Analisi delle ultime Considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia, tra l'auspicio sugli eurobond, l'allerta sulle cryptovalute, l'allarme sulla produttività...
Guardando indietro nel tempo, ho realizzato che quella di quest’anno è la cinquantesima volta (invero su 131 eventi) in cui ho avuto occasione di ascoltare le Considerazioni Finali dei sette Governatori succedutisi dal 1976 (Carli, Baffi, Ciampi, Fazio, Draghi, Visco e Panetta). Un campione certamente idoneo per accumulare conoscenze da comparare e per interpretare senza pretesa di completezza e giustezza quanto comunicato in un documento tradizionalmente non lungo (tra 20 e 30 pagine, 29 di testo in questa occasione), ma denso di messaggi.
È tradizione e rischio di molti cogliere spunti da singoli passaggi del testo per trovare consenso verso proprie posizioni o idee. Nelle 45 occasioni in cui ho espresso un commento scritto ho cercato (non so se riuscendovi) di guardare dentro all’insieme del documento per “intellegerlo”. Ci provo anche questa volta con la seconda Relazione di Panetta, il primo Governatore più giovane di me, il cui contenuto è stato commentato generalmente in modo molto positivo.
La struttura del testo distribuisce l’attenzione secondo questo schema:
La prima considerazione evidenzia il peso prevalente del testo dedicato agli aspetti non nazionali e non bancari (metà del totale). Peraltro, anche nella sua precedente posizione di membro del Comitato Direttivo, il Governatore si era distinto per posizioni difformi da quelle espresse in forma collegiale. L’occasione ha accentuato alcune affermazioni, comunque sempre tecnicamente documentate.
Non poteva mancare una valutazione relativa al tema dei dazi. Il rigore dei modelli previsivi evidenzia che l’inasprimento delle barriere doganali potrebbe sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale nell’arco di un biennio per l’area UE. Meditiamo sul fatto che per gli Stati Uniti l’effetto stimato è circa il doppio.
A causa delle dispute commerciali e dai conflitti che stanno incrinando la fiducia a livello internazionale, il Fondo monetario internazionale ha abbassato le previsioni di crescita mondiale per il biennio 2025-26 a meno del 3%, al di sotto della media dei decenni scorsi. I dazi possono, non solo teoricamente, comportare una minore domanda di lavoro e un aumento delle pressioni inflazionistiche, in una fase già caratterizzata da aspettative in rialzo per le seconde e al ribasso per la prima. Impattano inoltre negativamente sulla fiducia di famiglie e imprese, con naturali ripercussioni su consumi e investimenti.
Un quadro pericoloso, limitato dalla convinzione che si tratti di annunci di dazi elevati quali leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici internazionali. Se fosse vero, sarebbe un’occasione irripetibile per ridefinire il commercio mondiale, le alleanze e costruire un sistema più adatto al nuovo scenario che non è più quello degli ultimi 80 anni, auspicabilmente senza il ricorso alla guerra, ma generato dalla paura di quest’ultima. Tuttavia, si stanno toccando molti limiti pericolosissimi e non sempre si analizza, lasciatemi dire, il CVar oltre la soglia della provocazione al conflitto.
Tornando ai temi economici e alle posizioni di fondo per la gestione dell’economia europea, è stata riproposta l’esigenza di costruire un debito europeo attraverso la emissione di Eurobonds. Per questa ipotesi, la situazione appare la più idonea degli ultimi anni, essendosi ridotto il divario delle condizioni dei singoli Paesi, espresso con chiarezza dai minori spreads all’interno dei 27, la condizione politica per eliminare alla radice la frammentazione del mercato dei capitali lungo linee nazionali, ormai palesemente errate di fronte ad una competizione multipolare.
Se osserviamo la suddivisione del PIL mondiale, il peso dell’Europa resta consistente se vista come una Unione; è una partita persa senza la coesione. È un tema non solo di fiscal policy, quanto di credibilità del sistema finanziario europeo. Secondo le stime e ricorrendo alla potenza dei numeri, un mercato dei capitali integrato, con un titolo comune europeo, ridurrebbe, secondo i dati della Relazione, i costi di finanziamento per le imprese, attivando investimenti aggiuntivi per 150mld€ all’anno e innalzando, a regime, il PIL dell’1,5%.
Un dato potente, che deve prevalere rispetto alle posizioni politiche e sociali dei singoli Paesi. Resta l’arretratezza nel comparto tecnologico, l’errore più condizionante compiuto nella prima parte del secolo, per correggere il quale, forse, i 150mld€ annui indicati non sono purtroppo sufficienti. Il rapporto Draghi e quello Letta, certamente non condizionati dal ruolo di un Governatore di Banca Centrale, lo hanno prospettato e debbono essere tradotti in nuove scelte per le quali la pressione della BCE è indispensabile condizione necessaria ma non sufficiente, affermazione facile però solo a scriversi….
