MERCATO DELL'ARTE&FINANZA
Gli NFT sono i nuovi tulipani?

La vendita, l’11 marzo scorso da Christie’s, di "The First 5.000 days" dell'artista Beeple (all’anagrafe Mike Winkelmann), un enorme collage di 5000 opere jpeg, per l’equivalente di quasi 70 milioni di dollari (pagati in crypto valuta), ha acceso l'interesse per gli NFTs,i non-fungile tokens. Di che cosa si tratta? E perché ricordano tanto una bolla speculativa del passato?

Silvia Segnalini
Segnalini

Mi hanno chiesto come mai non abbia ancora scritto di NFTs (non-fungible tokens) e del caso, dell’11 marzo scorso da Christie’s, dell’aggiudicazione da parte di Metakovan, pseudonimo del fondatore e finanziatore di Metapurse – il più grande fondo di NFTs al mondo – di un enorme collage di 5000 opere jpeg corredato di NFTs, The First 5.000 days, di Beeple (all’anagrafe Mike Winkelmann), per l’equivalente di quasi 70 milioni di dollari (pagati in crypto valuta). 

La risposta è piuttosto semplice: perché ho la sensazione che si tratti di …tulipani (sì quelli della prima bolla speculativa documentata, nel Seicento in Olanda, nella storia del capitalismo)!

Gli NFTs sono infatti un semplice strumento, poco più che una firma, un PDF, ben poco stabilmente collegato (come vedremo nel prosieguo) con l’oggetto che dovrebbe, per l’appunto, “firmare”…

Andando con ordine, è necessario tenere a mente innanzitutto alcuni semplici dati di fatto:

1.  gli NFTs non sono opere d’arte, né tantomeno supporti artistici o una nuova tecnica artistica per gli artisti che lavorano (da più di mezzo secolo ormai) col digitale. Sono solo delle firme che possono essere associate a qualsiasi tipo di oggetto digitale. Come ad esempio il primo tweet pubblicato nel 2006 da Jack Dorsey, cofondatore e CEO di Twitter, scambiato con tale sistema per l’equivalente di 2,9 milioni di dollari; o i Top Shot della NBA, che “cristallizzano e incorporano” alcuni epici momenti sportivi, scambiati con gli NFTs a cifre importanti nonostante si trovino liberamente fruibili su YouTube;

2. non esiste pertanto una “NFT art”, che è una denominazione decisamente impropria, che ha forse contribuito a creare confusione: all’arte ci si riferisce infatti con nomi che rinviano o al medium con cui viene realizzata o allo stile, e il 99% della c.d. NFT art è semplicemente arte digitale, la stessa che già conosciamo e che è ampiamente accolta nei musei e nelle collezioni da decenni. Anche se, a ben guardare, la maggior parte degli NFTs sono in realtà associati a banali illustrazioni digitali, e solo alcuni ad arte digitale seria: potremmo quindi semmai discutere quale oggetto digitale — in questa fase di estrema eccitazione del mercato — appartenga all’una o all’altra categoria;

3. gli NFTs, per farla breve, non hanno, e non possono avere, alcun impatto “disruptive” (come si usa dire oggi) sulla nostra cultura artistica e visiva. Il c.d. “nuovo mercato dell’arte NFTs” ha solo raggruppato un gruppo diverso di persone facoltose che sta pagando somme ingenti (di crypto valute) per un “qualcosa” che scommettono verrà pagato ancora di più in seguito. Al solito in questi contesti, non importa chi abbia creato tale arte, o se essa sia buona o cattiva, digitale o materiale; 

4. è indubbio che in questo modo un gruppo di artisti che lavora col digitale (ma si vedrà più avanti quanto esiguo sia questo gruppo), ora disponga di un mezzo per entrare in maniera più impattante in un certo “mercato” dell’arte: ma tutto ciò nulla ha a che fare con l’arte o il “mondo” dell’arte, poiché solo negli Stati Uniti il “mercato” e l’arte sono equiparati. Ci sono sempre stati più mercati: ora anche Beeple e altri hanno il loro;

