Il bail-in pone questioni di educazione finanziaria, di correttezza delle pratiche commerciali bancarie e di adeguata informazione della clientela cui i servizi – bancari o finanziari – sono offerti. È necessaria una efficace e completa diffusione delle informazioni che vengono prima ancora dell’informativa precontrattuale che dovrebbe trovar spazio nella fase di formazione del contratto bancario o di investimento. Si tratta della comunicazione pubblicitaria di quei flussi di informazione che non si rivolgono al singolo risparmiatore ma al mercato nel complesso. La questione attiene alla dialettica esistente – e non del tutto risolta – tra la disciplina della trasparenza contenuta nel t.u.b. (artt. 115 ss.) e quella delle pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra imprenditori e consumatori (artt. 21 ss., d.lgs. 206/2005). Ci troviamo in un sistema in cui i confini tra prodotti finanziari, bancari e assicurativi vanno sfumando, eppure sul piano dell'impostazione formale continuiamo a ragionare per comparti: servizi di investimento, credito ai consumatori, trasparenza bancaria, servizi di pagamento. Il legislatore dovrebbe, allora, cercare di far chiarezza.
Il temuto bail-in, sotto l’angolo visuale della tutela del risparmio, pone questioni di educazione finanziaria, di correttezza delle pratiche commerciali bancarie e di adeguata informazione della clientela cui i servizi – bancari o finanziari – sono offerti.
Infatti:
(i) l’educazione finanziaria si afferma come un obiettivo centrale da perseguire, anche se si adotta un approccio realista, che tiene cioè presente che essa non rappresenta una soluzione concreta alle questioni di breve periodo, né aiuta a trovare soluzioni a questioni già emerse (caso delle note quattro banche “gemellate” nel recente salvataggio);
(ii) è necessario un controllo più rigoroso in ordine alla correttezza delle comunicazioni, soprattutto pubblicitarie, che le banche offrono non solo al singolo cliente, ma al “mercato dei potenziali clienti”;
(iii) acquista sempre maggiore rilievo il tema dell’applicabilità delle regole di condotta al collocamento effettuato dalle banche, non solo quando collocano prodotti finanziari (i.e. le obbligazioni subordinate), anche quando “vendono” prodotti tipicamente bancari (depositi, conti correnti).
Esigenze di trasparenza e correttezza si impongono, innanzi tutto, con riguardo alla diffusione delle informazioni al pubblico.
Mi riferisco a quelle informazioni che vengono prima ancora dell’informativa precontrattuale che dovrebbe trovar spazio nella fase di formazione del contratto bancario o di investimento. Si tratta della comunicazione pubblicitaria, del marketing, di quei flussi di informazione che non si rivolgono al singolo risparmiatore ma al mercato nel complesso.
La questione è nota e attiene alla dialettica esistente – e non del tutto risolta – tra la disciplina della trasparenza contenuta nel t.u.b. (artt. 115 ss.) e quella delle pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra imprenditori e consumatori (artt. 21 ss., d.lgs. 206/2005).
Ci troviamo in un sistema in cui i confini tra prodotti finanziari, bancari e assicurativi vanno sfumando, eppure sul piano dell’impostazione formale continuiamo a ragionare per comparti: servizi di investimento, credito ai consumatori, trasparenza bancaria, servizi di pagamento.
Il legislatore dovrebbe, allora, cercare di far chiarezza.
Una necessità che il mercato già percepisce come tale, adeguandosi. Non sarà sfuggito che nella più recente pubblicità delle banche (sui giornali, in televisione, su internet) si comincia a parlare di coefficienti di patrimonializzazione e di Common Equity Tier 1 ratio.
Del resto quel che vuole sapere, oggi, il risparmiatore “medio”, a prescindere dalla natura bancaria o finanziaria del servizio o del prodotto che sottoscrive, è se la banca è solida. E le banche che possono vantare buoni coefficienti di patrimonializzazione hanno compreso che questa leva pubblicitaria può essere vincente; così tentano di spiegare che prima di “investire” (in senso molto lato) con e/o in una banca è bene verificare se è stabile.
È una nuova frontiera pubblicitaria che, se usata con correttezza, potrebbe anche contribuire a una corretta informazione.
Restano, tuttavia, aperte alcune questioni.