Un’opportunità da sfruttare è certamente quella del Deep Tech insieme eterogeneo di tecnologie ad alta intensità scientifica, nate dalla convergenza tra ricerca avanzata, sperimentazione applicata e capacità imprenditoriale. Intelligenza artificiale, blockchain, calcolo quantistico, biotecnologie, nanotecnologie, robotica avanzata e nuovi materiali rappresentano alcuni dei campi più promettenti. Uno spazio percorribile, ma stringendo i tempi.
Anche il tema delle cryptovalute ha trovato spazio non marginale alla luce dell’entrata in vigore dei Regolamenti Europei impostati per il settore (MICAR in particolare), del crescente interesse verso stablecoins da un lato e CBDC (Central Banks Digital Currency) dall’altro. Il ruolo della BCE è fondamentale ed attivo, così come quello della Banca d’Italia (insieme all’ABI) per l’attuazione dell’euro digitale (la nostra CBDC).
Nel terreno delle stablecoins , FED e Bank of China appaiono svolgere un ruolo più incisivo e al di fuori dei propri confini d’azione monetaria. È peraltro preoccupazione costante della Banca d’Italia il trasmettere al mercato la miglior percezione del rischio legato alle cryptovalute che rimane elevato (anche se ridotto in termini di volatilità per quelle che hanno mercato). Restano invece alti i rischi di default, frode e furto di identità per le non numerabili offerte di meme e currencies prive di sottostanti, ma anche di strutture tecnologiche e gestionali idonee a mitigare l’elevato rischio di liquidità e rimborsabilità e quello dell’intrusione di operatori irregolari, non autorizzati e non vigilabili se non – inutilmente – ex-post.
Infine, prima di dedicarsi come di consueto nell’ultima parte alle problematiche più bancarie, le considerazioni analizzano l’economia italiana nel suo specifico.
Risultano interessanti due posizioni espresse in merito alla produttività del lavoro e al ruolo del PNRR, chiamato a tradurre in risultati lo sforzo finanziario del NextGen Plan, la cui attuazione manifesta preoccupanti lentezze non solo italiane.
Negli ultimi trent’anni, la produttività del lavoro nella UE è cresciuta del 40%, oltre 25 punti percentuali in meno degli Stati Uniti. Dal 2019 il divario si è ampliato: in Europa la produttività è aumentata del 2%, contro il 10 negli Stati Uniti, ivi sospinta soprattutto dai settori a tecnologia avanzata. Questo ritardo riflette principalmente la difficoltà di innovare e – soprattutto – di finanziarla, ricordando che, come sottolineano le Considerazioni Finali, in rapporto al Pil, le imprese europee investono in R&D la metà di quelle statunitensi. La quota prevalente di questi – comunque modesti – investimenti proviene da realtà imprenditoriali presenti da decenni, mentre è debole l’apporto di neo-aziende innovative che prevalentemente vengono fondate e partecipate con la prospettiva, fin dall’origine, di trasferire le attività e anche la domiciliazione fiscale all’estero. Sul fronte dell’intelligenza artificiale, ad esempio, i dati della Banca d’Italia segnalano che i brevetti europei sono meno di un quinto di quelli statunitensi.
Per quanto concerne il PNRR la doglianza che si coglie nel testo è sempre quella relativa ai tempi che intercorrono sistematicamente fra progetti, approvazioni e implementazione.
L’Italia ha finora ricevuto 122mld€ dei 194,4mld€ previsti dal meccanismo di ripartizione; il Piano nazionale ne ha utilizzati la metà. Il versamento delle restanti rate dipenderà dal raggiungimento di obiettivi relativi alla realizzazione di opere pubbliche; i dati attualmente disponibili confermano l’esistenza di ritardi. L’utilizzo dei fondi del NextGen Plan ha sostenuto indubbiamente l’economia comunitaria negli ultimi anni, sostituendosi all’indesiderato, costoso e vigilato aumento del debito pubblico. Ancora più significativa è peraltro la sottolineatura che gli interventi previsti per il biennio 2025-26 potrebbero innalzare il PIL dello 0,5%, raddoppiando il risultato altrimenti previsto. In una fase di debolezza ciclica è essenziale procedere con determinazione nella loro attuazione, come ribadito già l’anno scorso nelle Considerazioni. L’effetto sul 2025 è peraltro già sicuramente sottostimabile.
Pur nelle difficoltà cicliche, l’industria italiana ha imprese dinamiche e competitive, che investono in tecnologie e ricerca e si posizionano in fasce di alta gamma. È urgente, tuttavia, incidere sul costo dell’energia e sulla sua generazione con contratti a lungo termine anti-stress rispetto alla varianza dei prezzi, realizzando infrastrutture e reti di trasmissione.
Il basso livello dei salari riflette un’altra debolezza: in linea con la stagnazione della produttività, le retribuzioni reali sono cresciute molto meno che negli altri principali paesi europei. Fino alla pandemia, l’aumento era stato appena del 6%. Il successivo shock inflazionistico ha riportato i salari reali al di sotto di quelli del 2000, nonostante il recupero in atto dallo scorso anno. «Per garantire un aumento duraturo delle retribuzioni è indispensabile rilanciare la produttività e la crescita attraverso l’innovazione, l’accumulazione di capitale e un’azione pubblica incisiva», avverte Panetta.
Negli ultimi cinque anni, nonostante le crisi pandemica ed energetica, l’Italia ha mostrato segni di una ritrovata vitalità economica con crescita superiore a quella dell’area dell’euro. Il Pil è aumentato di circa il 6%, con un incremento di quasi il 10 nel settore privato. Oltre che dalle costruzioni (con negativo impatto però sul debito), un contributo significativo è venuto dai servizi, in espansione sia nei comparti tradizionali sia in quelli avanzati. Gli occupati sono aumentati di un milione di unità, raggiungendo il massimo storico di oltre 24 milioni; il tasso di disoccupazione è sceso dal 10 al 6% con le regioni del Mezzogiorno che hanno registrato uno sviluppo leggermente superiore alla media nazionale. In prospettiva, tuttavia, il profilo statistico della forza lavoro sarà influenzato dalla attesa riduzione della popolazione a causa del calo demografico nei prossimi 15 anni.
In merito, infine, al settore bancario ed i suoi sempre più ampi contorni, secondo l’ultimo report di Scope Ratings, l’agenzia di rating europea riconosciuta dalla BCE, “l’intensificarsi delle dinamiche competitive e strategiche, sta accrescendo il rischio di execution: le banche potrebbero sovrastimare i target o concretizzare combinazioni sub-ottimali”.
Le considerazioni propongono riflessioni sul risiko bancario. Fedele al suo stile, lo fa mantenendo distacco e neutralità, indicando i principi che, a suo avviso, devo guidare le diverse operazioni in atto. Si denota anche un preciso richiamo all’indipendenza di giudizio anche delle altre componenti politiche e sociale coinvolti nelle vicende.
Viene evidenziato che tre anni di elevati profitti (seguiti peraltro a diversi anni di risultati non brillanti) hanno messo a disposizione delle banche più rafforzate risorse significative, oggi impiegate per avviare iniziative che ridurrebbero la frammentazione del mercato creditizio italiano (un obiettivo indicato anche dalla BCE), avvicinandone il grado di concentrazione a quello degli altri principali paesi europei. Da rappresentante della Banca d’Italia si rileva anche la soddisfazione per le prospettive di crescita del sistema da essa vigilato.
Tuttavia, le ambizioni di singoli intermediari non devono mai scontrarsi con la qualità del servizio. “Le aggregazioni rappresentano un delicato momento di discontinuità nella vita degli intermediari. Devono servire a rafforzarli, e a questo scopo è necessario che siano ben concepite e volte unicamente alla creazione di valore. Creare valore significa, innanzitutto, offrire a imprese e famiglie finanziamenti adeguati per quantità e costi; strumenti di impiego del risparmio efficaci, trasparenti e a condizioni eque; servizi qualificati e innovativi, coerenti con le esigenze di sviluppo del Paese”.
Riporto il testo condividendolo, ma sottolineando che l’offerta di credito è costantemente in riduzione (in termini lordi e soprattutto verso le imprese medie e minori). Questo fattore è proprio uno di quelli evidenziati da chi si oppone, contrasta e rigetta quasi tutte le operazioni di M&A proposte, distinguendo le attese degli shareholders e quelli di molti stakeholders. Lo stesso fattore resterà dovere di indirizzo (non di vigilanza) per la Banca d’Italia quando il risiko troverà le sue ancora imperscrutabili conclusioni.
Ultima necessaria sottolineatura impone di ricordare che in diversi casi di OPA e OPS, la competenza di verifica e autorizzazione spetta alla BCE. Aggiungerei anche al mercato, come mia costante convinzione maturata ed espressa nei citati cinquanta anni.