Tra il 1995 e il 2023 il terziario di mercato ha creato 3,5 milioni di posti di lavoro, mentre il resto dell'economia ne ha persi un milione. E nella bilancia dei pagamenti la voce viaggi ha crediti per 52 miliardi, che sono esportazioni di servizi turistici. Ecco perché è venuto il momento di dare il giusto peso agli effetti della terziarizzazione delle economie e non solo alla manifattura
Il numero 2024/1 di Economia italiana indaga comportamenti e strategie delle imprese italiane nel processo di reazione alla doppia crisi, pandemica ed energetica. Grazie a indagini e censimenti dell’Istat e a metodologie raffinate di analisi dei dati, ne viene fuori un quadro di straordinario interesse, per gli studiosi e, auspicherei, per i policy maker.
Tanto per cominciare e in linea di principio, personalmente apprezzo questo tipo di analisi perché volte alla produzione di evidenze empiriche robuste. Magari non sempre conclusive (per fortuna, perché non credo che si possa né si debba spiegare tutto). Disporre del conforto dei dati, ben interpretati, permette di ancorare il discorso pubblico a qualche riferimento solido che, tra l’altro, impone una forma di continenza linguistica, molto opportuna nell’attuale contesto politico-mediatico.
Se sulle tecniche ho poco da dire, qualche spunto di riflessione sui risultati me lo permetto. A mio avviso, semplificando molto e tagliando i tornanti più difficili, da tutti i paper che compongono il volume emerge, come tratto comune, l’importanza della formazione del capitale umano in tutte le sue declinazioni e articolazioni nel migliorare le performance delle imprese. Per esempio, in Costa e altri tra i driver delle transizioni virtuose e declinanti delle imprese tra cluster i processi di formazione delle risorse umane sono ai primi posti nel processo di upgrade (crescono le imprese che vi dedicano cura e investimenti) e agli ultimi nelle imprese che peggiorano nella struttura e nella governance.
Ora, prendendo molto sul serio quest’evidenza, non posso non trarne una conclusione. Siamo pervasi, in Italia, ma anche in altri paesi europei, dalla mania delle decontribuzioni sul fattore lavoro. A prescindere dal difetto implicito di sciogliere il fondamentale legame tra consapevolezza dei contributi versati e valore attuale dei benefici futuri – un giorno alla busta arancione dell’INPS torneremo – resta l’idea centrale: facciamo costare meno il lavoro così se ne utilizza di più. Giusto. Ma quando si sostituisce lavoro a capitale, poiché il prodotto per input di lavoro dipende direttamente dal rapporto capitale-lavoro, la produttività scende e le retribuzioni non salgono. Se trasformassimo le risorse distribuite per la riduzione del costo del lavoro in sostegni ad attività realmente formative delle risorse umane, spingeremmo la produttività degli stessi lavoratori: essa incontrerebbe, al margine, retribuzioni per forza più elevate (oltre che migliorare le performance delle imprese come stabilito poco sopra).
Questo è uno dei tanti modi possibili per attualizzare i risultati delle ricerche raccolte nel volume in commento. Insomma, io questo numero della rivista, magari sintetizzato e reso fruibile a un pubblico non specializzato, lo farei leggere ai nostri policy maker.
Non posso, però, non lamentarmi, molto sommessamente, della circostanza che di tanto in tanto nel diversi paper che compongono il volume si tenda a confondere l’economia con la manifattura, le esportazioni con le esportazioni di beni, le imprese con le imprese di taglia da piccola in su (escludendo quelle fino a nove addetti).
Capisco la necessità di ritagliarsi un perimetro di indagine affidabile, escludendo aree nelle quali l’informazione è rarefatta o meno sicura. Però è anche ora di accettare che tra il 1995 e il 2023, secondo la Contabilità Nazionale (prima dell’ultima revisione, che però non muta i macro-parametri), il terziario di mercato, cioè i servizi meno la pubblica amministrazione, la finanza, le assicurazioni e le famiglie e convivenze come datori di lavoro, ha creato quasi 3,5 milioni di unità standard di lavoro aggiuntive, quando tutto il resto dell’economia nel complesso ne ha persi quasi un milione. Bisogna recuperare all’analisi economica main stream il ruolo dei servizi di mercato, senza alcun pregiudizio per la valorizzazione della manifattura esportatrice, che è e resta un fiore all’occhiello del nostro sistema economico.
Tra l’altro, nelle opportune sedi internazionali si studia il fenomeno dell’esportazione di servizi, fortemente crescente, visto che le stesse esportazioni di beni presentano una componente di servizio ben maggiore che in passato. È un terreno impervio e anche inesplorato, ma che bisogna affrontare con coraggio e perizia, atteso che la terziarizzazione delle economie è un irreversibile fenomeno planetario. D’altra parte, se alla voce viaggi della bilancia dei pagamenti abbiamo crediti per 52 miliardi di euro – che sono esportazioni di servizi turistici – sarà anche il caso di tenerne in debito conto, visto che cubano più di alcune delle famose 4A della manifattura esportatrice.
Senza scadere nel sociologismo di maniera, si può affermare con discreta fiducia che le persone desiderino ormai acquistare tempo e competenze altrui – servizi, quindi, non oggetti – fruendone anche attraverso il rivivere di queste componenti immateriali congelate nei beni. Ma sempre di servizi si tratta.
Va bene: molti dei servizi cui faccio riferimento sono caratterizzati da imprese piccolissime, poco produttive, poco innovative. Di conseguenza, esse offrono retribuzioni sotto la media e per ragioni strutturali e, in parte, non modificabili, presentano anche componenti dell’occupazione intermittenti e stagionali (e così sarà finché la terra si ostinerà ad avvicinarsi e allontanarsi dal sole nel suo percorso ellittico).
Ecco, invece di proseguire nella colpevolizzazione di tali ambiti, bisognerebbe passare alla strategia della loro valorizzazione. Il mondo non è e non funziona secondo pregiudizi e aspirazioni che abbiamo in testa e nel cuore. È quello che è e, se proprio lo dobbiamo cambiare, da questo dobbiamo partire.