5. non dobbiamo pensare ingenuamente che l’arte digitale associata agli NFTS sia la perfetta espressione del nostro tempo, e nemmeno la perfetta risposta dell’arte ai tempi di una pandemia in cui per avere visibilità il “mondo” dell’arte è migrato bruscamente online: perché gli NFTs sono, al contrario, “invisibili”, e quindi non aiutano in alcun modo la transizione del “mondo” dell’arte sul web, né la fruizione dell’arte online

6. infine, molto importante: gli NFTs oltre che una firma possono semmai essere, nella migliore delle ipotesi, un certificato di proprietà dell’opera associata (qualcosa quindi che assurge ad una funzione non troppo dissimile dalla fattura dell’acquisto dell’opera nella vita reale). Non si tratta sicuramente, infatti, di certificati di autenticità: a meno che l’opera non sia stata coniata anche on-chain (si vedrà come e per quali ragioni questo non accada mai, neanche nel caso di Beeple). E non si tratta nemmeno di certificati di provenienza/tracciamento storico dell’opera cui l’NFT si riferisce: non si può infatti assicurare in alcun modo che il proprietario non rivenda solo l’opera di arte digitale, a qualcuno cui avere anche l’NFT non interessa affatto (per effetto sia della scissione tra metadati “on-chain” e opera/oggetto digitale che è e resta “off-chain”, di cui si dirà a breve; e sia per l’attuale indifferenza del copyright/diritto d’autore per queste questioni, di cui pure si accennerà, per cui si può tranquillamente rivendere l’opera/oggetto digitale senza NFT relativo).

Ciò posto: tentiamo ora qualche ulteriore approfondimento, anche tecnico.

IL COSTO DI MEMORIZZAZIONE

Per fare un NFT, deve essere “coniato” un file digitale (Jpeg, Gif o MP4 che sia): intendendo con “coniare”, un processo computazionale che va registrato sulla blockchain.

A ben guardare però un lavoro di c.d. crypto art (se si vuole mantenere questo termine  improprio) è un lavoro “ibrido”, e forse proprio in questo risiede il suo fascino: vi è, infatti, sicuramente un registro sulla blockchain che codifica la provenienza, e uno smart contract che definisce le condizioni del suo trasferimento.

Ma mentre sarebbe in teoria possibile, e doveroso per chiudere il cerchio, anche immagazzinare il medium in questo registro, di fatto quest’ultimo passaggio è oscenamente costoso: per cui di regola il tokenon-chain” reindirizza semplicemente all’indirizzo di un file – che può facilmente contenere, come già si accennava, sia arte digitale, sia qualsiasi altro oggetto digitale (canzoni, tweets, articoli di giornale) —  file che però si trova “off-chain”, su (addirittura) un diverso server, un sito di stoccaggio (noto tra gli addetti ai lavori come InterPlanetary File System, o più brevemente IPFS).

In questo modo il lavoro dell’artista continua ad esistere in una forma (si direbbe) pre-token, come un file che può circolare liberamente in modo promiscuo, non-autenticato, come fanno tutti gli alti file. Per cui non deve stupire come vi siano artisti, come Rosa Menkman, che hanno scoperto che i loro lavori, nonostante fossero muniti di NFT, erano stati scambiati e venduti senza il loro consenso, a volte anche sotto il loro stesso nome.

Analizzando i rapporti tra IP e NFTs, tutto ciò è infatti perfettamente possibile, in quanto un NFT ha, perlomeno allo stato, rapporti molto incerti e sfumati con il copyright ed il diritto d’autore, e certe pratiche non sono affatto perseguibili, o meglio non lo sono in misura maggiore solo grazie alla presenza di un NFT. 

Questo perché, detto in altre parole, gli NFTs finiscono per non contenere affatto l’oggetto (digitale) in sé, ma solo, per così dire, una sua descrizione, unitamente ai dati proprietari e a tutto ciò che si può trovare nell’IPFS (qualcosa di assimilabile ad un semplice numero di inventario che identifica un particolare dipinto in una galleria o in un database): se quest’ultimo, per qualsiasi causa o motivo, venisse rimosso da internet, l’NFT verrebbe svuotato di contenuto e si resterebbe quindi con un cerino in mano.