In particolare:
(i) se queste iniziative siano sufficienti a fare chiarezza o se il mercato, anche pubblicitario, vada regolato per evitare che un uso distorto di questi messaggi possa condurre a effetti perversi;
(ii) se, e in che misura, si possano rendere “comparabili” messaggi di questo tipo;
(iii) quale sia l’Autorità competente a intervenire in caso di abusi o violazioni: se, cioè, questo tipo di vigilanza spetti comunque all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che deve vigilare sulla forma della pubblicità, o se invece spetti alla Banca d’Italia che potrebbe entrare nel merito delle informazioni (e che potrebbe forse meglio dare impulso a eventuali procedimenti sanzionatori o quanto meno istruttori sui contenuti del messaggio).
Se è vero che il cliente della banca può essere un investitore, con conseguente applicazione delle regole del t.u.f. al rapporto di investimento, è altrettanto vero che si tende a ritenere che esso non sia anche un consumatore in senso stretto.
Eppure molte norme dettate in materia di pratiche commerciali scorrette o pubblicitarie ingannevoli si riferiscono anche all’attività bancaria e, anzi, alcune sono dedicate proprio all’attività delle banche. Si pensi all’art. 21, c. 3-bis, del codice del consumo, ove si prevede che: «è considerata scorretta la pratica commerciale di una banca, di un istituto di credito o di un intermediario finanziario che, ai fini della stipula di un contratto di mutuo, obbliga il cliente alla sottoscrizione di una polizza assicurativa erogata dalla medesima banca, istituto o intermediario ovvero all’apertura di un conto corrente presso la medesima banca, istituto o intermediario».
Se una siffatta pratica è scorretta, altrettanto potrebbe esserlo, in concreto, la pratica con cui la banca, all’atto di apertura di un conto corrente, obblighi il correntista inesperto ad acquistare di un prodotto finanziario complesso emesso dalla banca stessa.
Quest’ultimo esempio dà la misura dell’irrazionalità di alcune sovrapposizioni di disciplina.
In un tale caso, infatti, la conclusione dei due contratti comporterebbe:
(i) non già una violazione della disciplina consumeristica (a meno di non voler estendere analogicamente la portata molto specifica del 21, c. 3-bis, cod. cons.);
(ii) ma, al più, una violazione della disciplina dei conflitti di interesse di cui all’art. 21 t.u.f., e sempre che ne ricorrano i presupposti.
Infatti, una banca che collochi prodotti finanziari di cui è emittente (i.e., obbligazioni subordinate) agisce in un’obiettiva posizione di conflitto.
Una tale pratica non è espressamente vietata dal codice del consumo e, quindi, non è detto che come tale sia valutata dalla giurisprudenza o dall’autorità di vigilanza.
Nemmeno è detto che essa integri una violazione del t.u.f., ove l’acquirente dell’obbligazione sia stato adeguatamente informato del conflitto (se, infatti, il conflitto è gestito correttamente dalla banca, essa non viola la disciplina di cui agli artt. 21 ss. del t.u.f.).
In questo senso, l’art. 21 codice del consumo e l’art. 21 del t.u.f., che pur sembrano simili quanto alla ratio, portano a conseguenze affatto diverse e non sovrapponibili.
Viene allora da chiedersi se sia razionale una disciplina così frammentaria della tutela e dei rimedi a disposizione del contraente (asseritamente) debole, sia esso investitore in senso stretto, correntista o “consumatore” che subisce una pratica scorretta (o tutti e tre insieme, se gli è imposto di sottoscrivere un’obbligazione subordinata insieme all’apertura del conto corrente).
A mio avviso l’esperienza maturata in materia di intermediazione finanziaria si può e si deve portare nel campo dei prodotti direttamente collocati dalle banche.
Prima di tutto lo impone il dato normativo. Come è noto, infatti, la raccolta bancaria, se effettuata a mezzo di prodotti finanziari, è sottoposta ai criteri di condotta dettati per i servizi di investimento, ai sensi di quanto disposto dall’art. 25-bis t.u.f. introdotto dalla Legge sul risparmio n. 262/2005.
