti. La soluzione adottata aderisce, nei fatti, alla ricostruzione affermatasi in giurisprudenza, con l’obiettivo di operare un bilanciamento tra l’aspettativa del concedente alla sua remunerazione e l’interesse del conduttore a non vedere svilito l’impegno economico profuso con la corresponsione dei canoni.
Allo stesso tempo, però, la legge non riconosce in alcun modo la citata separazione tra leasing di “godimento” e “traslativo” e quindi, anche ove il contratto sia finalizzato al godimento del bene ma ricada comunque nella fattispecie descritta al comma 136, sembra integralmente assoggettabile alle nuove regole, tra cui quanto espressamente previsto in materia di risoluzione del contratto. Non troverebbe più applicazione, quindi, la regola giurisprudenziale che non contemplava la restituzione dei canoni già corrisposti nel caso del leasing di “godimento”.
Altre norme applicabili. Le norme esistenti in materia di leasing non sono state modificate alla luce della nuova riforma. Restano quindi in vigore, tra le altre, le regole già dettate in settori specifici quali, ad es. quello fallimentare (cfr. artt. 72-quater, 169-bis L.fall.), del credito ai consumatori (art. 121 ss. TUB) e fiscale, elaborate in precedenza, alla scopo di approntare regole che tenessero conto delle peculiarità del fenomeno (comma 140).
Da ultima, si segnala la recente regolamentazione del c.d. “leasing immobiliare abitativo” destinato alle giovani coppie (cfr. artt. 1, commi 76 – 81 della L. 208/215), un set di norme di ridotto successo pratico e facente perno sulla sottoscrizione di un contratto di locazione finanziaria avente ad oggetto immobili da adibire ad abitazione principale, in relazione al quale la Legge sulla Concorrenza dispone una stringata norma di collegamento.
Qualche considerazione finale. Il Legislatore procede in un percorso encomiabile di chiarificazione, trasponendo nella lettera della legge alcune soluzioni per la verità già affermatesi nella prassi negoziale.
Allo stesso tempo, però, residuano alcuni dubbi interpretativi, legati più che altro al recepimento delle scelte legislative in un contesto di approfondita elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ed elevato uso pratico dello schema negoziale. Ad una prima analisi, quindi, possono proporsi le osservazioni che seguono: