MERCATI
Gli investimenti andranno negli Usa perché l'Europa sarà meno competitiva

colloquio con Gian Franco Traverso, Banca Finnat

La fase Orso del mercato è qui per restare ancora. E anche l'inflazione. Perché non ci sono le condizioni di fondo per ridurla. Mentre negli Usa...

Paola Pilati

È da inizio anno che i mercati finanziari vivono sulle montagne russe. Il mood di fondo è negativo, ma ogni tanto una fiammata di rialzi riaccende le speranze degli investitori sul fatto che la quaresima sia finita. L’instabilità, invece, continua a regnare sovrana. Bisogna rassegnarsi a una cronica volatilità? «Temo di sì», dice Gian Franco Traverso, capo dell’Ufficio studi di Banca Finnat (nella foto), «e questo a causa di due fattori che incombono sulla dinamica dei mercato: l’inflazione e la recessione. Entrambi questi fattori, con gradazioni diverse, presentano un’evoluzione incerta».

Qualcuno è dell’opinione che le banche centrali sottostimino tuttora l’evoluzione dell’inflazione. O che possano essere loro a innescare la recessione con una reazione esagerata…

«È indubbio che le banche centrali hanno venduto per mesi una vulgata che dipingeva il contrario di quello che stava avvenendo. Già da metà del 2021 c’erano dinamiche inflazionistiche che non erano transitorie. Le banche centrali, per l’inerzia che ha contraddistinto la loro operatività iniziale, si sono trovate a rincorrere un’inflazione che alla fine è sfuggita di mano. Ma la Fed e la Bce hanno preso due strade diverse».

Quale valuta migliore?

«La Fed inizialmente non ha toccato i tassi e si è mossa in ritardo. Ma poi ha agito abbastanza efficacemente. Tanto che l’inflazione americana sembra aver raggiunto un punto di flesso: dal 9,1 per cento è già scesa all’8,3. La Fed ha alzato i tassi dallo 0,25 al 3,25. Ma non basta. Andrà avanti perché si vuole costituire munizioni da spendere. Cioè per poter abbassare i tassi nel caso in cui il processo di restrizione monetaria induca una recessione. Come ha fatto già in passato: nel 2007 aveva portato i tassi al 5 per cento, poi durante la recessione del 2008 li ha riportati allo 0,25. Poiché la banca centrale americana sembra voglia arrivare a proseguire nei rialzi fino al livello del 4,5-4,75 entro il primo trimestre 2023, è arduo pensare che non produca qualche forma di recessione. Il punto interrogativo semmai è quanto sarà profonda. Però le mosse della Fed si sono rivelate efficaci: l’inflazione dovrebbe essere sulla china discendente».

E la Bce?

«Qui l’inflazione non ha ancora raggiunto un picco. Anzi, dall’8,3 per cento siamo arrivati al 10. Ma la differenza più preoccupante con gli Usa è che mentre lì i prezzi al consumo segnano una crescita dell’8,3 per cento, quelli alla produzione sono cresciuti dell’8,7. La differenza insomma è insignificante. Nell’Eurozona, invece, i prezzi al consumo crescono del 10 e quelli alla produzione del 38 per cento, e persino del 46 in Germania. Tutto questo è dovuto alla crisi energetica, certo. Ma in questa differenza madornale ci sono fattori di alimentazione dei prezzi al consumo non indifferenti. Tant’è vero che nel 10 per cento non ancora compresi gli incrementi delle bollette energetiche. Ecco quindi il problema: noi non abbiamo raggiunto il picco, come negli Usa. Abbiano sostanzialmente un’inflazione fuori controllo. Ma è mai possibile che la Bce lasci i tassi all’1,5 quando la Fed, con l’inflazione in discesa, li porta al 4,5? È chiaro che la Bce è restia a muoversi perché la situazione economica dell’Eurozona è molto peggiore rispetto a quella americana: i nostri indicatori macroeconomici segnano già recessione. Ma se già arranchiamo, può permettersi la Bce di portare i tassi al 3,5? ».

Infatti molti sconsigliano di seguire l’esempio della Fed.

«Chi pensa che la Bce non debba seguire la Fed fa un ragionamento giusto: qui non si tratta di una inflazione da domanda, ma da offerta. Se è generata dai prezzi energetici, alzando i tassi i prezzi del petrolio non scendono. Quindi tanto vale non alzarli. Anche perché la recessione è già arrivata e ci penserà lei a colpire la domanda aggregata e quindi alla fine un ridimensionamento dei prezzi ci sarà. Però mi domando: visto che la Bce per statuto deve necessariamente controllare l’offerta di moneta e le spinte inflazionistiche, si può permettere di lasciare i tassi all’1,5 con l’inflazione che rischia di arrivare al 15 per cento, quando nei prezzi al consumo saranno incorporate le bollette energetiche?».

