IL NUOVO CORSO
I messaggi delle banche centrali

Siamo alla fine del lungo periodo di tassi ultra-bassi? Fed, Bce e BoE hanno fatto le prime mosse. La motivazione? Un'inflazione che comincia a preoccupare

Paola Pilati

I banchieri centrali di Usa, Gran Bretagna ed Europa hanno rotto l’incantesimo che li aveva paralizzati finora e nelle decisioni prese questa settimana – ma soprattutto nella direzione di marcia di lungo periodo – hanno segnalato ai mercati che i mesi a venire saranno molto più movimentati di quelli a cui sono stati abituati finora. È stato come se improvvisamente da un film alla Bergman, tutto impegnato a raccontare le vicende di un mondo interiore, fatto di attese, prudenze, sussulti dell’anima e increspature della coscienza, la narrazione delle banche centrali sia passata a un film di Spielberg (ma per fortuna non ancora di Tarantino).

Jay Powell ha annunciato che la Fed raddoppia il ritmo del tapering, cioè della riduzione degli acquisti di titoli di Stato, tagliando 20 miliardi al mese per scendere a 40 miliardi al mese (e a 20 miliardi gli acquisti di mortgage-backed securities). Per marzo il piano di acquisti sarà quindi concluso.

Quanto ai tassi, le previsioni li fanno salire allo 0,75-1% nel 2022 ; all’1,5-1,75% nel 2023; al 2-2,25% nel 2024. Una raffica di due-tre rialzi all’anno, partendo dall’attuale 0,25%, che metterà molto pepe sugli umori dei mercati, abituati a un decennio di tassi ultra-bassi, fino alla “normalizzazione” prevista appunto nel 2024. Ma che per ora non agita più di tanto i mercati stessi, visto il confortante andamento – certificato anche dal capo della Fed – dell’economia Usa e dell’occupazione. Tanto che la Borsa ha subito festeggiato.

Ad aver infranto l’incantesimo che teneva i banchieri immobili è il fatto che l’inflazione, l’elefante nella stanza a cui le banche centrali non voleva fare caso, è diventato troppo ingombrante e dall’incerta evoluzione. E i mercati preferiscono comunque avere a che fare con tassi in salita piuttosto che con l’incubo di un’inflazione che riduce il valore degli asset.

Anche da questa parte dell’Atlantico il clima è cambiato. La Bce ha dichiarato che il PEPP, il piano straordinario di acquisti per l’emergenza pandemica, non andrà oltre marzo, e solo per evitare scompensi si potrà aumentare temporaneamente l’altro programma di acquisti, l’APP, raddoppiandolo a 40 miliardi nel secondo trimestre, scendendo a 30 nel terzo e tornando a 20 a ottobre 2022.

Una rete di sicurezza che lancia ai mercati il messaggio che il conducente tiene tutto sotto controllo, e che lo scenario va a loro vantaggio. Ma l’ammissione che le previsioni sull’inflazione vanno riviste al rialzo – sono state ritoccate per la quinta volta le stime di quella per il 2022 al 3,2% – le incertezze del Covid e gli appuntamenti elettorali in Italia e Francia sono i motivi per cui Christine Lagarde, come ha osservato l’Omfif, non vuole rischiare di gettare benzina sul fuoco, con il rischio di un aumento dello spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi.

D’altra parte, se la parola d’ordine venuta da Francoforte è “flessibilità”, e quindi mani libere, prima o poi un ritocco dei tassi ci sarà anche da questa parte dell’Atlantico, scommettono gli osservatori, e non tanto oltre il 2023.

La Bank of England ha invece deciso subito. Il ritocco di 15 punti base – da 0,1 a 0,25% – non è granché: troppo poco per avere un impatto sull’economia, e anche per compensare la caduta dei tassi reali dovuta a un’inflazione che corre al 5,1%. Ma è appunto un messaggio, ha il valore di un avvertimento. La BoE ha battuto un colpo, e anche se è stato il ruggito di un topolino, come l’ha definito Alessandro Fugnoli sul suo Il Rosso e il Nero, o confermi che i banchieri centrali possono fare poco contro l’inflazione, come sostiene il FT, è comunque l’unico messaggio a cui poter dare retta.