Inoltre, in questo senso è orientata l’Autorità di vigilanza “competente” in materia di correttezza. In una recentissima comunicazione (n. 0090430 del 24-11-2015), adottata all’indomani della risoluzione delle quattro banche, la Consob ha invitato le banche a prestare la massima attenzione alla nuova disciplina della risoluzione avvertendole della «necessità di valutare gli eventuali impatti delle modifiche normative sopra richiamate sulle proprie procedure interne per la valutazione dell’adeguatezza e dell’appropriatezza, tenendo conto delle specificità di ogni tipologia di strumento finanziario interessato dalle modifiche medesime».
Insomma, l’autorità chiede alle banche di informare i propri azionisti, obbligazionisti subordinati e non, creditori senior e junior, depositanti (con depositor preference o meno) dei rischi collegati al recepimento della direttiva sulla risoluzione bancaria.
L’informazione sui rischi – riduzione e conversione – deve essere offerta secondo i criteri di cui al 21 ss. t.u.f., perché la sottoscrizione di strumenti bail-inable comporta un rischio che non può essere compreso, valutato dagli investitori se non facendo ricorso alle regole generali.
Nella medesima comunicazione, la Consob ricorda che «restano in ogni caso ferme, laddove applicabili, le indicazioni fornite dall’Autorità di vigilanza in tema di prodotti illiquidi e di prodotti complessi».
Si tratta, come è noto:
(i) della comunicazione n. 9019104 del 2 marzo 2009 «in ordine al dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi»;
(ii) della comunicazione n. 97996/14 del 22 dicembre 2014 «sulla distribuzione di prodotti finanziari complessi ai clienti retail».
Ora, molti dei prodotti collocabili dalle banche assoggettabili a risoluzione sono qualificabili prodotti finanziari illiquidi e/o complessi. Si veda, sul punto, la tabella elaborata dall’ABI dopo la comunicazione Consob del 2009, che reca un elenco di «strumenti e prodotti finanziari a maggiore diffusione e connotati da caratteristiche di potenziale illiquidità»:
Tra essi vi sono anche le oramai tristemente note obbligazioni subordinate.
Sul piano dei rimedi ci si deve dunque domandare chi risponda della violazione delle regole di condotta nel collocamento di obbligazioni subordinate.
Se, infatti, il campo di indagine fosse ristretto alle regole di condotta e al rapporto intermediario-cliente ci si potrebbe limitare a una semplice osservazione: considerato che l’art. 23, c. 6, t.u.f. semplifica l’onere della prova dei clienti, per questi ultimi dovrebbe essere (abbastanza) agevole offrire la prova di eventuali violazioni e ottenere così il risarcimento del danno (e/o, se l’inadempimento è di non scarsa importanza, la risoluzione del contratto). Prova che sarebbe ancor più agevole nel caso in cui l’inadempimento dell’intermediario avvenisse nell’àmbito del collocamento di prodotti illiquidi (obbligazioni subordinate) o complessi presso una clientela retail.
Tuttavia, nello scenario post-risoluzione, per molti investitori/creditori il legittimato passivo della pretesa (risolutoria/risarcitoria) semplicemente sparisce dall’ordinamento.
Rectius: sopravvive in altre vesti (good bank, bad bank), ma un provvedimento amministrativo recide ogni rapporto tra le entità sopravvissute alla risoluzione e alcune categorie di investitori.
Ne consegue una situazione paradossale in cui:
(i) da un lato, l’Unione europea ha disegnato la disciplina del bail-in per evitare costosi salvataggi a carico dei contribuenti;
(ii) dall’altro, essendo sorta una forte “esigenza” di tutela del risparmio (se si vuole, di credibilità del mercato), il legislatore è stato costretto a inserire nella c.d. legge di stabilità per il 2016 un meccanismo (al momento non è ancora chiaro come sarà costruito) per decidere con arbitrati le controversie fondate sulla violazione di regole di condotta da parte di un soggetto che non ha più legittimazione passiva rispetto alla pretesa. Potrebbe, allora, tornare a pagare lo Stato.
E, in questo paradosso, non è ancora chiaro chi deciderà siffatte controversie (forse l’ANAC, di sicuro non un giudice), né chi pagherà il conto (forse i contribuenti, di sicuro non la banca che aveva violato le regole di condotta).
[1] Spunti dalla relazione al convegno di Trento del 12 febbraio 2016, organizzato dalla rivista Diritto bancario.it