I difetti dell’euro, le regole da rivedere
Giovanni Parrillo
Parrillo

Il convegno organizzato da Formiche, Il sistema bancario italiano nell’eurozona e nella UE. Il rapporto con l’economia reale, si proponeva già dalla scelta dei relatori di illuminare le zone buie dell’effetto euro sulla crescita del Paese. Dalle analisi sono state rilanciate critiche alle scelte del passato, e non sono state risparmiate accuse ad alcune istituzioni come la vigilanza unica, “ossessionata” dal requisito di capitale delle banche. Alla fine, l’indicazione di policy è stata certamente sì alla UE e all’euro, ma attenzione a negoziare (e rinegoziare) le regole.

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Il grande protagonista del convegno è stato Antonio Fazio. In una sala gremita di personalità del passato, l’ex Governatore della Banca d’Italia, ha parlato per un’ora, in piedi, con grande verve e andando anche alla lavagna, per trarre le conclusioni dei lavori: «Ero contrario all’euro perché rischioso per il Paese, ma come ogni buon generale ho schierato le truppe, eseguito gli ordini e siamo entrati nella prima fascia di aderenti» ha ricordato.Alle Commissioni parlamentari, che allora gli chiesero conto delle sue perplessità, «Spiegai che in una area monetaria la variabile da tenere sotto controllo sono i conti con l’estero e non i conti pubblici».

Oggi Fazio tira le somme della scelta di aderire alla moneta unica con una tabella che ne fotografa l’effetto sull’Italia, condannata ad una bassa crescita per carenza di investimenti e per una politica fiscale miope:


«Se un paese all’interno dell’aera monetaria ha un surplus eccessivo della bilancia dei pagamenti crea deflazione». Ecco perché la variabile da tenere sotto controllo è quella dei conti con l’estero prima dei disavanzi pubblici. Nel caso della Germania il surplus è stato di 300 miliardi di euro. E se anche l’Italia ha registrato un surplus, questo è dovuto alla recessione, cioè alla riduzione di consumi e investimenti. Gli investimenti produttivi, infatti, sono calati in Italia del 18% negli ultimi quindici anni, contro una crescita nel resto d’Europa pari al 26%.

Come si esce da questa trappola?Ecco i consigli per l’oggi. Secondo l’ex governatore occorrono massicci investimenti. Piuttosto che negoziare deroghe al deficit complessivo – che pure vi sono state – i politici dovrebbero assicurarsi i mezzi per il finanziamento di forti investimenti per ammodernare le infrastrutture fisiche e digitali del Paese.

Esempi non ne mancano. Dalla crisi del ’29 si uscì con il new Deal di Roosevelt; la presidenza Kennedy all’inizio degli anni ’60 lancio la “lotta alla povertà”; l’amministrazione Obama ha stanziato circa 1.300 miliardi di dollari per uscire, con successo, dalla Grande Recessione. «Occorre un salto di qualità», ha concluso Fazio, con una politica economica che punti decisamente su investimenti, ricerca e difesa dell’occupazione. «Perdiamo capitale umano con l’emigrazione dei giovani laureati. Ci vuole il lavoro! Quello su cui è fondata la Repubblica».

Gli altri interventi hanno sottolineato le asimmetrie della politica economica e di vigilanza europea.

Nella sua limpida introduzione, Giuseppe Di Taranto (professore alla Luiss) ha spiegato che l’architettura della Vigilanza Unica tende sempre ad avvantaggiare i paesi del Nord Europa e le loro banche. In particolare il passaggio dal bail-out al bail -in è avvenuto in maniera acritica da parte italiana e dopo che gli altri paesi avevano fatto enormi interventi pubblici a favore delle banche, a differenza nostra. Anche se le finalità del burden sharing erano giuste (tutelare la finanza pubblica e responsabilizzare maggiormente amministratori e azionisti) numerosi sono i punti critici del sistema. Oltre alla retroattività, inspiegabile per un risparmiatore che ha investito in obbligazioni di banche che “in Italia non falliscono mai”, il meccanismo opera soprattutto con un’architettura incompleta, il vulnus principale è che non c’è ancora un sistema europeo di assicurazione dei depositi, né sembra che ci sia accordo per realizzarlo. Inoltre, gli indicatori di solvibilità, incentrati sul patrimonio e sulle sofferenze, sembrano fatti apposta per penalizzare paesi come l’Italia, che ha perduto un quarto del suo sistema industriale nella Grande recessione, con conseguenze immediate sui crediti bancari che rappresentano l’80% delle fonti di finanziamento delle imprese, mentre non vengono sufficientemente pesati i rischi insiti nei derivati e nei crediti ai Paesi emergenti, di cui sono piene le banche del Nord Europa.

