L’art. 8 del “Decreto Liquidità” prevede una singolare misura, rubricata “Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società”. In pratica, il socio finanziatore che abbia erogato il finanziamento tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020, non dovrebbe restituire gli eventuali rimborsi ricevuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento. La norma è diretta a evitare il possibile freno all’iniezione di liquidità che i soci potrebbero fare avere all’impresa per una pronta ripresa della produzione. Ma presenta insidie su cui il legislatore dovrebbe intervenire
L’art. 8 del D.L. 23/2020 (c.d. “Decreto Liquidità”) prevede una singolare misura, tra quelle predisposte dal Governo per fornire alle imprese strumenti idonei per affrontare la crisi di liquidità.
E cioè la postergazione per i finanziamenti effettuati dai soci nei confronti della società e l’obbligo di restituzione dei rimborsi effettuati ai soci nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento.
La disposizione, rubricata “Disposizioni temporanee in materia di finanziamenti alle società”, recita: “Ai finanziamenti effettuati a favore delle società dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2467 e 2497 quinquies del codice civile”.
La postergazione e gli obblighi restitutori operano quando i finanziamenti siano erogati dal socio in un momento in cui risulta[va] un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento (art. 2467, comma 2, ultima parte, c.c.). Ciò comporta che i soci “finanziatori”, in caso di fallimento della società, possono essere soddisfatti solo dopo gli altri creditori. Più generalmente, la postergazione opera nel momento in cui il finanziamento sia stato erogato quando fosse necessario un aumento di capitale con cui dotare la società di nuovi apporti, per la regolare continuazione dell’attività d’impresa.
L’art. 2467 è, quindi, il mezzo per evitare che il socio, nella sua posizione di creditore della società, alteri il rischio che sopporta tipicamente a spese e in danno degli altri creditori; in sostanza la postergazione “riequilibra” la relazione tra creditori terzi e soci-finanziatori (recte, soci-creditori), quando questi ultimi ledano la par condicio creditorum nei rapporti pregressi con la società, recando un danno ai terzi creditori.
Se, per assurdo, la postergazione del finanziamento non fosse prevista, i soci-finanziatori parteciperebbero alla divisione degli attivi della società alle stesse condizioni e nella stessa misura dei terzi creditori, con il rischio che il credito del socio possa assumere dimensioni tali da consentirgli di preservare buona parte del patrimonio rappresentato dalla sua quota.
Tuttavia, non tutti i finanziamenti dei soci sono di per sé postergati. L’art. 2467 c.c. (e il corrispondente art. 2497-quinquies) distingue nettamente tra il finanziamento del socio erogato alla società per esigenze “fisiologiche” (per esempio, al fine di soddisfare immediate esigenze di cassa), dal finanziamento erogato per esigenze “patologiche” (ad esempio, il finanziamento erogato per dare alla società liquidità sufficiente ad impedire l’accertamento dell’insolvenza o per preservare parte del patrimonio dall’aggressione dei terzi creditori).
La postergazione (e il correlato obbligo del socio alla restituzione dei rimborsi ricevuti nell’anno precedente il fallimento) sarà applicabile in quest’ultimo caso: il socio, erogando finanziamenti in luogo di un ulteriore conferimento, non solo lede in sede di procedura la par condicio creditorum, ma, causa un “artificioso prolungamento” dell’insolvenza, che aggrava il rischio in capo dei creditori, con l’ulteriore effetto di alleggerire il rischio di cui egli stesso è tipicamente portatore.
Fatte le dovute premesse, è necessario esaminare l’inapplicabilità temporanea disposta dall’art. 8, D.L. 23/2020. La norma ha un contenuto poco chiaro e definito: non stabilisce con sufficiente precisione l’ambito della temporanea inefficacia delle norme sui finanziamenti dei soci, considerata la peculiarità dell’art. 2467 c.c.
L’approccio con cui interpretare la temporanea inapplicabilità dell’art. 2467 c.c. ai finanziamenti erogati tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020 può avere effetti dirompenti sulla prassi che li potrebbe caratterizzare.
In primo luogo, se interpretata “troppo letteralmente”, la portata dell’art. 8 sarebbe tale da estendersi a qualsiasi ipotesi di finanziamento dei soci: la formulazione della norma porterebbe a credere che il finanziamento erogato dal socio alla società in una data compresa tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020 non sarebbe postergabile e i rimborsi precedenti al fallimento non sarebbero restituibili per il solo fatto di essere stato erogato o stipulato in questo preciso periodo di tempo, senza che abbia una pur minima rilevanza la situazione di indebitamento o di squilibrio precedente all’erogazione.
Se così fosse, in sede di ripartizione dell’attivo fallimentare, il socio finanziatore che abbia erogato il finanziamento tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020, non dovrebbe restituire gli eventuali rimborsi ricevuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento e, in più, il credito da finanziamento concorrerebbe alla pari con i crediti dei terzi. Inoltre, ai terzi rimarrebbe la sola tutela offerta dalla revocatoria fallimentare per i rimborsi avvenuti prima della dichiarazione di fallimento (che si estenderebbe ai rimborsi effettuati durante un periodo maggiore dei dodici mesi precedenti il fallimento).
Un simile approccio avrebbe devastanti conseguenze in tema di prevenzione di abusi endosocietari, poiché favorirebbe finanziamenti opportunistici dei soci: l’art. 8 sarebbe in contraddizione con le “buone intenzioni” del legislatore poiché squilibra eccessivamente il rapporto triangolare società-creditori-soci in favore di quest’ultimo.
Il finanziamento erogato tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020 risulterebbe “attaccabile” con mezzi di più ridotta portata, e ciò anche nel caso in cui sia un vero e proprio strumento dell’abuso.