In teoria, per ovviare a questo problema, si dovrebbe memorizzare “on chain” (quindi sulla blockchain) anche il medium, il contenuto digitale vero e proprio. Ma provando a fare pochi calcoli si vede come questo passaggio sia insostenibile, essendo il costo della memorizzazione di 1MB di dati su Ethereum variabile attualmente (i valori di scambio su Ethereum cambiano ogni giorno, quindi prendiamoli come parametri approssimativi) tra i $ 5.800 (se eseguito a velocità standard) e i $ 58.000 (se eseguito in modalità veloce). Per intenderci ancora meglio: nel caso di The First 5.000 Days di Beeple, da cui siamo partiti, stiamo parlando di circa 320MB, il cui costo di immagazzinamento sulla blockchain varierebbe tra 1,8 milioni di dollari ed 18 milioni di dollari. Senza contare che, dal punto di vista ambientale, operazioni del genere sono ancora più pesanti, in quanto il costo dell’energia che il sistema dovrebbe impiegare per verificare costantemente la sua integrità, sarebbe più o meno pari al costo dell’energia necessaria in un anno per un Paese di medie dimensioni.

L’ARTE DEL FLIPPING

Quel che è certo, è che il valore delle crypto valute dipende in parte dal volume delle transazioni sulla blockchain: quindi ben vengano, per il mercato e per il fintech, operazioni come quella di The First 5.000 Days, che possono essere utili come operazioni di marketing delle crypto valute per attirare un’audience più vasta (posto che non precisamente tutti i beni possono essere scambiati con le medesime); operazioni che il “mondo” dell’arte chiamerebbe però pittosto “flipping”, veloci passaggi di proprietà di beni, intesi però non come oggetti d’arte, ma piuttosto come “collectibles” (un nome che allude maggiormente a cosa un consumatore può fare con il prodotto).

Nel mondo reale, un artista non ricaverebbe nulla da questi veloci scambi (il “flipping” per l’appunto), ma va detto che anche in questo diverso contesto degli NFTs, le resale royalties che in teoria potrebbero essere programmate in uno smart contract, sono poco più che una chimera, in quanto per l’artista ogni scambio comporta di sicuro solo il pagamento di fees per il network Ethereum: ciò che viene ammantato come supporto per le arti, è in realtà soprattutto un supporto per il tech

Anche l’affermazione secondo cui gli NFTs permetterebbero una decentralizzazione e una democratizzazione per il “mondo” dell’arte e per gli artisti, è in parte troppo ottimistica: gli NFTs sono scambiabili essenzialmente su piattaforme che funzionano da marketplace (l’unicità è riflessa nei nomi dei “selling point” degli NFTs: Rarible, SuperRare, Rare Peps). Su queste piattaforme hanno visibilità solo alcuni artisti, quelli più scambiati, che restano in vetta. Gli altri possono solo sperare di acquisire visibilità aumentando il loro traffico con gli scambi — ma in tal mondo finiscono solo per pagare le fees di cui sopra all’infrastruttura — riproducendo in tal modo l’economia delle piattaforme, decisamente accentrata e controllata, che è tutto fuorché democratica, come ci ha insegnato Shoshana Zuboff nel suo saggio “Il capitalismo della sorveglianza”.

A ben guardare, anche la presenza di una casa d’aste come Christie’s in una operazione come quella messa a segno con Beeple non è particolarmente rasserenante, in un mondo come quello dei “crypto puristi” che ideologicamente vorrebbe liberarsi da qualsiasi “gatekeeper” per l’accesso ai “mercati”.

A questo punto, viene da chiedersi come mai altre applicazioni (non troppo dissimili) della blockchain per autenticare l’arte abbiano catalizzato meno attenzione (come nel caso di Verisart, Artory o Codex) o siano addirittura scomparse (come ad esempio Monegraph, lanciato nel 2014, e su cui si tornerà a breve). Vi è chi dice che tutte queste realtà mantenevano una separazione molto più chiara e intellegibile tra l’opera d’arte fisica e la sua rappresentazione “on-chain”, mentre gli NFTs tendono a confondere maggiormente questa distinzione e questo confine prestandosi così ad operazioni meno chiare, ma proprio per questo molto più eccitanti.