Numerose critiche sono state avanzate anche dagli altri relatori circa l’efficacia della vigilanza bancaria. In particolare i rilievi sono stati rivolti al nuovo sistema di accantonamento al 100% delle sofferenze richiesto dalla Vigilanza Europea e soprattutto dai meccanismi che impongono la rimozione dai bilanci di queste poste. Se le sofferenze sono accantonate al 100% non si capisce perché debbano essere frettolosamente svendute ai Fondi Statunitensi, ha sottolineato Paolo Fiorentino, AD di Carige. Inoltre, l’abbattimento delle sofferenze provoca, in un circolo vizioso, la riduzione del capitale, generando daccapo esigenze di ripatrimonializzazione.

Angelo De Mattia (già direttore centrale Banca d’Italia) ha sottolineato come la Vigilanza Unica trascuri il principio di sussidiarietà. L’art. 127 del Regolamento (UE) n. 1024/2013 del Consiglio, del 15 ottobre 2013, “che attribuisce alla Banca centrale europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi” prevede appunto il trasferimento di “compiti specifici”, non il trasferimento in toto dei poteri della vigilanza. Questo trasferimento rappresenta una vera e propria “deroga al Trattato UE”, il quale si fonda sulla sussidiarietà e non sull’accentramento. Non si tratta di riappropriarsi di un potere per la vigilanza italiana, ma del fatto che, da lontano, il controllo si esercita con regole meccaniche che possono risultare inadatte se utilizzate a prescindere dai contesti in cui si sviluppano le attività economiche, con il risultato che tali regole, prima fra tutti quella degli scaduti a 90 giorni, spingono le aziende verso la crisi. L’ “ossessione sul patrimonio” è un sistema che tutela il burocrate controllore, così come la regola di accantonamento automatico delle sofferenze a prescindere dalle garanzie.

Quasi a rispondere a questa osservazione, Fabrizio Palenzona (già vice presidente Unicredit) e Divo Gronchi (presidente cassa risparmio San Miniato) hanno sottolineato l’importanza della prossimità della banca al cliente e come gli attuali assetti produttivi, generando un accentramento delle decisioni di credito, spesso privilegiano il controllo dei costi, ma rendono le decisioni meno sicure e prive di quella valutazione diretta che spiega moltissime cose. Palenzona ha sottolineato quindi la necessità per le banche di recuperare una cultura del rischio diffusa a livello capillare, per assistere adeguatamente le imprese italiane.

Il messaggio di sintesi che si può ricavare dal convegno, è che le regole ci sono e vanno rispettate. Ma le regole non sono dogmi – soprattutto quando nascono da regolamenti e direttive e non dai Trattati – e l’impegno a rinegoziare queste regole e la loro applicazione va mantenuto alto da parte della classe politica. Anche se nessuno ha vagheggiato un’assurda uscita dall’euro, che rappresenterebbe una vera catastrofe finanziaria, le critiche alla politica italiana in Europa non sono mancate.

Solo un caso che cadano in piena stagione elettorale, che alimenta fiere discussioni sulla partecipazione e il ruolo dell’Italia nella UE e nell’euro? Certamente no. Ma riteniamo che offrirli al lettore stando ai fatti favorisca la circolazione delle idee e il confronto per cui Financial Community Hub è nato. Riteniamo, in definitiva, che l’analisi e i problemi sollevati nel dibattito qui sintetizzato vadano utilizzati per migliorare la nostra partecipazione al sistema europeo e per trovare finalmente una strada per il rilancio del paese, non per essere strumentalizzati in campagna elettorale.