L'outlook del FMI lancia l'allarme sulla crescita debole? I leader dei paesi occidentali la smentiscono. Il vertice del Fondo mette in guardia sui riflessi negativi della frammentazione? Nessuno se ne preoccupa. La Georgieva cerca soluzioni sui problemi dei paesi poveri in default? La Cina lancia un guanto di sfida al Fondo e pochi lo difendono. Un bilancio del meeting di Washington
La realtà della frammentazione crescente – la nuova malattia dell’economia – ha fatto irruzione negli ovattati saloni di Washington in cui si celebrano i meeting del Fondo monetario internazionale. Il milieu dei banchieri e degli economisti, degli osservatori e dei cacciatori di networking ha scoperto che c’è un mondo là fuori. E il messaggio dell’incontro è stato che occorre cominciare a farci i conti.
La prima percezione della nuova realtà è che non ci sono più porti sicuri. Anche se il mondo è frammentato, le interconnessioni sono più forti e vive che mai e qualsiasi smagliatura chiede a tutti un prezzo in termini di crescita.
Uno studio del Fondo ha messo in chiaro che la bandiera del friendshoring sotto cui si sono mossi ultimamente gli investimenti è tutt’altro che vincente: la riduzione del flusso degli investimenti diretti tra i due grandi avversari, Usa e Cina (meno 15 per cento dal 2015 in termini di scambi finanziari), taglia la crescita globale del 2 per cento, ha reso più vulnerabili molti paesi asiatici che vivono sotto l’influenza cinese e le economie in via di sviluppo, limita anche per gli Usa la possibilità di diversificare i suoi rischi e amplifica per tutti la possibilità di una recessione.
Sebbene di recessione si eviti accuratamente di parlare (ma la vede molto probabile Hank Paulson, il segretario al Tesoro Usa durante la Grande crisi del 2008, e vorrà pure dire qualcosa), nel suo Outlook il Fondo avverte che la crescita prevista del 3 per cento nei prossimi cinque anni sarà troppo debole per garantire opportunità a chi non ce le ha. Cioè per garantire maggiore benessere proprio a quella parte del mondo che mostra più insofferenza verso l’ordine mondiale creato dall’Occidente di cui istituzioni come il Fondo monetario e la banca mondiale sono l’espressione.
Il secondo test di realtà per queste grandi istituzioni è stato la carta calata dalla Cina sul tema della ristrutturazione del debito sovrano dei paesi in via di sviluppo.
È questo uno dei temi di questa riunione del Fondo, a cui ha fatto riferimento il direttore generale Kristalina Georgieva nel suo discorso di apertura della sessione primavera 2023, quando ha sottolineato che tra i paesi a basso reddito il 15 per cento si trova già in una situazione di rischio debito. Una ondata di crack finanziari e di richieste di ristrutturazione del debito potrebbe mettere in seria difficoltà il sistema. Secondo i dati del Fondo monetario, i debiti di nove stati tra i più poveri (tipo Mozambico, Grenada, Zambia) sono già in sofferenza; altri 27 sono a rischio e 26 sono sotto osservazione. Altri 50 potrebbero diventarlo.
A rendere più complicato affrontare il problema c’è il fatto che le procedure per la gestione dei rimborsi sono prive di leggi internazionali che regolano le insolvenze, e quindi procedono in maniera caotica e spesso opaca, come è stato nel caso dell’Argentina. Da quando il debito contratto con le banche è stato sostituito dal debito contratto attraverso le emissioni di obbligazioni di Stato, è stato sempre più difficile coordinare i vari creditori in giro per il mondo.
Oggi l’opacità è aumentata dal ruolo che ha assunto la Cina come creditore internazionale (vedi articolo Fchub). Ma è aumentato anche il suo peso al tavolo delle trattative, che per la prima volta è stato messo in evidenza di fronte a tutti. A Washington il governatore della Banca centrale cinese ha detto chiaro e tondo che il sostegno della Cina nella ristrutturazione dei debiti potrà avvenire solo se il Fondo e la Banca Mondiale rinunciano alla pretesa di essere dei creditori privilegiati, cioè con un diritto di priorità nel venire ripagati rispetto ad altri soggetti, come appunto la Cina. Ma accettare questo principio è un boccone troppo duro da mandare giù e sancirebbe che il lavorìo della Cina come potere antagonista delle grandi istituzioni internazionali è andato a buon fine.
Il fatto che gran parte della grana delle insolvenze tocchi la Cina fa illudere molti paesi del G7 che il problema sia meno critico, o perlomeno più lontano. Cosicché il vertice del Fondo si è sentito mettere in minoranza dalle esternazioni di parecchi esponenti europei – dal ministro delle Finanze francese al premier britannico al ministro del Tesoro Usa – riguardo alle prospettive economiche: più la Georgieva e il suo team alzavano l’allarme sul futuro, più gli altri rassicuravano.
Il bagno di realtà di questa edizione del Fondo consiste anche in questo: che la frammentazione è arrivata nei corridoi di Washington, l’appello a una maggiore solidarietà con chi sta nei guai ha trovato reazioni tiepide, e nessuno vuole farsi dettare l’agenda delle policy. Insomma, Georgieva &C sono rimasti con il cerino in mano.