approfondimenti/politica economica
I conti sballati del reddito di cittadinanza

La socialità del nostro Paese risulta essere inadeguata all’attuale contesto occidentale come emerge da pochi dati: le pensioni sono molto avare negli importi; la disoccupazione è alta; c’è una endemica carenza di servizi sociali alla famiglia e un’ampia dispersione nella distribuzione dei redditi. L'Italia impiega nella “spesa sociale propriamente detta” soltanto l'11,9% del PIL, a fronte di una media europea del 13,4%; per quanto riguarda i “cash tranfers”, al contrario, il dato italiano (16,8%) è praticamente in linea rispetto ai Paesi al vertice della classifica europea. La discrasia tra i due aggregati mette in evidenza il tipo di squilibrio da cui è affetta la spesa previdenziale italiana, ossia che i fondi dedicati alla “spesa sociale propriamente detta” accusano un sensibile ritardo, mentre i fondi destinati ai “trasferimenti sociali”, nel loro complesso, si situano allo stesso livello rispetto a quelli delle altre grandi democrazie europee. Per far fronte a queste criticità, il Movimento 5 Stelle ha ipotizzato l’introduzione del “reddito di cittadinanza”, che sembra però più uno strumento di propaganda politica che la soluzione ai problemi di socialità del Paese. Il reddito di cittadinanza, infatti, risulta affetto da gravi carenze che ne inficiano la realizzabilità, almeno nelle forme prospettate.

Franco Cavallari

Il nostro Paese, uno dei sei fondatori dell’Unione Europea, ha probabilmente preso coscienza che la lotta alla povertà rappresenta una priorità non più rinviabile, specialmente nell’attuale fase storica in cui l’Italia, oltre a consolidare il suo status di potenza industriale, intende ritagliarsi un ruolo propulsivo nella riproposizione dei valori fondativi dell’Unione. E’ stato ormai dimostrato che il conseguimento di uno standard di socialità adeguato all’attuale contesto occidentale rappresenta un obiettivo fondamentale anche sul piano dello sviluppo del reddito: specifiche politiche di inclusione delle classi meno abbienti possono, in realtà, contribuire sensibilmente ad attenuare gli effetti recessivi della grande diseguaglianza nella distribuzione del reddito, accumulata durante i decenni passati.

Senza entrare nel vivo di un’analisi approfondita della spesa sociale italiana, basteranno pochi dati per dare un’idea complessiva della situazione attuale della nostra “socialità”. L’OECD suddivide la “spesa sociale complessiva” in due parti: la “spesa sociale propriamente detta” e i “cash tranfers”, comprendenti, questi ultimi, tutti i tipi di trasferimenti in danaro (pensioni, assegni familiari ecc.). Il confronto tra queste due serie evidenzia un’anomalia di grande rilievo consistente nell’evidente disallineamento della prima serie rispetto ai dati degli altri Paesi europei. L’Italia impiega nella “spesa sociale propriamente detta” soltanto l’11,9% del PIL, a fronte del 12,1% della Spagna, del 14,3% della Germania, del 15,1% del Belgio e del 16% della Francia, con una media dell’Europa a 21 Paesi intorno al 13,4%; per quanto riguarda i “cash tranfers”, al contrario, il dato italiano (16,8%) è praticamente in linea rispetto ai Paesi al vertice della classifica europea, come l’Austria (17,5%) e la Francia (17,1%).

La discrasia tra i due aggregati indica con chiarezza il tipo di squilibrio da cui è affetta la spesa previdenziale italiana, ossia che i fondi dedicati alla “spesa sociale propriamente detta” accusano un sensibile ritardo, mentre i fondi destinati ai “trasferimenti sociali”, nel loro complesso, si situano allo stesso livello rispetto a quelli delle altre grandi democrazie europee.

Per quanto riguarda i primi, vale a dire in materia di spesa per servizi sociali, la carenza dei fondi pubblici dedicati ha determinato un ritardo considerevole     del nostro Paese nella fornitura ai cittadini del servizi sociali divenuti ormai essenziali per una democrazia moderna. Manchiamo di asili nido che rendano meno difficoltoso il lavoro femminile, di strutture per l’assistenza agli anziani, di ambulatori che facilitino la maternità nei primi anni di vita del bambino; tutti servizi che contribuiscono efficacemente ad alleviare la condizione di povertà relativa nei ceti meno abbienti.

