GLOBALIZZAZIONE
I guai di Xi e le convenienze dell'Occidente

I problemi dell'economia cinese non sono solo un rompicapo per Xi Jinping, ma hanno ripercussioni anche su di noi. Prendiamo per esempio l'alto tasso di risparmio cinese e il suo utilizzo...

Paola Pilati

Dopo aver costruito un superpower globale, dopo aver dimostrato nel corso degli ultimi 4 decenni di avere un‘economia inarrestabile, con una capacità di rilancio e di crescita senza uguali, la Cina di Xi Jinping appare oggi al mondo come un gigante legato. Per la prima volta, i suoi problemi si chiamano alto indebitamento, crisi del mattone, disoccupazione, proprio come una economia qualsiasi.

Se nel 2018, nel pieno della crisi commerciale con gli Usa, Xi ammoniva che perdere la fiducia nella solidità dell’economia cinese sarebbe stato un errore, perché «L’economia cinese non è lago, ma un oceano», che quindi non viene sconvolto né dai venti e né dagli uragani, ora viceversa tace, mentre il Fondo Monetario riduce la previsione di crescita del paese al 4,5% nel 2024 per arrivare al 3% a fine del decennio. Un ritmo che in Occidente farebbe stappare champagne, ma che è nulla rispetto ai ritmi a due cifre del miracolo cinese. 

Il governo di Xi e la sua politica economica si trovano di fronte a un vespaio di problemi, per i quali le ricette del passato, dai pacchetti di stimolo (come dopo la Grande crisi finanziaria) o i finanziamenti per spingere il settore casa, non sono più a portata di mano. Molto meglio silenziare i dati negativi, come è successo a luglio, quando dopo l’ennesimo annuncio mensile che la disoccupazione giovanile era cresciuta, superando il 21 per cento nelle aree urbane, Xi ha deciso di sospenderne la pubblicazione.

Quello che non può nascondere è il terremoto che sta facendo tremare il real estate, il settore che è stato il driver principale della crescita. Il più importante operatore immobiliare cinese, Country Garden, che sembrava indenne dal contagio che aveva fatto fallire molti altri operatori carichi di debiti e con gli appartamenti invenduti, sta affrontando la stessa sorte, combattendo con le scadenze di quasi 200 miliardi di dollari di debito. «Può essere il canarino nella miniera», ha commentato l’economista di Harvard Kenneth Rogoff.

Questi scricchiolii certo non riescono a minare la solidità di Xi, al suo terzo mandato presidenziale. Anche se qualche voce di critica comincia a circolare in Cina sulla bontà della sua ricetta economica, basata sul controllo dello Stato e sull’accentramento. Come quella di Liu Shijin, economista del governo in pensione, circolata sui social media: «La vecchia ricotta che assicurava crescita stabile non funziona più. Gli imprenditori sono frenati dalla mancanza di fiducia». Il fatto che da un lato si metta la museruola all’iniziativa privata ma poi lo Stato si rifiuti di intervenire ancora con salvataggi pubblici sta trasformando il clima economico in una pentola a pressione, secondo molti osservatori.

Quello che Xi però ormai non può eludere è il tema dell’indebitamento a cui sono arrivati i governi locali. La loro fonte principale di finanziamento è stata finora l’espansione immobiliare: grazie al continuo consumo del suolo hanno potuto guadagnare bene dalla vendita di aree fabbricabili, ma ora questo canale si è chiuso. E poiché i trasferimenti dal governo centrale non sono mai stati sufficienti per espandere i servizi sociali, la strada in cui si sono incamminati è stata quella dell’indebitamento.

Come uscirne? Una soluzione sarebbe quella di una riforma fiscale che introducesse, per esempio, una tassa sulla proprietà. O aprire all’investimento privato nuovi settori di attività. Entrambe soluzioni non facilmente praticabili.

Ma perché sul rompicapo economico di Xi il mondo resta con il fiato sospeso?

La stabilità e la crescita del gigante cinese non sono solo una questione interna, ma un problema che riguarda tutti, visto il peso che ha raggiunto e l’interconnessione con la crescita globale, tanto che alla sua frenata viene addossata la responsabilità di condannare tutto il mondo alla secular stagnation preconizzata da Larry Summers. In un articolo apparso su Project Syndacate a firma dell’economista Daniel Gros si sottolinea per esempio che la Cina condiziona il resto del mondo anche tramite un altro fattore, oltre a quello della sua crescita.

È il fattore legato al suo tasso di risparmio, che supera il 40% del Pil e alla declinante possibilità di trovare una remunerazione a questo risparmio. Questo perché appunto sta andando a monte la possibilità di sfruttare ancora il tasso di crescita dell’investimento immobiliare, che ha già raggiunto e superato la domanda reale del paese. Costruire ancora vuol dire edificare quartieri e città fantasma. L’edilizia insomma non è una soluzione.

Che cosa potrebbe diventarlo? L’aumento dei consumi, a lungo stimolato dal governo, non sembra potersi muovere più di tanto. E anche l’investimento nelle energie rinnovabili, che ha attirato molti investimenti privati, ha già raggiunto il volume di 300 miliardi l’anno ed è difficile che possa crescere di più.

In mancanza di investimenti interessanti, osserva Gros, il risparmio cinese si riversa oltre confine come surplus nel conto delle partite correnti.  Se il tasso di risparmio resta al 40% e l’investimento scende al livello del 30% del Pil, la Cina dovrebbe mantenere un surplus della bilancia dei pagamenti del 10% del Pil: una cifra pari a un ammontare di circa 2 trilioni di dollari. Una grandezza che è molte volte superiore a surplus robusti come quelli vantati in passato da Germania e Giappone.

Un surplus, quindi, che avrebbe un impatto importante sulla bilancia tra risparmi/investimenti a livello globale, ragiona Gros, per esempio eserciterebbe una pressione sui tassi d’interesse, ma spingerebbe anche ad aumentare il protezionismo sulle industrie domestiche contro la concorrenza cinese, peggiorando un trend già in corso.

Invece, sostiene Daniel Gros, su tutta una serie di settori industriali come pannelli solari, batterie, veicoli elettrici, sia l’Europa che gli Usa dovrebbe accogliere positivamente l’investimento della Cina, perché ridurrebbe il costo delle politiche per il cambiamento climatico in Occidente. Peccato che, conclude, l’Occidente stia facendo proprio tutto il contrario.