Lo stesso tipo di opacità e di contorni molto sfumati si rileva quando proviamo a ricostruire i rapporti tra gli NFTs e la regolamentazione della proprietà intellettuale.

IL DIRITTO D’AUTORE

Partiamo dal precedente “storico” degli NFTs (che non sono quindi nemmeno una novità, come già anticipato!): nel maggio 2014 l’artista Kevin McCoy vendette una GIF alla conferenza Rhizome’s Seven on Seven ad un “collezionista” pioniere, di nome Anil Dash, e il trasferimento della proprietà venne riportato su una blockchain chiamata Namecoin: i metadati iscritti su quest’ultima, comprendevano un link alla licenza, un link al lavoro, una “hash” (una sorta di impronta digitale) del lavoro, e una semplice affermazione riguardante la proprietà, come parte del sistema Monegraph, cui si è già accennato. Dash pagò per tutto ciò, per questo primo esperimento di vendita di un lavoro digitale via blockchain, ben 4 dollari!

Passati altri quattro anni, nel 2018,  in un clima di maggiore euforia durante un’asta tenutasi in occasione di una conferenza sulle crypto valute al Knockdown Center del Queens/New York, un’opera d’arte digitale di Guile Gaspar, in cui però un portafoglio hardware era incorporato nel lavoro fisico che veniva così garantito da un token digitale, fu scambiata per 140.000  dollari, dando vita ad una categoria di “collectibles” chiamata CryptoKitty. Il token incorporato nel lavoro permetteva al CryptoKitty di essere scambiato, venduto e generato come un bene digitale nel CryptoKitties marketplace. Il lavoro manteneva così una sua fisicità, e le crypto valute avevano finalmente trovato qualcosa di significativo verso cui indirizzarsi.

Il mercato dei “collectibles” CryptoKitty (a metà tra il gaming ed il trading) esplose, e dietro larga parte del suo successo vi era l’introduzione dell’ERC-721 Standard, che aveva definito per la prima volta gli elementi minimi che deve possedere lo smart contract-codice che viene eseguito sulla blockchain una volta che certe condizioni si sono verificate, per assicurarsi che si tratti di un collectible digitale pezzo unico, e che è uno standard che è ancora la base per gli NFTs su Ethereum.

Ma tale standard mentre poteva ben funzionare per il trading dei CryptoKitties, è decisamente meno adatto per un’arte, una pratica digitale come quella così detta “nativa” (perché nasce sul digitale come fenomeno a sé), per la quale non funziona affatto l’idea di un file digitale da conservarsi immutato per sempre. Al contrario, è proprio la variabilità costante dei codici, e quindi il generare opere d’arte basate su software dinamici che le fanno variare di continuo, la cifra stilistica degli artisti nativi digitali che conducono le ricerche più interessanti e che vengono maggiormente riconosciuti, e acquistati, da un pubblico colto di collezionisti di opera d’arte (e non di meri “collectibles”), che non sanno quindi che farsene degli NFTs.

Inoltre, la prima generazione di CryptoKitties era stata creata solo da alcuni sviluppatori, la sua autenticità era quindi garantita dall’App stessa, e tutte le immagini generate rimanevano quindi sotto il copyright dei programmatori in questione; inoltre, lo smart contract che governa il codice sorgente di tale app fissa un limite prestabilito al numero di Kitties che gli sviluppatori possono rilasciare, motivo per cui gli utilizzatori possono stare certi che il mercato non ne verrà inondato.

Niente di tutto ciò, né a livello di limiti nella produzione/generazione né a livello di autenticità e provenienza, può essere applicato all’attuale “mercato” dell’arte degli NFTs: le definizione di proprietà non è infatti specificata nell’ERC-721 Standard stesso, ma si trova in una licenza separata che disciplina l’uso della App (ma solo della App CryptoKitty), che è una licenza piuttosto generosa, che consente di fare trading, vendere, regalare o disfarsi dell’NFT, ma non attribuisce nessun altro diritto o licenza. E pur costituendo un sicuro precedente per gli NFTs collegati a delle opere d’arte digitali, non risolve il principale dei problemi: non offre cioè una generale definizione di cosa vuol dire “essere il proprietario” di un oggetto digitale con NFT, né quali diritti restano invece al suo creatore; né tantomeno prevede un meccanismo di royalties a favore degli sviluppatori/artisti/creatori ad ogni rivendita.

