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Il futuro della politica monetaria? La riposta nei dati dei prossimi mesi

Nell'ultima riunione, la Fed ha ammesso che la robusta ripresa economica in atto fa ritenere plausibile l'anticipazione della normalizzazione degli interventi di politica monetaria al 2023, se non prima. Se entro fine anno si consolideranno i progressi recenti, la Fed inizierà a levare, con calma, il piede dall’acceleratore della sua macchina di acquisto di titoli, riducendo il ritmo degli stessi per due o tre trimestri consecutivi, in un contesto di tassi a breve invariati

Giorgio Di Giorgio
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La recente riunione del Federal Open Market Committee (16 giugno 2021), pur ribadendo l’orientamento espansivo nel breve termine dell’azione della banca centrale più potente del mondo, ha annunciato la possibilità di un rientro più rapido di quanto sin qui immaginato dall’attuale regime. 

Si tratta di un tipico esempio di forward guidance, uno dei nuovi strumenti non convenzionali di policy entrati stabilmente nell’arsenale delle banche centrali dopo la grande crisi finanziaria originata dai mutui subprime del 2007-08. In sostanza, la FED, pur mantenendo nella forchetta tra 10 e 25 basis points i tassi sui federal funds e continuando ad espandere il proprio abbondante bilancio con acquisti di titoli per 120 miliardi di dollari al mese, ha dichiarato che la robusta ripresa economica in atto, associata ai miglioramenti dell’occupazione e un rinnovato dinamismo nei prezzi di beni e materie prime, fa ritenere plausibile anticipare il percorso di normalizzazione degli interventi di politica monetaria al 2023, se non addirittura prima. 

L’addirittura dipende ovviamente da quello che i dati macroeconomici indicheranno nei prossimi mesi. Non c’è dubbio che i progressi nella campagna vaccinale, associati agli effetti espansivi degli ingenti interventi di politica monetaria e fiscale, facciano intravedere la possibilità di un più rapido ritorno a condizioni normali ben prima del precedentemente atteso 2024. Questi sviluppi sono già anticipati nei tassi a lungo termine sui titoli di stato americani che hanno rapidamente recuperato terreno e portato a una maggiore inclinazione positiva della curva dei rendimenti US, ancora invertita nel 2019, quando, nonostante l’assenza di riferimenti alla futura crisi pandemica, il rallentamento dell’economia globale segnalava rischi di una imminente recessione. 

Le previsioni di crescita per il 2021 dell’economia USA sono in rialzo e sfiorano il 7%.  Se rimangono presenti segnali di perdurante debolezza nei settori più colpiti dal COVID, che non consentono di considerare completamente superati i rischi downside per l’attività economica, le ultime settimane hanno sorpreso per miglioramenti concreti nel mercato del lavoro e, soprattutto, per una dinamica dei prezzi particolarmente sostenuta.  

Il nuovo mandato “duale” della FED, centrato su occupazione e stabilità dei prezzi, identifica in una inflazione “in media” al 2% nel medio termine il riferimento della politica monetaria. In aprile e maggio, l’inflazione core, depurata dalle componenti più variabili dell’indice generale dei prezzi USA, si è mantenuta sensibilmente sopra questo livello. La FED ha dichiarato di poter accettare temporaneamente una dinamica simile, dato il lungo andamento precedente inferiore al 2% osservato dal tasso di inflazione, ma è naturale che questa situazione non possa durare in eterno.

Già a fine 2015, la FED abortì un primo tentativo di normalizzazione di policy, probabilmente prematuro, e solo dalla metà del 2017 e per tutto il 2018 riuscì a far tornare i tassi di policy intorno al 2%, con una serie graduale di rialzi, prima di interrompere il processo a causa appunto del rallentamento globale indotto dalla guerra commerciale con la Cina e dalle diverse incertezze politiche connesse alla Brexit, alle nuove elezioni del Parlamento europeo nel vecchio continente e all’avvicinarsi della sfida per le presidenziali negli USA. 

Che cosa è quindi lecito attendersi nei prossimi mesi? 

Credo che il percorso decisionale di Powell e compagni sarà caratterizzato da un attento monitoraggio dell’evoluzione del quadro macroeconomico e sanitario. Se entro fine anno si consolideranno i progressi recenti, la Fed inizierà a levare, con calma, il piede dall’acceleratore della sua macchina di acquisto di titoli, riducendo il ritmo degli stessi per due o tre trimestri consecutivi, in un contesto di tassi a breve invariati.

Aspettative di inflazione superiori all’obiettivo di policy continueranno a scaricarsi sulla parte medio-lunga della curva dei rendimenti, aumentando la pressione dei falchi a interrompere l’espansione del bilancio e a considerarne una prima iniziale riduzione anche contestualmente al primo aumento dei tassi a breve. Questo, a oggi, è ancora dato per probabile solo nel 2023, ma nessuno si sente più di escludere un anticipo a fine 2022.

Lato mercato del lavoro, bisognerà valutare l’efficacia dei percorsi di formazione e riqualificazione professionale necessari per consentire lo spostamento di migliaia di lavoratori da settori in crisi che rimarranno almeno in parte molto ridimensionati anche nel post-Covid, verso nuove opportunità.

Il Covid ha agito come un violento acceleratore di dinamiche già in atto nel mondo della produzione e della distribuzione di beni e servizi. Il nuovo mondo non rappresenterà un semplice ritorno al passato, di questo occorre piena consapevolezza. Guidare una transizione il più possibile esente da traumi e accentuate disparità e diseguaglianze è la sfida formidabile che attende la banca centrale americana.

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