Tutta questa incertezza sta portando anche a una perdita di credibilità delle banche centrali, il che non è un fattore positivo…

«Certo. E la Fed, per ovviare a questo, ha detto ai mercati: basta, non tirateci più per la giacchetta, rialzo i tassi finche non ritengo di aver raggiunto un livello accettabile. La Fed insomma sta cercando di ricostruirsi una credibilità. La Bce è invece incline in questa fase a ragionare in modo più politico e meno monetario. Non scordiamoci che Francoforte ha commesso errori di politica monetaria madornali negli ultimi 20 anni. Come quello di attendere sette anni per portare i tassi agli stessi livelli americani, cioè a zero, determinando così la sovra performance dell’economia americana rispetto all’economia europea. È stato un grande sbaglio di politica monetaria».

Continuano intanto a fioccare gli allarmi sui mercati: abbiamo appena archiviato il peggior settembre dai ultimi 20 anni, il dollaro ha raggiunto il massimo degli ultimi vent’anni, le perdite dall’inizio dell’anno in tutti gli indici si aggirano intorno al 20-25 per cento. Nei mercati però ci sono sempre delle opportunità. Quale strategia tenere? Meglio star fermi, o infilarsi in qualche finestra di opportunità, e in quale direzione?

«Dalla fine dell’anno scorso siamo in una fase orso dei mercati. Quello che è atipico è che la fase orso riguardi sia l’azionario che l’obbligazionario. Ma era prevedibile, venendo da dieci anni di tassi a zero. In un mercato orso converrebbe sempre approfittare dei momenti molto negativi per accumulare e vendere sui rimbalzi tecnici».

Converrà che il povero investitore non gestito è un po’ confuso.

«Bisogna avere l’accortezza di riuscire a prendere le fasi intermedie. Cioè di entrare nei momenti in cui sul mercato prevalgono i venditori e aspettare i rimbalzi del mercato per uscire. Ma non è facile. E non bisogna scordarsi che il trend, nonostante qualche fuoco d’artificio, resta ribassista»,

Allora è più prudente stare fermi?

«Nelle fasi negative cash is king, cioè il cash è un asset. All’inizio dell’anno si sosteneva che a star liquidi l’inflazione avrebbe mangiato il 10 per cento. Adesso, se hai investito il 60 nell’azionario e il 40 nell’obbligazionario, ti sei mangiato il 50 per cento del tuo patrimonio con la discesa del mercato, più l’inflazione».

Prospettive?

«Io ritengo che i mercati non torneranno ai livelli dei rendimenti di un anno fa e neanche l’inflazione. Siamo di fronte a movimenti strutturali profondamente inflattivi. Che cosa ha mandato a zero l’inflazione negli ultimi vent’anni? La globalizzazione. Adesso siamo nella fase inversa, abbiamo l’industria che fa reshoring, è questo è un processo inflazionistico. Poi c’è la transizione energetica: certo, è un processo necessario, ma è una transizione inflazionistica. Ci sono insomma fattori che rendono strutturale il cambio di passo dell’inflazione. Non torneremo mai più all’inflazione di un anno fa, come non avremo i rendimenti di un anno fa».

Neanche dai rendimenti al rialzo dell’obbligazionario si può ricavare una nota positiva?

«Ha senso un Bund decennale che rende l’1,79 quando l’inflazione è al 10? Ci siamo troppo abituati negli ultimi 20 anni a cercare dei principi azzurri che intervenissero da fuori del mercato per riportarlo entro i paletti che volevamo vedere. E quindi: nessuno può permettere che la borsa scenda, nessuno può permettere che i tassi salgano, la banche centrali devono per forza intervenire… Non vorrei che quello che sembra allettante oggi sul mercato obbligazionario, alla fine non lo sia. Il mercato obbligazionario, con questo cambiamento del paradigma economico e di inflazione strutturale, non vorrà prima o poi esigere tassi di rendimento positivi?».

Il messaggio insomma è: aspettare che si dipani la nebbia.

«Sì. E comunque la prospettiva migliore al momento ci viene dall’America. Penso che non appena la fase ciclica negativa verrà meno, si assisterà alla ripresa dei flussi investimento verso gli Usa. Anche perché c’è un altro grosso punto interrogativo sull’Eurozona: dove andrà a finire la competitività dell’economia del continente con i costi energetici? È già stato stimato che anche dopo la fase bellica pagheremo il gas il doppio o il triplo rispetto a prima. Quindi le imprese europee pagheranno molto di più di quelle americane. Il punto interrogativo dei prossimi anni sarà il livello di competitività dell’Eurozona rispetto agli Usa».