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Politica Economica
I vantaggi di un obiettivo di inflazione "mobile" per le banche centrali
Giorgio Di Giorgio
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Le recenti previsioni sull’andamento dell’economia mondiale formulate dal Fondo Monetario Internazionale e dall’OCSE indicano un rallentamento dei tassi di crescita nella gran parte dei paesi analizzati. Le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina, le difficoltà congiunturali e politiche in Europa, anche connesse alla Brexit, e le crisi in alcuni importanti paesi emergenti (Argentina e Turchia), hanno indotto una revisione generalizzata al ribasso delle forecasts, che tuttavia rimangono moderatamente positive.

L’espansione dell’economia mondiale è infatti prevista al 3,3%, un ritmo coerente con l’andamento medio sperimentato negli anni ‘80 e ’90. L’andamento negativo dei mercati nella seconda parte del 2018, usualmente anticipatore di peggioramenti nel clima economico generale, ha avuto l’effetto di indurre un ripensamento nelle strategie di politica monetaria, interrompendo il percorso di aumenti dei tassi di interesse da parte della FED e suggerendo alle altre maggiori banche centrali di continuare a mantenere accomodanti le loro politiche.

D’altra parte, la dinamica dell’inflazione continua a rimanere decisamente modesta e scarsamente volatile quasi ovunque, distante dall’obiettivo del 2% di incremento nel livello generale dei prezzi considerato desiderabile dalle banche centrali. Senza tornare a discutere il pur avvincente tema delle diverse spiegazioni fornite all’andamento anomalo dell’inflazione nell’ultimo decennio, vale la pena qui riflettere se sia giunto il momento di ripensare l’intera impostazione data alla gestione della politica monetaria nei paesi industrializzati, e, in particolare, l’opportunità e il peso assegnato ad una definizione abbastanza puntuale e “ferma” degli obiettivi finali della stessa.

Come è noto, per obiettivi finali di politica monetaria si intendono le finalità ultime che la stessa intende perseguire con riferimento all’andamento di alcune variabili macroeconomiche dalla cui evoluzione discendono chiare conseguenze in termini di maggiore o minore benessere della collettività. Per questo motivo, negli Statuti delle banche centrali, si fa riferimento a concetti come la crescita economica, l’andamento dell’occupazione, l’equilibrio nei conti con l’estero, la stabilità dei prezzi e del sistema finanziario, salvo poi declinare gli stessi in modo diverso sia dal punto di vista della loro definizione numerica e concettuale che, a volte, di un determinato ordine gerarchico di importanza.

A partire dagli anni ‘90, è via via cresciuta l’attenzione riservata alla stabilità dei prezzi, con l’adozione di un regime di inflation targeting nel Regno Unito, una impostazione rigorosa e di flavor monetarista alla Banca Centrale Europea, e perfino, a partire dal 2012, con l’adozione di un obiettivo di riferimento di lungo termine per l’inflazione negli USA. Questa evoluzione ha determinato una generale accettazione anche di una definizione numerica unica di tasso di inflazione desiderabile, identificando appunto nel 2% la crescita dei prezzi considerata coerente con la stabilità dei prezzi.Il numero, in sé, non ha particolare rilevanza, se non come “convenzione” largamente accettata, sulla base di studi peraltro ormai anche un po’ datati (la famosa Commissione Boskin, negli USA, nella seconda parte degli anni ‘80).

Il tema che invece si pone ora è se tale numero debba rimanere “fisso” nelle diverse fasi cicliche o possa invece essere (utilmente) aggiustato verso l’alto o verso il basso dalle banche centrali in determinate situazioni. Molto ha a che vedere con la cosiddetta forward guidance e l’importanza di indirizzare le aspettative degli operatori sull’andamento dell’inflazione in futuro. Queste infatti sono una delle principali determinanti del tasso di inflazione corrente. È sulla base delle apettative future di prezzo che molte decisioni di consumo, investimento, risparmio, vengono prese, in ogni momento, impattando così le dinamiche macroeconomiche aggregate. L’esempio classico è quello della negoziazione salariale, in cui l’inflazione programmata per il futuro (obiettivo) viene incorporata nella dinamica salariale, che a sua volta ha un ruolo rilevante nell’influenzare l’inflazione in un paese.

La possibilità per la banca centrale di cambiare nel tempo i propri obiettivi di inflazione consentirebbe l’invio di un segnale forte e chiaro al settore privato, e potrebbe effettivamente essere uno strumento efficace in momenti di particolare difficoltà. Al tempo stesso, una eccessiva volatilità nella formulazione degli obiettivi, potrebbe rendere gli stessi meno credibili e minare la fiducia del mercato nell’azione delle banche centrali.

Il dibattito è tornato in auge negli ultimi mesi, con la curva dei rendimenti molto appiattita negli USA e rischi di una sua possibile inversione, che hanno riproposto il timore di recessione e di nuovi futuri limiti per la FED a reagire prontamente (e convenzionalmente) al ciclo qualora i tassi nominli a breve dovessero riavvicinarsi allo “zero lower bound”. In verità, essendo la politica monetaria “forward looking”, l’azione di normalizzazione dei tassi negli USA era iniziata ben prima di raggiungere il livello obiettivo dell’inflazione. Ma con i diversi aumenti dei tassi, è possibile che l’obiettivo non venga mai effettivamente e stabilmente conseguito. Per questo motivo, si stanno avanzando ipotesi di passare ad obiettivi di inflazione “medi” nel ciclo, con aumenti del tasso target in periodi di forte ripresa e riduzioni dello stesso nei periodi di difficoltà.

Lasciar aumentare l’inflazione in periodi di elevata crescita, darebbe più spazio alla banca centrale per contrastare le rapide inversioni di tendenza durante la successiva fase di declino, così come una riduzione del tasso target di inflazione in una fase di stagnazione potrebbe segnalare l’intenzione di lasciare i tassi di policy molto bassi a lungo, ed aiutare il recupero della domanda aggregata. Alcuni studi recenti mostrano come una tale strategia potrebbe risultare efficace, in particolar modo se coniugata con una comunicazione trasparente e affidabile sull’azione futura di policy da parte della banca centrale. La Federal Reserve sta per dedicare un seminario di approfondimento alla discussione di tali lavori. Vedremo nei prossimi mesi, se, come nel caso del quantitative easing, gli esperimenti pioneristici negli USA diventeranno “modelli” da seguire anche per altre banche centrali.