In merito ai secondi, vale a dire per i fondi stanziati in materia di “trasferimenti sociali”, va rilevato che essi, ancorché consistenti, si disperdono in un numero enorme di prestazioni (circa 21 milioni), erogate a circa 16 milioni di aventi diritto, con una distribuzione che presenta, peraltro, una grande divaricazione tra gli importi minimi e quelli più elevati

Il Rapporto annuale dell’INPS per il 2015, i cui dati non sono perfettamente coincidenti nelle definizioni con quelli dell’OECD, descrive, sostanzialmente, una realtà identica: le “prestazioni pensionistiche previdenziali” sono poco più di 17 milioni, cui vanno aggiunte quasi 4 milioni di “prestazioni pensionistiche assistenziali”. Le “previdenziali” registrano un importo medio lordo di poco superiore ai 1.000 euro mensili (per 13 mensilità), con un’ampia dispersione intorno alla media. Esse comprendono, infatti, quasi 5 milioni di prestazioni per le “gestioni lavoratori autonomi e parasubordinati”, il cui importo medio mensile lordo si situa intorno ai 650 euro. Le “assistenziali” (quasi 4 milioni) hanno una media di poco inferiore ai 400 euro mensili lordi (sempre per 13 mensilità), contribuendo ad abbassare la media complessiva delle pensioni a circa 850 euro lordi mensili.

L’INPS calcola il numero di pensioni inferiori a 1000 euro intorno ai 6,5 milioni prendendo a riferimento gli importi lordi, mentre l’OECD calcola in più di 13 milioni le pensioni inferiori a 1000 euro in quanto considera gli introiti netti da parte dei pensionati.

Questi pochi dati descrivono una realtà molto generosa nel numero delle pensioni, ma molto avara negli importi per milioni di pensionati; una realtà che, unitamente al tasso di disoccupazione, rende molto efficacemente l’idea della preoccupante situazione sociale del Paese. Un contesto molto disarticolato che contempla, oltre a una endemica carenza di servizi sociali alla famiglia, un’ampia dispersione nella distribuzione dei redditi, su cui pesano una “povertà assoluta” quasi da terzo mondo (circa 4,5 milioni) e un numero impressionante di cittadini intrappolati nella “povertà relativa” (circa 10 milioni).

A questo profondo disagio della nostra socialità, il Movimento 5 Stelle ha cercato di dare una risposta; dopo le promesse inevase dei governi dell’ultimo trentennio, essa raccoglie sotto la definizione di “reddito di cittadinanza” un’ipotesi di soluzione all’ampia serie di criticità che caratterizzano la società italiana. Alla base di questa iniziativa vi sono intendimenti positivi riguardo alla soluzione di diversi problemi sociali, ma lo strumento previsto per porvi rimedio, appunto il “reddito di cittadinanza”, sicuramente performante dal punto di vista propagandistico, risulta affetto da gravi carenze che ne inficiano la realizzabilità, almeno nelle forme prospettate.

Vediamo le grandi linee della proposta, più volte illustrate sui media dallo Stato maggiore del M5S:

a) 780 euro al mese (livello di reddito al limite della “povertà relativa” stabilito dall’ISTAT);

b) da distribuire ai circa 10 milioni di cittadini il cui reddito non supera detto limite;

c) con un onere per lo Stato di circa 14 miliardi l’anno, più 2 miliardi una tantum;

d) l’importo del contributo è ad integrazione del reddito, entro il limite di 780 euro mensili.

Non conosciamo la struttura dei redditi posseduti dai 10 milioni di “poveri relativi” assunta dal Movimento per i calcoli, ma, qualunque essa sia, basta una semplice divisione per stabilire checon una copertura di 14 miliardi si possono dare, in media, solo circa 117 euro al mesea ciascuno dei 10 milioni di potenziali aventi diritto; considerando poi che nel nostro Paese vi sono più di 3 milioni di disoccupati, si può fare l’ipotesi (minimale) che solo un milione di essi non abbia altri redditi. In tal caso, occorrerebbe distribuire loro per intero i 780 euro al mese, con una spesa totale di circa 9 miliardi dei 14 stanziati. Resterebbero 5 miliardi, da distribuire “ad integrazione” agli altri 9 milioni di “poveri relativi”, il che consentirebbe una elargizione media di circa 46 euro al mese.

Questo è il conto essenziale e, in proposito, sorprende che, dei tanti giornalisti che affollano i talks, anche tra i più qualificati, nessuno abbia mai sollevato un’obiezione del genere dinanzi alla reiterata riproposizione dei termini del provvedimento descritti in precedenza.

Quanto al Movimento, v’è da dire che difficilmente si riesce a tenere sotto controllo la complessità di problemi che non consentono soluzioni semplici se, preoccupati di mantenere l’unità degli orientamenti programmatici, si aborriscono le discussioni costruttive e le riflessioni critiche, richiedendo ai propri esponenti la ripetizione pedissequa di linee politiche elaborate altrove. Con una simile piattaforma organizzativa non è del tutto fuori luogo sospettare che il Movimento non possieda sufficiente maturità politica per governare un paese come l’Italia.

