In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

Il Fintech-Assurtech deve essere ricondotto al CCNL dei bancari?
Giuseppe G. Santorsola
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Ritorno dopo diverso tempo ad interessarmi delle tematiche sindacali nelle aziende bancarie. Il mio primo tema di ricerca nel 1975, ancora studente (con esami terminati) e giovane collaboratore nella SDA Bocconi, indirizzato, senza iniziale coinvolgimento e passione, verso lo studio delle relazioni sindacali nelle aziende di credito (vedi Il Risparmio, nr. 1/1977 quale risultato di quegli studi). In tempi più recenti dedicai un editoriale di Dirigenza Bancaria nr. 184/2017 alle prospettive del tema nel nuovo secolo (“Caro Bancario ti scrivo”, ispirato liberamente alla celebre canzone di Lucio Dalla).

Dopo un ulteriore lungo periodo, ritorno sull’argomento in occasione dell’ormai consistente sviluppo dell’area tecnologica nei sistemi bancari (Fintech e Assurtech). Il profilo di attenzione riguarda la presenza di crescente occupazione in aziende di nuova costituzione o ristrutturazione, diversamente regolamentata in ciascun esempio, ma – comunque – con aspetti normativi, contrattuali e monetari meritevoli di attenzione.

In primo luogo, le Organizzazioni Sindacali, quelle tradizionali del settore bancario e quelle meno aggregate che rappresentano i lavoratori delle nuove imprese vicine al settore dell’intermediazione finanziario, reclamano due aspetti normativi caratterizzanti:

  • la scelta di rapporti di lavoro a tempo indeterminato quale prevalente soluzione degli inquadramenti;
  • il ricorso al CCNL del settore del credito quale traccia guida, sia per la parte normativa sia per la parte economica.

Dobbiamo leggere questa richiesta come una naturale posizione di una forza sociale forte da molto tempo, ma che ha visto ridursi di circa un terzo la propria rappresentanza in ragione di pensionamenti, esuberi, scivoli e riduzione delle nuove assunzioni. E che intravede – razionalmente – un’ulteriore riduzione dettata dalla necessità di ridurre i costi operativi delle aziende bancarie (o di quelle da queste controllate o a queste collegate). Un interesse ed un obiettivo legittimi, che devono essere messi a confronto con una realtà operativa fortemente diversa da quella del passato.

Ne discende l’esigenza di ripensare la struttura del contratto collettivo nazionale (e di riflesso dell’impianto di quella di secondo livello, forse non più solo aziendale). Il CCNL firmato alla fine del 2019 include solo parzialmente le attese delle due controparti di fronte al nuovo scenario ed ogni valutazione, anche di parte, deve quindi ridisegnare le strategie per conseguire i due obiettivi sopra ricordati. 

Entrambe le parti sostengono il principio che “chi svolge attività bancaria deve essere regolato da un contratto unico”. Il problema è che attorno a questa ipotesi le due parti si muovono da orientamenti certamente non convergenti e si pone il dubbio se non sia ora prioritario ridisegnare l’intera cornice normativa, certamente predominante, prima di riordinare la parte economica. 

Gli imprenditori bancari (ricordiamo che le banche sono imprese) hanno scelto da circa trent’anni logiche di outsourcing per distinguere attività che, inizialmente, erano certamente diverse da quella bancaria tradizionale, sulla cui base il contratto nazionale ha disegnato il suo impianto, almeno dal 1983.

In realtà, parte del contratto riporta ancora alcune parti risalenti al contratto del 1948, ma nella scadenza citata presero corpo la diversa composizione degli orari di lavoro e dell’apertura al pubblico, la ridefinizione degli inquadramenti contrattuali e l’abbandono della logica dell’assoluta ripetizione, in ogni situazione tecnica e logistica, del medesimo sistema organizzativo.

Negli oltre 35 anni che sono seguiti, la cornice ambientale si è profondamente modificata, le imprese bancarie hanno acquisito maggiore libertà d’azione nell’area organizzativa, anche in ragione di una diminuita intensità dell’azione sindacale, abituata un tempo a governare le negoziazioni contrattuali tramite piattaforme rivendicative una cui parte finiva sistematicamente per guidare la soluzione finale, anche per l’assenza di un documento analogo di richieste aziendali.

L’effetto sorpresa, nel 1983, fu costituito proprio dalla presenza di richieste specifiche, che furono contrapposte ad una ad una per giungere all’accordo finale. Questa tendenza è proseguita per circa un decennio, indebolendo la forza di pressione delle OO.SS.

Lo sviluppo di rapporti di lavoro diversi da quello a tempo indeterminato (a partire dal part-time e dai contratti di formazione nel 1985, dalle soluzioni offerte dalla Legge Biagi nel 2002 e poi dal Jobs Act) ha contribuito ad abbassare la partecipazione alla vita sindacale anche in misura superiore al mero riferimento all’iscrizione dei lavoratori alle OO.SS. (che è rimasta invece, superiore alla media nazionale).