In altre parole, una licenza di questo tipo, qualora fosse applicabile — e anche questo è un punto tutto da indagare (si tratta di un semplice precedente creato per la App che rilascia CryptoKitty) — anche al “mercato” dell’arte degli NFTs, lascerebbe comunque irrisolte tutte le principali problematiche che vengono regolate dalla proprietà intellettuale. 

VENDERE SULLA BLOCKCHAIN

A onor del vero, a eccezione dello standard ERC-721 di CryptoKitty, tutte le piattaforme in cui vengono scambiati NFTS prevedono delle forme di fees di rivendita a favore dei creatori: ma nel momento in cui l’NFT viene scambiato “off-chain” — attraverso un dealer o una casa d’asta — gli artisti perdono qualsiasi garanzia di avere delle resale royalties, di cui avrebbero viceversa goduto se la transazione fosse avvenuta “on-chain”.

Motivo per il quale i più acuti commentatori dell’asta che ha visto protagonista l’ormai noto The First 5.000 days di Beeple, sostengono come a rigore non si tratti nemmeno di un vero e proprio NFT: infatti quello che dovrebbe perlomeno distinguere la vendita di un dipinto e la vendita di un NFT è l’immediatezza e l’automaticità in quest’ultima, del pagamento del prezzo all’artista e del passaggio di proprietà al compratore (senza bisogno di scambi di fatture, assegni, spedizione dell’opera a pagamento avvenuto, e quant’altro caratterizzi le vendite d’arte, come si usa dire oggi, IRL), tramite una discreta transazione sulla blockchain, istantaneamente documentata, con marcatura di data e ora, ed esaminabile da qualsiasi parte interessata (non solo artista e acquirente). Mentre i medesimi analisti, dopo 36 ore dall’aggiudicazione non potevano non notare come sulla blockchain non vi fosse alcuna transazione verificata che documentasse quei due/tre passaggi necessari a legittimare una vendita di un NFT, in quanto il token non era stato connesso alla piattaforma marketplace di riferimento e la proprietà non era ancora passata.

In questo quadro così incerto e pieno di incognite, non dobbiamo quindi stupirci che molti artisti si stiano lamentando che i loro lavori digitali accompagnati da NFTs circolino più o meno liberamente (il fenomeno non costituisce infatti alcun cambiamento, né alcun rafforzamento per il copyright: funziona tutto come prima da questo punto di vista, e quindi come sempre ci sono abusi). E che un collettivo che si è dato il nome provocatorio di Global Art Museum stia coniando NFTs di opere contenute in musei come il Rijksmuseum di Amsterdam, scambiandoli poi su un marketplace di NFTs chiamato OpenSea, senza nemmeno chiedere il consenso ai musei coinvolti, affermando di condurre un “esperimento sociale”. 

Per chi conosce il funzionamento del “mondo” (non del “mercato” ) dell’arte, in cui spesso il farsi rilasciare un’autentica, o comunque qualsiasi altra documentazione che dovrebbe accompagnare, a seconda dei casi, un’opera d’arte, sia spesso un’impresa — perché molti ne disconoscono o poco comprendono il valore, e soprattutto quanto tale documentazione (compresi i contratti) possa fare la differenza anche in termini di prevenzione di problemi futuri  — , tutto questa eccitazione per gli NFTs, che sono poco più che un PDF che accompagna l’opera, è qualcosa di straordinario e involontariamente incoraggiante: forse — e lo si dice ovviamente come provocazione, per concludere —  sarà finalmente più chiaro quanto valore abbia la documentazione (inclusi i contratti, che siano smart o meno) che dovrebbe sempre, e dico sempre, accompagnare un’opera d’arte.

* La fotografia in pagina è di https://ethereumcode.io/

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