PREVISIONI
I pericoli di un 2023 immaginato troppo rosa

Mercati, asset manager e investment bank credono che il peggio sia alle spalle. E che una rapida recessione negli Usa fermerà i rialzi della Fed, togliendoci tutti dai guai. Come è stato tante volte in passato. Ma questa volta può essere davvero molto diverso

Paola Pilati

Sembra che i mercati non vogliano credere che le cose debbano andare peggio, perché hanno sempre buoni motivi per vedere il bicchiere mezzo pieno. Sarà forse questa la disposizione d’animo che li rende più pronti a  scattare per primi quando i venti soffiano a favore, ma di certo, in questo inizio di 2023 in cui le previsioni sono così difficili e l’orizzonte non è mai stato così nebuloso, c’è una parte degli osservatori che vede positivo.

Bloomberg sostiene che possiamo archiviare il 2022 come il peggiore degli ultimi dieci anni, e sebbene il 2023 non si presenta proprio tutto scorrevole sarà comunque migliore. La Fed, dicono gli strategist che vedono rosa, potrebbe già cambiare direzione nel primo trimestre dell’anno e abbandonare la sua posizione da falco. Il columnist del FT Martin Sandbu spiega che l’aumento dei salari negli Usa non deve far tremare la Fed come nuova legna sul fuoco dell’inflazione, ma lo deve vedere come un processo di riallocazione del lavoro verso attività più produttive, dunque verso una espansione della capacità dell’economia che porterebbe viceversa a tenere i prezzi bassi.

A smorzare la voglia di ottimismo non sono servite né le parole del capo del Fondo monetario Kristalina Georgieva che il primo dell’anno ha parlato del 2023 come di un anno durissimo, molto più di quello precedente, durante il quale un terzo dell’economia globale sarà in recessione, inclusa metà dell’Unione europea, né è bastata la discesa in campo della numero due del Fondo monetario. Gita Gopinath ha chiarito che di interrompere la battaglia con l’inflazione non se ne parla neppure, né in Europa ma neppure negli Usa, e che i tassi dovranno continuare a salire, facendo prevedere che le stime che il Fondo porterà a Davos saranno più pessimistiche di quelle di ottobre.

Eppure mercati, asset manager e investment bank restano scettici, ancorati alla loro voglia di interpretare le cose in altro modo, vale a dire che la recessione arriverà presto negli Usa, e che questo spingerà velocemente la Fed a cambiare direzione sui tassi, togliendoci tutti rapidamente dai guai. E facendo ripartire le borse, come è stato dopo le recessione dei primi anni ’90, del 2001 e del 2008.

Una interessante interpretazione del perché questa volta potrebbe non essere così viene dal global chief investment officer di Credit Suisse, Michael Strobaek.

Innanzitutto, argomenta Strobaek, la recessione prevista negli Usa potrebbe non arrivare così presto. Questo perché quella economia è meno esposta all’aumento dei tassi che in passato: chi ha contratto un mutuo lo ha fatto a tasso fisso e anche le imprese hanno approfittato dei bassi tassi di interesse per finanziarsi a lungo termine, quindi l’impatto degli aumenti sarà scarso.

Quanto all’inflazione, ci sono diversi elementi che la rendono più dura a morire: il mercato del lavoro soffre della mancanza di lavoratori più qualificati, il reshoring e la necessità di accorciare le catene di approvvigionamento si accompagnano a prezzi più alti e la decarbonizzazione rende più costosi merci e servizi. Tutti motivi che possono convincere la Fed a tenere i tassi alti anche con una recessione in corso.

Insomma, i dubbi che rendono il “consensus” attuale poco probabile sono molti. Questa volta la storia potrebbe essere assai diversa del passato. E gli investitori farebbero bene a non illudersi troppo e a essere molto cauti, non fidandosi troppo del potere taumaturgico della Fed.

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