La situazione attuale vede di fatto una situazione quasi paritetica fra dipendenti bancari “tradizionali” e “collaboratori” diversamente inquadrati, comprendendo anche i sempre più numerosi consulenti inquadrati nell’OCF e nell’OAM. Questi ultimi tuttavia, si ritrovano anche all’interno dei dipendenti, spesso su esplicito “invito” delle banche stesse.

Il complesso delle mansioni ricoperte è estremamente variegato per i ruoli assunti e per i servizi offerti (pagamenti, credito non bancario, consulenza della più varia natura, servizi tecnologici, immobiliari o di alta specializzazione finanziaria o creditizia).

Appare obiettivamente difficile immaginare una soluzione contrattuale unitaria in questo scenario, tanto più perché lo stesso è in evoluzione e le strategie di lungo termine non risultano ancora definite.

È opportuno aggiungere anche il rilievo che sono ormai operativi soggetti nuovi, fortissimi per fatturati e patrimoni generati in altri ambiti, che stanno intervenendo nel mondo finanziario sia direttamente che attraverso alleanze con gli operatori tradizionali. Si tratta del comparto FinTech e AssurTech la cui mappatura deve ancora essere studiata in modo scientifico e sistemico, anche perché ancora magmatico e poco regolamentato.

A latere è necessario ricordare che gran parte dei soggetti economici che governano i nuovi players non sono italiani, seguono normative, soprattutto tributarie, divergenti da quelle nazionali, operano anche attraverso branch e non strutture societarie e non intravvedono convenienze nel ritrovarsi in una contrattazione guidata dal settore bancario, anche perché gran parte dei loro dipendenti non rientrano in quest’ambito.

Il quadro attuale è ancora minoritario (poche migliaia di lavoratori contro ancora 250.000 inquadrati (mediamente non giovani) tradizionalmente; oltre 60.000 consulenti (in OCF e OAM), operanti quali lavoratori autonomi (altrettanto con età media avanzata). Anche per questi ultimi da tempo si sono manifestate soluzioni di rappresentanza sindacale, la cui forza incisiva appare peraltro ancora limitata, risultando più forte la componente associativa. 

Il tema dirimente si svilupperà in futuro, quando alcuni player “esterni” governeranno quote di mercato più significative e condizioneranno le scelte di banche con le quali saranno significativamente alleate.

In realtà lo scenario sarà disegnato soprattutto dai comportamenti del mercato di sbocco, laddove l’utilizzo delle strutture bancarie tradizionali tende a diminuire, in contrasto con le soluzioni tecnologiche offerte ormai diffusamente. Il naturale ricambio generazionale della clientela favorirà questo spostamento insieme con i comportamenti delle generazioni intermedie e meno anziane, attratte dalle nuove soluzioni, più facilmente di quanto si supponesse. 

Il tutto suggerisce l’esigenza di porsi il problema nel suo complesso da parte di tutte le componenti, prima di vedersi superate ed isolate in un settore “diverso” da quello in cui hanno gestito in modo dominante le situazioni precedenti.

Immaginare possibile attrarre le componenti imprenditoriali internazionali è obiettivamente difficile, considerando che le migliori realtà nazionali hanno scelto anche loro la diversificazione organizzativa, il che comporta la presenza di lavoratori, dipendenti e non, meno attratti dalle attuali soluzioni di aggregazione “sindacale”.

Tuttavia, altrettanto fascino non suscita il settore del terziario, che regola molte delle aziende laterali al mondo del credito. Anche questa soluzione non è attuale e corre il rischio di non rappresentare le esigenze di entrambe le parti. Soprattutto sollevo l’ipotesi che l’universo dei collaboratori ne uscirebbe frammentato, non vedendo protetti i propri interessi, molto diversi fra loro. 

Un’ultima considerazione riguarda la dimensione aziendale delle unità che vanno assumendo le posizioni migliori in termini di fatturato e numerosità della clientela. Quelle in maggiore crescita hanno strutture snelle, non labour intensive, molto orizzontali e poco gerarchizzate e, almeno al momento, caratterizzate da alta propensione al trasferimento da un’azienda all’altra, caratteristica disruptive rispetto al passato. Il tutto in un contesto nel quale l’attenzione sui costi è dirimente anche per sollecitazione esplicita sia della competizione internazionale sia delle Autorità di Vigilanza e di Regolamentazione (BCE ed EBA/ESMA in particolare). Il cost/income medio italiano è più alto della media comunitaria, e questo fattore indebolisce la forza contrattuale delle OO.SS.. 

Infine, merita attenzione il fatto che il contratto di settore “tradizionale” è stato firmato recentemente, con un risultato comunque vantaggioso in termini economici (più che normativi, pur presenti); i tempi non consentono un’ulteriore trattativa a breve, ma lasciano il tempo per impostare la prossima contrattazione che sarà necessariamente del tutto diversa dalle precedenti con un campo di soggetti rappresentanti (da entrambe le parti) dissimile da quello attuale e non ancora ben definito nella quantità e nella qualità.