ACCOUNTING&CO2
I revisori dei conti ignorano la CO2

Le grandi società di revisione dei conti sono state messe sotto accusa per non aver tenuto in debito conto i rischi climatici nei bilanci di molte grandi imprese. E devono correre ai ripari

Paola Pilati

Ora tocca ai revisori dei bilanci mettersi a studiare l’impatto della CO2. La transizione energetica è una sfida anche per le Big Four dell’accounting mondiale: Deloitte, EY, KPMG e PwC sono state chiamate alle loro responsabilità su questo fronte da un gruppo di 24 investitori istituzionali britannici (tra cui Sarasin & Partners, Aviva Investors e EOS). Mentre si apriva la conferenza sul clima a Glasgow, hanno questi ultimi inviato a ognuna delle quattro società che si dividono la fetta più consistente del business globale della revisione dei conti, una lettera di fuoco.

Dal prossimo anno, è stato il messaggio, se i revisori non cominceranno a mettere in giusta luce anche il fattore dell’impatto verso il “net zero” quando elaborano il loro parere sui bilanci aziendali, rischiano il posto. Perché molti azionisti cominceranno a votare contro la conferma del loro incarico come auditor.

Un ricatto? In realtà gli investitori professionali britannici – ma c’è da scommettere che il loro esempio verrà seguito anche altrove – sanno che gli auditor hanno una certa coda di paglia. Secondo un censimento del think tank Carbon Tracker, la cui missione è sensibilizzare e guidare i mercati dei capitali a evitare il rischio di mettere i propri soldi in società non in linea con la transizione energetica (https://carbontracker.org/about/#mission), più del 70 per cento delle grandi società quotate, nonché grandi produttrici di CO2, non segnalano nei rendiconti finanziari il rischio connesso con la crisi climatica e l’obiettivo dell’abbattimento delle emissioni. Come se non esistesse.

L’accusa è, insomma, quella di eludere un tema su cui gli investitori dovrebbero essere aggiornati proprio leggendo il parere dei revisori dei conti (https://carbontracker.org/flying-blind-pr/). Mentre invece si trovano di fronte a rappresentazioni del “business as usual”, come se niente del contesto mondiale fosse cambiato e le imprese – che vanno dalla Chevron alla Exxon Mobil, da BMW a Air France-KLM – non fossero esposte ai rischi e ai costi della transizione.

La responsabilità di questa distrazione non può neanche essere addebitata alle regole dell’accounting. L’IFRS, l’organismo che stabilisce gli standard internazionali della contabilità, ha infatti incorporato i rischi del cambiamento climatico anche se non ha esplicitamente nominato il “rischio climatico” tra i suoi standard. In sostanza, anche se i rischi connessi al clima sono discussi nelle parti del bilancio che sono fuori del rendiconto finanziario, si riconosce che chi investe ha la legittima aspettativa di conoscere la possibilità del materializzarsi di alcuni rischi, anche indipendentemente dal loro impatto quantitativo. Insomma, non basta parlarne nel bilancio sulla corporate-social responsability, ma deve entrare anche nel financial statement.

Che cosa resta quindi da fare alle Big Four? Promettere di mettere i propri auditors al lavoro per aggiornarli sulle nuove richieste. E sperare che non siano i loro clienti, questa volta, a minacciare di licenziarli.