Il disegno di legge depositato in Parlamento (consultabile sul sito della Camera dei Deputati) tradisce, in effetti, un certo dilettantismo, presentando un intricato coacervo di eccezioni e contro eccezioni. Vi si incontrano casi di maggiorazione per comportamenti “virtuosi” (che qualcuno dovrebbe accertare) e viceversa di decurtazioni per comportamenti “non conformi” e per situazioni particolari, come il riferimento al reddito familiare (anch’esso non facile da accertare), ecc..

In disparte le considerazioni circa le difficoltà insite nel concreto esercizio delle funzioni amministrative da svolgere da parte di una PA chiamata ad operare con strutture inadeguate in un contesto economico-sociale quanto mai complesso; giova rammentare, in proposito, che si tratta di quelle stesse strutture che da decenni si sforzano di ridurre, con scarso successo, l’enorme evasione fiscale e contributiva che affligge i nostri conti pubblici.

Un’ulteriore prova della carenza del progetto è fornita dal totale silenzio relativamente alle modalità del reperimento dei milioni di posti di lavoro adeguatamente remunerati da offrire alla scelta di ciascuno dei 3,5 milioni di disoccupati (si ipotizzano tre opzioni per ciascun lavoratore, la cui mancata accettazione farebbe decadere il loro diritto al “reddito”); a ciò deve aggiungersi l’assenza di qualsiasi indicazione concernente l’allestimento in poco tempo di una struttura, peraltro costosissima, in grado di offrire una valida qualificazione professionale ai milioni di disoccupati, sottoccupati, apprendisti e quant’altro.

Sorvolando sull’affastellarsi di strutture e di norme del disegno di legge inadatte a fronteggiare efficacemente le enormi difficoltà che comporta l’amministrazione di uno Stato democratico moderno, il disegno di legge relativo al reddito di cittadinanza somiglia molto alle distribuzioni gratuite di grano ai cittadini dell’antica Roma, che lo stesso Giulio Cesare, nel pieno dei suoi poteri, riuscì a stento a limitare al fine di arginare il parassitismo ed il clientelismo.

Il reddito di cittadinanza, nella forma poliedrica presentata dal Movimento, volta a dare soluzione ad un insieme di problemi sociali molto eterogenei, come la povertà, l’occupazione, la formazione professionale, le pensioni minime, ecc. non esiste in alcun Paese; esistono, però, in molti Paesi dispositivi volti alla protezione sociale che, sotto forme diverse, affrontano i vari problemi nella loro specificità. Ed è a queste forme che si dovrebbe fare riferimento.

In realtà, il “reddito di cittadinanza” presentato dal Movimento, come in passato il mito delle due aliquote IRPEF di Berlusconi, che così bene sollecita le orecchie dei populisti, rappresenta una specie di vessillo simbolico, decisamente propagandistico. Posto al centro dei programmi governativi del M5S, questo istituto intenderebbe risolvere d’un sol colpo, e a costi improbabili, una vasta varietà di problemi molto sentiti dai cittadini: un posto di lavoro per disoccupati e sottoccupati, una formazione professionale d’avanguardia per tutti, l’integrazione delle pensioni minime, un reddito di sostentamento per i meno abbienti, ecc..Laddove, invece, queste criticità, che determinano grave disagio sociale,necessitano di politiche specifiche molto diversificate, adatte, ciascuna a suo modo, a fronteggiare la gravità di una situazione sociale molto variegata. Le politiche specifiche di settore devono certamente essere armonizzate tra loro per non creare doppioni, ma non possono essere raccolte in un provvedimento omnibus; in ogni caso, un provvedimento del tipo “reddito di cittadinanza”, per poter essere attuato e dare qualche frutto sostanziale in termini di miglioramento sociale, richiederebbe risorse finanziarie ben più cospicue, almeno 4 volte superiori a quelle calcolate dal Movimento.

In definitiva si tratta di una proposta che, ridimensionata e riformulata nella direzione della lotta alla povertà, attuata in concorso con le comunità locali, potrebbe avere una certa validità nell’attuale contesto sociale italiano. Lasciando da parte il ruolo annunciato di “toccasana” della situazione sociale, che, peraltro, potrebbe suscitare in un secondo momento, un diffuso senso di delusione nella cittadinanza, il provvedimento sarebbe in grado di dare un contributo al miglioramento del clima sociale e anche nelle condizioni di base per lo sviluppo del reddito. Occorre, però, fare attenzione a non propagandarlo come soluzione miracolistica e a non peccare di arroganza, poiché, senza il confronto con le altre forze politiche, la propria asserita unicità politica potrebbe condurre a risultati molto deludenti, in grado di azzoppare ben presto il Movimento, tramutando il suo galoppo, finora vincente, in un breve e più modesto “trotto di asino”.