PREZZI
Greedinflation e wageinflation

Un paper del Fondo monetario attribuisce al settore produttivo il ruolo principale nella crescita dell'inflazione. E suggerisce anche una ricetta per tornare al target del 2 per cento

Paola Pilati

Sarà magari vero, come dice il decano dei sociologi Giuseppe De Rita, che non rischiamo tensioni sociali perché non siamo in un periodo di rabbia, ma il ritorno dell’inflazione a livelli che non si vedevano da più di vent’anni (record oltre il 10 anche se a giugno nell’eurozona è scesa al 5,5) colpisce duramente i bilanci famigliari e forse può cambiare anche il clima collettivo. Spesa alimentare rincarata, attesa dei saldi per lo shopping, vacanze ridotte o eliminate, quadrature di fine mese sempre più sul filo del rasoio.

E che fa il governo? Propone come provvedimento bandiera quello di proteggere i titolari di mutui a tasso variabile dall’aumento dei tassi che la Bce ha portato al 3,5. In quanto costoro esposti, si sa, a un incremento della rata, che credevano eternamente al riparo da sorprese. Un provvedimento che le banche accetteranno, se non altro per contrastare le accuse di essere le sole a guadagnare dal ritorno dell’inflazione.

Sui prezzi di merci e servizi, invece, il governo sembra rinunciare a dare battaglia. Lo potrebbe fare sia dando nuovo vigore all’attività di “mister prezzi”, una sorta di autority che monitora i listini anche su segnalazione dei cittadini, istituita all’interno del Ministero dell’Industria (poi dello Sviluppo Economico, oggi delle Imprese e del Made in Italy), e da anni piuttosto silente; oppure lo potrebbe fare usando la moral suasion propria di un governo “che non si fa intimidire”, come ripete la presidente del Consiglio  in continuazione.

Invece no. E d’altra parte, se i cittadini hanno digerito il boom dei prezzi indotto dai bonus edilizi, che ha rincarato tutti i servizi attinenti all’edilizia anche per chi quei bonus non li ha utilizzati, forse ha ragione De Rita che non c’è voglia di protesta. O che magari le riserve di risparmio ricostruite durante il covid hanno fatto da cuscinetto.

Eppure qualche motivo per protestare ci sarebbe.

Come ha appena dimostrato un paper del Fondo monetario internazionale, una buona parte dell’impennata inflazionistica – soprattutto in Europa  – è dovuta all’incremento dei profitti delle imprese. La “greedinflation” insomma gioca un ruolo centrale sull’incremento dei prezzi, molto più centrale di quello giocato dai prezzi delle importazioni, vale a dire energia e materie prime.

A segnalare il fenomeno erano già stati due personaggi autorevoli come Philip Lane e Fabio Panetta, entrambi membri del comitato esecutivo della Bce e l’ultimo designato a nuovo governatore della Banca d’Italia.

Ebbene, il paper dimostra che le imprese hanno trasferito gli aumenti di costi subìti direttamente sui prezzi, essendo responsabili dell’incremento dell’inflazione per il 45 per cento, più del peso giocato dai prezzi all’importazione, additati notoriamente come i responsabili della fiammata inflazionistica: questi ultimi hanno invece contato solo per il 40 per cento.

Quanto alle retribuzioni, sono rimaste al palo, anzi sono arretrate perdendo nel 2022 il 5 per cento in termini reali. Quindi non hanno contribuito all’avvitamento dell’inflazione, al contrario di quanto accadde nell’evento inflazionistico comparabile all’attuale, vale a dire quello del 1973, con la crisi petrolifera, in cui l’acceleratore era stata proprio la dinamica delle retribuzioni, non quella dei profitti.

Quali sono oggi i settori produttivi maggiormente responsabili dei rincari?

Il settore minerario e le utilities hanno fatto la parte del leone, seguono agricoltura, commercio, viaggi, industria recettiva e prodotti alimentari. Assolta invece l’industria manifatturiera, che non ha fatto rincari.

Il paper si spinge anche a dipingere uno scenario futuro, ma soprattutto tratteggiare un possibile percorso di rientro dell’inflazione. Se da un lato c’è da attendersi che le rivendicazioni salariali spingano verso un aumento dal fattore stipendi, dicono gli autori del paper, dall’altro è necessario che la voce profitti che finora si è mossa senza trovare ostacoli cominci a frenare. Anzi, per far convergere l’inflazione verso il target del 2 per cento per la metà del 2025, come indicano le previsioni del World economic outlook, le buste paga hanno spazio per crescere, ma entro una percentuale del 4,5 tra quest’anno e il prossimo. Quanto ai profitti, se oggi sono dell’1 per cento sopra i livelli pre-pandemia (mentre gli stipendi sono sotto), devono dimagrire della stessa percentuale.

La ricetta c’è, vedremo se i policy maker sapranno seguirla.