Prima di giungere definitivamente a tali conclusioni, però, è utile (e necessario) verificare se sia possibile ricavare una interpretazione alternativa dell’art. 8, D.L. 23/2020: è possibile ricavare alcuni temperamenti alla norma sia rapportandola al contesto emergenziale, sia coordinandola con la “garanzia SACE” e il potenziamento del Fondo per le PMI contenute nello stesso Decreto.
In primo luogo, l’emergenza sanitaria in cui ci troviamo si tradurrà, con ogni probabilità, in crisi economica (precisamente una crisi di liquidità) e non sarà infrequente che dopo il 15 giugno 2020 (data di scadenza del c.d. blocco dei fallimenti) le sezioni fallimentari si riempiano di nuove istanze provocate da questo periodo di chiusura obbligatoria.
In vista della riapertura, non prevedere una limitata inapplicabilità dell’art. 2467 c.c. per le società avrebbe significato trovarsi sistematicamente in una situazione di eccessivo squilibrio patrimoniale secondo la definizione dello stesso art. 2467, e ciò anche a causa dell’aumento dell’indebitamento causato dai finanziamenti garantiti da SACE o dal Fondo per le PMI.
È chiaro che, in una situazione del genere, i soci avrebbero avuto un immenso disincentivo a erogare immediati (e paralleli) finanziamenti alla società poiché, altrettanto sistematicamente, i finanziamenti sarebbero stati postergabili (e questo nonostante la considerevole elasticità dell’art. 2467 c.c.).
Allora diviene evidente la ratio dell’art. 8: la norma esclude l’applicazione dell’art. 2467 poiché va favorito, anche per forza di cose, il più immediato (anche se più rischioso) tra i canali di finanziamento per l’impresa; in pratica l’art. 8 può essere letto come misura diretta a “normalizzare” il nuovo (e futuro) indebitamento dovuto alla chiusura per l’emergenza sanitaria e, anzi, fortemente agevolato dalle altre misure appositamente previste dal Governo.
In sintesi la norma è diretta a evitare il possibile freno all’iniezione di liquidità che i soci potrebbero fare avere all’impresa (con ancor più immediatezza di altri strumenti) per una pronta ripresa della produzione.
Quindi, da un lato il legislatore agevola tutte le imprese che si troveranno in una situazione di eccessivo squilibrio patrimoniale e favorisce il “credito endosocietario” con la temporanea “parificazione” tra soci finanziatori e creditori comuni e, dall’altro, esclude implicitamente l’indebitamento “nuovo” (in particolare quello dotato della garanzia di SACE o del Fondo per le PMI) dai casi di eccessivo squilibrio nell’indebitamento che avrebbero ordinariamente “attivato” la postergazione e gli obblighi restitutori in caso di fallimento.
Quindi, sembrerebbe ragionevole interpretare l’art. 8 del Decreto non come una inapplicabilità tout court dell’art. 2467, ma solo dei suoi effetti. In questo senso, la norma ridefinisce temporaneamente (quasi ad essere una provvisoria interpretazione autentica) del concetto di “patologicità” del finanziamento, valorizzando il momento in cui si sia verificato lo squilibrio. Ne consegue che non sarà “patologico” il finanziamento erogato dal socio anche alla società in condizioni di squilibrio patrimoniale quando queste siano sorte o riconducibili alla pandemia e che sia comunque proporzionato alle esigenze finanziarie sorte per la pandemia.
La postergazione e i correlati obblighi restitutori per i rimborsi avvenuti nell’anno precedente il fallimento risulterebbero, allora, inapplicabili solo per il finanziamento che rispetti queste condizioni e, quindi, che sia erogato al fine di fronteggiare nell’immediato le conseguenze dell’emergenza sanitaria o, ancor più, per sostenere gli sforzi funzionali alla riapertura.
In questo senso, la sospensione allora non dovrebbe coprire tutti i finanziamenti solo perché erogati tra il 9 aprile e il 31 dicembre 2020, ma coprirà i finanziamenti erogati in questo periodo per le società il cui squilibrio patrimoniale sia insorto alla data delle prime misure di contenimento risalenti al mese di febbraio o, comunque, in seguito e a causa della chiusura imposta dal D.P.C.M. 11 marzo 2020.
L’art. 8 del D.L. 23/2020, purtroppo, non permette con certezza di avallare la seconda interpretazione, pur essendo più ragionevole e coerente con l’esigenza di prevenire gli abusi endosocietari.
È auspicabile (e urgente) che il legislatore si accorga di questa problematica e agisca di conseguenza, introducendo un correttivo alla norma o una integrazione che ne precisi l’estensione, così da chiarirne anche i potenziali effetti. Diversamente, solo un intervento della giurisprudenza riuscirebbe a determinare con più certezza il contenuto e i limiti dell’art. 8, a fronte, però, di ingenti costi sociali.
L’inerzia del legislatore, peraltro, potrebbe avere effetti imprevedibili e deleteri per la ripresa degli affari: in attesa di una pronuncia “di peso”, la norma si presterebbe troppo ad interpretazioni “abusive”. Ciò costituirebbe, nell’immediato, un danno ai creditori delle società finanziate dai soci e, nel lungo periodo, potrebbe contribuire a generare “reazioni a catena” che, prevedibilmente, potranno minare la fragile fiducia degli intermediari, frenando l’erogazione di quello stesso credito che il Decreto vorrebbe agevolare.
Rebus sic stantibus, la norma, poiché circondata da grandi incertezze, potrebbe provocare una paralisi del mercato e del credito, vanificando gli sforzi e normativi e amministrativi del Governo per preparare la ripresa della produzione. Una “leggerezza” cui il legislatore dovrà porre un adeguato rimedio.